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Icaro disse: «La figlia del Sole
a me poggiata come ad un virgulto
guatava il candido armento dei buoi
pascere lungo il Cèrato rupestro.
umida di sudor gelido; e, dentro
me, tremavano tutte le midolle,
sonavami sì forte ch'io temeva
udir dal sacro Dicte i Coribanti
atroci e il rombo del bronzo percosso.
splendea di mura còttili e di blocchi
oltre l'irto canneto atto a far dardi.
chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava
l'uva cidònia; ché membruto egli era
e gravato di giallo adipe il fianco.
quello che tu non désti a Posidone»
la figlia di Perseide rispose.
dell'Ida biancheggiavan men del toro
niveo diniegato al dio profondo.
«Perché sì tremebondo
sei tu, figlio di Dedalo?» il Re chiese.
E allor Pasife: «Questo ateniese
giovinetto somiglia ad Androgèo
e per ciò mi sostiene,
per ciò tanto m'è dolce
le dita porre nel suo crin prolisso».
i platani gli allori gli oleandri
che l'adombrano, e il bosco degli ulivi
presso Colono caro all'usignuolo.
entro l'anima mia subitamente,
come colui ch'è presso alla sua fine;
perocché nel mio crine
ponea le dita la donna solare,
parean nel suo sorriso accosto accosto
siccome rami cui fiamma s'appicchi
d'aroma e inariditi dall'Estate.
coi rematori seduti agli scalmi
in fila a battere il flutto diviso,
i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti
e tutta quanta l'isola selvosa
con le vigne col dìttamo e col miele
vidi per mezzo ai cigli miei morenti.
udii mugghiare in quel foco sonoro,
diniegato al gran Padre enosigèo».
Icaro disse: «Poi che l'ombra cadde
(il vertice dell'Ida solitario
nell'etra rosseggiava
come il fiore del dìttamo crinito)
nascostamente ritornai su' paschi,
gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliai
contra il toro le selci acuminate
e imposte alla mia frombola cretese.
e mi rincorse ratto su per l'erbe
con la verga di còrilo a minaccia.
nell'ombra che cadea; né mi conobbe,
né l'erbe verdi tenner le vestigia.
per ovunque era sparsa! Palpitare
parea pur anco nelle stelle vaghe!
sùbite aprire nel mio corpo nudo
acerbe sì che non sarìami valso
a medicarle il dìttamo dell'Ida.
compresse la mia gola nell'arsura,
del Labirinto ove il mio padre aveva
perocché vidi il duro fabro alzato
su la soglia difficile in silenzio
e la figlia del Sole in gran segreto
favellare con lui senza sorriso,
come chi chieda all'arte del mortale
una cosa tremenda e non ne tremi».
Icaro disse: «L'officina arcana
era in un orto a vista del recurvo
di ben costrutte navi dalla prora
dipinta; e gli utensìli erano acuti,
e la fronte del fabbro era contratta.
della falsa giovenca nella luce
del dì, quasi che sazia di pastura
spirasse dalle froge il fiato olente
di cìtiso, tranquilla su' piè fessi.
eran gli sculti legni e ricoperti
di fresca pelle, che parean felici
d'ubertà non fallibile i bei fianchi
e le mamme in sul punto di gonfiarsi
all'affluir d'un latte repentino.
venìa Pasife senza le sue donne
ch'ella infiammava della sua lussuria
impaziente; e seco avea l'irsuto
scorse nella giogaia. Il grande artiere
fu docile al consiglio dell'uom rude.
braccia premette gli òmeri miei nudi,
s'abbandonò su me come su fulcro
insensibile, assorta nel suo sogno
inumano, perduta nel portento.
foco dal suolo ov'eran le radici
della mia forza, e tutto m'avvolgea,
parea vi crepitassi e vi splendessi.
aromi, carco di cera e di miele,
ove s'udìa scoppiar la melagrana
come un riso che scrosci e quasi mosto
si liquefaccia in una bocca d'oro!
delle femmine ancelle dal palagio
o i semplici isceglieano al beveraggio
o di carni ammannivan la vivanda
ignare ch'ella fosse innanzi al Sole
preda schiumosa d'Afrodite infanda».
