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Era l'aurora quando in mezzo ai salici
mi rinvenne l'Egìpane biforme.
Uom che m'odi, il tuo spirito che dorme
più non vede gli antichi numi italici!
Vivon eglino pieni di possanza:
hanno il fiato dei boschi entro le nari;
i gioghi venerandi han per altari,
e di sé fanvi testimonianza.
Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto
il cor si sface come frutto putre.
E la Terra materna invan ti nutre
de' suoi beni. Tu plori al suo conspetto!
Possentemente rise in suo pél falbo;
poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori
umidi: mi credea gonfio di vino.
Dava schiocchi la lingua sua salace
mentr'ei m'aprìa. Ma pél non gli tremò
quando scoperse il teschio e il grumo; «Tò»
disse «nell'otro il capo del gran Trace!»
E sopra l'erba mi sgravò del reo
peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,
lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio
gridando: «Tu non sei capo d'Orfeo!»
Tal era il riso de' suoi denti scabri
quale un rio lapidoso. Allor nell'acque
chiare mi terse; m'asciugò. Gli piacque
anco d'enfiarmi co' suoi curvi labri.
Pieno fui del divino afflato, pieno
fui del selvaggio spirito terrestro!
Venne allora il Panisco, che mal destro
era nel nuoto, al bel fiume sereno.
E il nume padre a lui mi diede; ed io
tenerlo a galla seppi, io lo sorressi
nel nuoto quando i piccoli piè féssi
Molto l'amai. Dall'ombelico in giuso
di pél biondiccio qual cavriuoletto
era ma liscio il rimanente, eretto
il codìnzolo, un po' lusco e camuso.
Tenérmigli solea sotto l'ascella
ove appena fiorìa qualche peluzzo
rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo
tema non mi bucasse per rovella,
sì rapido era il pueril corruccio
s'ei districava il piè dall'erba acquatica
o alzar vedeva l'anatra selvatica
o sentiva guizzar da presso il luccio.
Viride Serchio in tra due selve basse!
Mattini estivi, quando il bel Panisco
biondetto sen venìa, cinto d'ibisco
roseo, con suoi lacci e con sue nasse!
Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.
Omai fendeva le più rapide acque;
sì che più giorni e più l'otre si giacque
solo nel limo, e alfin rimase vòto.