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Ma non sostenne il nostro cuor mortale
quel silenzio sublime. Si piegò
verso il sorriso delle donne nostre.
E Derbe disse ad Aretusa: «Quando
fiorì di rose il lauro trionfale?».
Era la donna giovinetta alzata,
mutevole onda con un viso d'oro,
tra gli oleandri; ed il reciso ramo
per la capellatura umida effusa,
che fingevale intorno al chiaro viso
l'avvolgimento dell'antica fonte,
intrecciava le rose al regio alloro.
Disse Aretusa: «Bene io te 'l dirò»
mutevole onda con un viso d'oro.
Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafne
lungh'esso il fiume, come si racconta.
La figlia di Penèo correva ansante
chiamando il padre suo dall'erma sponda.
Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
le s'intricavan nella chioma bionda.
Ben così la poledra di Tessaglia
galoppa nella sua criniera falba
che fino a terra la corsa le ingombra.
Rapido il re Apollo più l'incalza,
infiammato desìo, per lei predare.
All'alito del dio doventa fiamma
la chioma della ninfa fluvïale.
«O padre, o padre» grida «tu mi scampa!»
Chiama ella il padre suo con grida vane.
«Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!»
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del desìo predace.
«O gran padre Penèo, perduta sono,
ché mi si rompono i ginocchi. Salva-
mi dalla brama del veloce fuoco
che ora mi giunge, ecco, ecco, ora m'abbranca!»
Ma il dolce sangue suo in altro suono,
la sua bellezza in altro suono parla.
Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.
Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi
e trema e dice: «Or ecco m'abbandono».
Una gioia s'aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l'ardor pe' chiusi cigli e aspetta
d'esser ghermita, e più non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: «Dafne, Dafne, Dafne!».
Ed ella non udì voce più bella.
Il dio la chiama: «Dafne, Dafne!» Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l'allaccia.
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona, e l'ode il padre.
Avido il dio districa la soave
nudità dalla chioma che la fascia.
Bianca midolla in còrtice lucente,
in folti pampini uva delicata!
Tenera e nuda il dio la piega, e sente
ch'ella resiste come se combatta.
Tenera cede il seno; ma dal ventre
in giuso, quasi fosse radicata,
ella sta rigida ed immota in terra.
Attonito, l'amante la disserra.
«Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!»
le copre il vólto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura ed inerte.
S'agita invano. L'atto della fuga
invan le torce il fianco. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l'amante deluso ancor la serra.
«Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?»
giova a trarre colei dalla sua sorte.
Nell'umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
un nodo inviolabile compone.
«O Apollo» geme tal novo dolore
«prendimi! Dov'è dunque il tuo desìo?
O Febo, non sei tu figlio di Giove?
Arco-d'-argento, non sei dunque un dio?
Prendimi, strappami alla terra atroce
che mi prende e beve il sangue mio!
Tutto furente m'hai perseguitata
ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
Salva mio grembo per lo tuo desìo!
Salvami, Cintio, per la tua pietà!
Se i miei capelli, che m'avvinsero, ami,
de' miei capelli corda all'arco fa!
Prendimi, Apollo!» E tendegli le mani,
che son fogliute; e il verde sale; e già
le braccia sino ai cubiti son rami;
e il verde e il bruno salgon per la pelle;
e su per l'ombelico alle mammelle
già il duro tronco arriva; e i lai son vani.
«Aita, aita! Il cuore mi si serra.
Vedi atra scorza che il petto m'opprime!
O Apollo Febo, strappami da terra!
Tanto furente, non sia più ghermire?
Nuda mi prenderai su la dolce erba,
su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.
Ardo di te come tu di me ardi.
O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
Già tutta quanta sentomi inverdire. »
Il dolce crine è già novella fronda
intorno al viso che si trascolora.
La figlia di Penèo non è più bionda;
non è più ninfa e non è lauro ancora.
Sola è rossa la bocca gemebonda
che del novello aroma s'insapora.
Escon parole e lacrime odorate
dall'ultima doglianza. O fior d'estate,
prima rosa del lauro che s'infiora!
Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue
la bocca che querelasi interrotta-
mente. In pallide fibre il cor si sface
ma il suo rossore è in sommo della bocca.
Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;
l'ode implorare ma non ha virtù.
E chiama: «Dafne, Dafne!» Ella non più
implora, non più geme. «Dafne, Dafne!»
Ella non più risponde: è senza voce.
Pur la gola sonora è fatta legno.
Le palpebre son due tremule foglie;
li occhi gocciole son d'umor silvestro;
bruni margini inasprano le gote;
delle tenui nari è appena il segno.
Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,
sola nel lauro la bocca di Dafne
arde e al dio s'offre, virginal mistero.
Curvasi Apollo verso quella ardente,
Ne freme tutta l'arbore; s'accende
l'ombra intorno alla fronte sovrana;
ogni ramo in corona si protende,
e la fronte d'Apollo è laureata.
Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci
or più non sente che foglie vivaci,
amare bacche. E Dafne Dafne chiama.
«Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!
Ahi chi ti fece al mio desìo diversa?
In durissimo tronco e in fronda cupa
la dolce carne tua or s'è conversa.
La tua bocca vermiglia s'è distrutta,
che pareva di fiamma ardere eterna.
Come leggieri i piedi tuoi su l'erba,
or radicati nella negra terra!
M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?
Rispondi!» Abbrividiscono le frondi
sino alla vetta. Nel silenzio un breve
murmure spira. «M'odi tu? Rispondi!»
Move la vetta un fremito più lieve.
Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
cieli le rive alto silenzio tiene.
Il bellissimo lauro è senza pianto;
il dolore del dio s'inalza in canto.
Odono i monti e le valli serene.
Odono i monti e le valli e le selve
e i fonti e i fiumi e l'isole del mare.
Spandesi il canto dall'anima ardente
La bellezza di Dafne ecco riveste
la terra; le sue membra delicate
son monti e valli e selve e fiumi e fonti,
il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,
la sua chioma fa l'oro dell'estate.
O Dafne, sempre il dio e l'uom cantando
non vorranno altro onor che un ramoscello
di te! Così l'Arco-d'-argento, quando
ha placato il suo cuore nell'immenso
inno, pago si giace sotto il sacro
lauro ad attendere il suo dì novello.
Cade la notte. Sul sonno divino
l'arbore luce d'un baglior sanguigno,
qual bronzo che si vada arroventando.
Scorre la notte. Tra l'Olimpo e l'Ossa
una stella tramonta e l'altra sale.
Misteriosa l'arbore s'arrossa
ma sul suo fuoco piovon le rugiade.
Sogna il Cintio la desiata bocca
di Dafne, e balza il suo cuore immortale.
È l'alba, è l'alba. Il dio si desta: un grido
di meraviglia irraggia tutti il lido.
Brilla di rose il lauro trionfale!»