Icaro disse: «La figlia del Sole
amai, che per libidine soggiacque
alla bestia di nerbo più potente.
la sua carne quand'ella penetrava
nel simulacro per imbestiarsi.
Io, quando vidi il callido boaro
alla falsa giovenca il toro bianco
sonoro con la fersa della coda
adorno i corni brevi d'una lista
di porpora, balzai gridando: «O Sole,
a te consacrerò, sopra la rupe
inconcussa, oggi un'aquila sublime!»
con la bipenne l'arco e le saette,
ben coturnato, a far le mie vendette».
Disse: «Da prima vidi l'ombra vasta
palpitar su la torrida petraia.
Fulvo il macigno, cerula era l'ombra.
delle penne per l'aer verberato.
ella repente, ferma su le penne;
la corda mia nel tendersi stridette;
il grido parve lacerare il cielo
e lo stridor fu lieve qual garrito
che si partì fu forte e fu cruento.
del volo che fece impeto a salire,
poi si fiaccò, girò come in un turbo,
piombò verso lo scrìmolo del monte.
una goccia di sangue larga e calda
come goccia di nuvolo d'agosto
L'aquila s'abbattè sul sasso prona
crude che strepitarono sul sasso,
erta sùbito il rostro alla difesa.
La roccia discoscesa
ardeva nel meriggio come il ferro
nella fucina, sotto i miei coturni.
era come la scoria dei metalli
liquefatti, e la fronda degli avorni.
S'udìano i capricorni
belare in mezzo al dìttamo crinito,
e l'odore dell'erba vulneraria
tremula con l'odor dell'aquilino
sangue che d'ogni sangue è più vermiglio.
fu pronta la satellite di Giove
a combattere contra il feditore
su la rupe inconcussa.
se tu sei senza volo, io sia senz'armi».
qual uomo a saettarla di lontano.
Ma gittai l'arco; e mi fasciai la mano
con il corame della mia faretra,
a difesa degli occhi minacciati
dal becco adunco. Feci impeto, entrai
in un selvaggio fremito di penne;
in un orrendo strepito di penne
come in un nembo fulvo preso fui
dalla possa grifagna;
sentii fuggirmi sotto le calcagna
Combattemmo nel rombo della morte.
Io con la destra le afferrai la strozza
robusta come tronco di serpente,
e strinsi e strinsi; e con la manca trassi
dalla ferita fresca il dardo primo,
Combattemmo sul ciglio degli abissi,
in cospetto del Sole, a mezzo il giorno.
alla zuffa ogni bàttito di penne
di sangue come porpora in faville
accesa ed isvolata via per festa.
pareva di faville incoronarsi.
e del petto e del collo e delle ascelle
E un rivolo purpureo dal rostro
colava sul mio braccio imporporato
fino al cùbito. E làcera dai colpi
delle rampe la destra coscia m'era
sì che la messaggera
Nike, se mai sostò sul solitario
vertice andando verso Atene mia
dell'oleastro, fece il paragone
tra l'aquilino sangue e il sangue icario.
Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.
Parvemi, quando apersi il pugno ostile
alfine spenta, parvemi che tutta
la sua virtute aligera mi fosse
nelle braccia e negli òmeri trasfusa
e m'agitasse i fragili precordii
una immortale avidità di volo.
e l'esanime preda eran con meco,
e il dio della lucifera quadriga.
questa vittima t'offro in olocausto
dove agiti le tue criniere bianche.
Il torace le viscere le branche
in un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardo
Concedi, o dio magnifico, se m'odi,
concedimi che immuni dalla brace
io dell'aquila serbi l'ali forti
e con meco le porti
perché le veda entrambe il padre mio
perché due me ne foggi a simiglianza
l'uomo di molti ingegni, ma più forti,
ma con più grande numero di penne».
che al cinto appesa avea dietro le reni:
con ella diedi nelle congiunture,
di muscoli e di tendini gagliarde
così che resisteano al doppio taglio.
«Ahi che l'incudine e il maglio
e l'industria paterna non varranno
nella scapula somma» io mi pensai
considerando, come il citarista
la tenacia del nesso tendinoso
che biancheggiava di color di perla
nel cruore. E la mente ne fu trista.
E trista fu la mozza ala, a vederla.
E, nel fuoco di sterpi fumigando
la residua carne offerta al Sole,
il dio solingo sul suo carro ardente
La figlia sua nel simulacro infame
ei vide, onniveggente;
e dell'arte di Dedalo si cruccia
e mi scopre nel cor la piaga acerba,
cui dìttamo né stebe non mi vale».
congiunte con la stringa del mio cinto;
e l'alta volontà fu la compagna
quando, scorto dal dio, di sangue tinto,
scesi dal monte verso il Labirinto».
Icaro disse: «L'officina arcana
era in una caverna del dirupo,
a levante di Cnosso, erma sul mare.
e stridere d'uccelli senza tregua,
pe' fóri dello scoglio ferrugigno.
consparso era d'antichi dolii rotti
e di fimo biancastro.
Rimbombavano al Giàpice salmastro
come le curve targhe dei Cureti
all'urto delle picche furibonde.
Sotto, il fragor dell'onde
avea lunga eco per ambagi ignote
quando l'Apeliote
enfiava i verdazzurri otri del sale.
Quivi all'innaturale
opera intento era il mio padre, quivi
oprava senza incude e senza maglio.
e affanno, ché pareami troppo tarda
la sua fatica per il mio desìo
e sempre poche mi parean le penne
adunate dinanzi a lui che oprava.
stretta in pani, col pollice e col fiato
ammollii; dispennai la copiosa
cacciagione; sollecito le penne
Il sangue onde imperlavasi l'acume
vertudioso parvemi; e mi piacque
a stilla a stilla suggerlo, accosciato
presso il fabro mirabile che oprava
Quante volte votai la mia faretra,
I falchi gli sparvieri e le poiane
calvi gravati di carni lugùbri,
e gli astori co' resti dei colùbri,
ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimonii
accòmodi al tibìcine, ogni specie
pennipotente altivolante cadde
per la forza degli archi miei cidonii
E mi tornava io carico di preda
e pur sempre pareva al mio desìo
che fosse tarda l'opera paterna.
e della ragia, ché l'operatore
chiare al dono trattabile dell'ape,
acciocché questo fosse più tegnente.
Escluso avea dall'opera i metalli
come gravi ch'ei sono, e l'armatura
composto avea con le vergelle ferme
del còrilo e pieghevoli, congiunte
da bene intorto stame in ciechi nodi,
e sópravi disteso avea l'omento,
la grassa rete che le interiora
degli animali include, ben dissecco.
E sul congegno solido e leggero
ei disponea per ordine le penne,
dalla più breve alla più lunga elette
acutamente, come nella fistola
di Pan le avene dìspari digradano
per la natura dei diversi numeri.
E lino e cera usava a collegarle,
cera immista di ragia, come dissi.
E le sapeva inflettere con tanta
della vita, che l'ala su la pietra
inerte parea trepida e tepente
come fosse per rompere dal nido
o per posarsi dopo lungo volo».
Icaro disse: «Non veduto, vidi.
Misi gli occhi per entro ad un rosaio,
ove all'alito mio silentemente
si sfogliarono due tre rose passe.
Parve che si sfogliasse
con elle e si sfacesse il cuor mio caro.
mi fu tutto che vidi non veduto,
ove non più s'udìa la pingue gomma
gemere né scoppiar pomo granato
come riso puniceo che scrosci.
erano, grinzi come cuoi risecchi
le cellette soavi, aride spugne,
informe fatta come vil carcame
offerta dalla frode al toro bianco
figlia del Sole e dell'Oceanina,
Pasife di Perseide, il cui vólto
m'era apparito come il penetrale
della luce nel tempio dell'iddio
dell'isola che fu cuna al Cronìde
ricca in dìttamo in uve in miele e in dardi,
l'adultera dei pascoli era quivi
Bocca anelante, nari acri, occhio intento
avea, pallido volto come l'erbe
e dalle schiume della sua lussuria.
della sua chioma la facea selvaggia
che defessa dall'orgia ansi in un botro
fra il tirso spoglio della fronda e l'otro
voto del vino, al gelo antelucano.
Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,
fremere il figlio suo bovino e umano».
Icaro disse: «Era stellato il cielo,
nella vigilia mia meravigliosa.
nel mio cor vigile era la più grande.
eran lungi da me come da un dio
dileguarmisi il triste peso come
dal cielo eòo si dileguava l'ombra,
un aereo sangue irradiarsi.
i pallidi crepuscoli, il messaggio
della Titània fece su per l'acque
Subitamente il giubilo del mare
si converse in desìo tumultuoso,
irto le innumerevoli sue squamme.
Allor tutte le fiamme
del giorno dal mio cor parvero nate,
per sempre tramontate
dietro di me le stelle della notte,
già nel periglio glorioso aperte.
si giacevan gli esànimi congegni,
e le mie braccia umane erano spoglie
che la mia scure avea tronca sul monte
E sùbito mi fu nella memoria
la tenacia del nesso tendinoso
che biancheggiava di color di perla
«Aquila vinta» dissi «Icaro, figlio
ai tuoi mani consacra i ligamenti
arteficiati e fragili dell'ali
perché, come ti vinse combattendo
lungi e presso, così nel tuo dominio
vincerti vuole d'impeto e d'ardire».
E il mio padre destai dal sonno. Dissi:
«Padre, è l'ora». Non altro dissi. Muto
stetti mentr'ei m'accomodava l'ali
agli òmeri, mentr'ei gli ammonimenti
«Giova nel medio limite volare;
ché, se tu voli basso, l'acqua aggreva
le penne, se alto voli, te le incende
il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.
Abbimi duce, séguita il mio solco.
Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso.
Io ti segno la via. Sii buon seguace».
E le mani perite gli tremavano.
Il mirabile artiere ebbi in dispregio
silenziosamente. «Al primo volo
io con te lotterò, per superarti.
Fin dal battito primo, io sarò l'emulo
tuo, la mia forza intenderò per vincerti.
E la mia via sarà dovunque, ad imo,
a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,
sarà dovunque e non nel medio limite,
non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi»
risposegli il mio cor silenzioso.
E gli sovvenne della grande frode
(difficile all'oblìo questo mio cuore
sì che l'acqua del Lete non ci valse:
furon pur tre le tazze tracannate)
e del dolo fabrile gli sovvenne.
Fra le mani perite che tremavano
riveder seppe gli utensìli acuti
intesi a compiacer la trista voglia.
«Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo.
Volerò senza foga, e tu mi segui».
Ma con l'arte dell'aquila io spiccai
dal limitar della caverna un volo
sì veemente che diseparato
fui sùbito. Gli stormi isbigottirono
su per le rosse rupi, in fuga striduli
temendo la rapina dileguarono.
Oh libertà! Pel corpo nudo l'aere
matutino sentii crosciarmi, gelido
tutto rigarmi di chiarezza irrigua:
non i torrenti ove uso fui detergere
dopo le cacce la sanguigna polvere
m'avean rigato di sì grande giòlito.
Oh nel cor mio rapidità del palpito
ond'era impulso il volo, in egual numero!
Pareami già gli intaversati bàltei
esser conversi in vincoli tendìnei,
tutto l'azzurro entrar per gli spiracoli
del mio pulmone, il firmamento splendere
sul mio torace come sul terribile
petto di Pan. Gridava «Icaro! Icaro!»
il mio padre lontano. «Icaro! Icaro!»
Nel vento e nella romba or sì or no
mi giungeva il suo grido, or sì or no
giungeva alla mia gioia impetuosa.
«Icaro!» E fu più fievole il richiamo.
«Icaro!» E fu l'estrema volta. Solo
fui, solo e alato nell'immensità.
Passai per entro al grembo d'una nuvola:
un tepore un odore dolce e strano
eravi, quasi l'alito di Nèfele
madre d'Elle che diede nome al ponto.
Il vento del remeggio i veli tenui
sconvolse, un che di roseo svelò,
un che di biondo. Odore dolce e strano
m'illanguidiva, inumidiva l'ali.
Il vol decadde. Vidi undici navi
di prora azzurra fornite di tolda,
che flagellavano il mar con la palma
dei remi in lunga eguaglianza concordi,
andando a impresa lontana. Sul ponte
pelte lunate luceano e di bronzo
clìpei tondi, aste lunghe. Mi giunse
l'urlo dei nàuti. Veloce volai,
oltre passai. Qual fu dunque la mente
dei nàuti rudi mirando il prodigio?
Come di me favellarono? Dissero
forse: «In un campo di strage la màscula
Nike, nell'ombra d'un cumulo grande
dai carri estrutto riversi e dirotti,
o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri,
sul suol cruento cedette all'eroe
che l'afferrò per la chioma; e fu pregna.
E quei che rema lassù con tant'ala
è certo il figlio di lei giovinetto».
Di queste l'alto cor mio si compiacque
di Nike avrebbe ei voluto infierire.
E vidi poi sotto fulgere in Paro
iscalpellata il candor del Marpesso.
salir vapore di caste ecatombi.
Poi non vidi altro più, se non il Sole.
Poi non volli altro più, se non da presso
mirarlo eretto sul suo carro ignìto,
di prendere pei freni il suo cavallo
sinistro, Etonte dalle rosse nari.
d'Erme Cillenio avea conquisi il mio
sogno meridiano, il mio delirio.
altissimo nel medio orbe, nell'arce
somma dei cieli Elio d'Eurifaessa.
ed offerirgli l'ali che sul monte
crètico escluse avea dall'olocausto.
il valor mio ché l'animo agitava
le morte penne, l'animo immortale
Ed ecco, vidi come un'ombra lieve
sotto di me nella profonda luce
del mare cieco e dell'opaca terra;
ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra.
Ma il cor non mi mancò. Non misi grido
verso il mio fato, come la devota
né rimpiansi il paterno ammonimento.
in giuso; e l'ombre lievi eran le penne
dell'ali, che cadeano tremolando
Mi sollevai con impeto di vita
verso il Titano: udii rombar le ruote
del carro sul mio capo alzato; udii
lo scàlpito quadruplice; il baleno
scorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo
dei cavalli. Piròe dalla criniera
sublime, Etonte dalle rosse nari.
annitrirono. Il ventre di Flegonte
brillò come crisòlito; la bava
d'Eòo fu come il velo d'Iri effuso.
che teneva le rèdini, la fersa
garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia.
indicibile, sotto la gran chioma
ambrosia, verso me si volse china;
e i raggi le cingean mille corone.
t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offre
che seppero salire fino a Te!»
Si disperse nel rombo delle ruote
la mia voce che non chiedea mercè
precipitai nel mio profondo Mare».
Icaro, Icaro, anch'io nel profondo
Mare precipitai, anch'io v'inabissi
la mia virtù, ma in eterno in eterno
il nome mio resti al Mare profondo!