IV.
E
come l'esule torna
alla
cuna dei padri
su
la nave leggera:
il
suo cor ferve innovato
nell'onda
prodiera,
la
sua tristezza dilegua
nella
scìa lunga virente:
io
così sciolsi la vela,
coi
compagni molto a me fidi,
in
un'alba d'estate
ventosa,
dall'àpula riva
ove
ancor vidi ai cieli
erta
una romana colonna;
io
così navigai
alfin
verso l'Ellade sculta
dal
dio nella luce
sublime
e nel mare profondo
qual
simulacro
che
fa visibili all'uomo
le
leggi della Forza
perfetta.
E incontrammo un Eroe.
Incontrammo
colui
che
i Latini chiamano Ulisse,
nelle
acque di Leucade, sotto
le
rogge e bianche rupi
che
incombono al gorgo vorace,
presso
l'isola macra
come
corpo di rudi
ossa
incrollabili estrutto
e
sol d'argentea cintura
precinto.
Lui vedemmo
su
la nave incavata. E reggeva
ei
nel pugno la scotta
spiando
i volubili vènti,
silenzioso;
e il pìleo
tèstile
dei marinai
coprivagli
il capo canuto,
la
tunica breve il ginocchio
ferreo,
la palpebra alquanto
l'occhio
aguzzo; e vigile in ogni
muscolo
era l'infaticata
possa
del magnanimo cuore.
E
non i tripodi massicci,
non
i lebeti rotondi
sotto
i banchi del legno
luceano,
i bei doni
d'Alcinoo
re dei Feaci,
né
la veste né il manto
distesi
ove colcarsi
e
dormir potesse l'Eroe;
ma
solo ei tolto s'avea l'arco
dell'allegra
vendetta, l'arco
di
vaste corna e di nervo
duro
che teso stridette
come
la rondine nunzia
del
dì, quando ei scelse il quadrello
a
fieder la strozza del proco.
Sol
con quell'arco e con la nera
sua
nave, lungi dalla casa
d'alto
colmigno sonora
d'industri
telai, proseguiva
il
suo necessario travaglio
contra
l'implacabile Mare.
«O
Laertiade» gridammo,
e
il cuor ci balzava nel petto
come
ai Coribanti dell'Ida
per
una virtù furibonda
e
il fegato acerrimo ardeva
«o
Re degli Uomini, eversore
di
mura, piloto di tutte
le
sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi
perigli
conduci
il legno tuo nero?
Liberi
uomini siamo
e
come tu la tua scotta
noi
la vita nostra nel pugno
tegnamo,
pronti a lasciarla
in
bando o a tenderla ancóra.
Ma,
se un re volessimo avere,
te
solo vorremmo
per
re, te che sai mille vie.
Prendici
nella tua nave
tuoi
fedeli insino alla morte!»
Non
pur degnò volgere il capo.
Come
a schiamazzo di vani
fanciulli,
non volse egli il capo
canuto;
e l'aletta vermiglia
del
pìleo gli palpitava
al
vento su l'arida gota
che
il tempo e il dolore
solcato
aveano di solchi
venerandi.
«Odimi» io gridai
sul
clamor dei cari compagni
«odimi,
o Re di tempeste!
Tra
costoro io sono il più forte.
Mettimi
alla prova. E, se tendo
l'arco
tuo grande,
qual
tuo pari prendimi teco.
Ma,
s'io nol tendo, ignudo
tu
configgimi alla tua prua.»
Si
volse egli men disdegnoso
a
quel giovine orgoglio
chiarosonante
nel vento;
e
il fólgore degli occhi suoi
mi
ferì per mezzo alla fronte.
Poi
tese la scotta allo sforzo
del
vento; e la vela regale
lontanar
pel Ionio raggiante
guardammo
in silenzio adunati.
Ma
il cuor mio dai cari compagni
partito
era per sempre;
ed
eglino ergevano il capo
quasi
dubitando che un giogo
fosse
per scender su loro
intollerabile.
E io tacqui
in
disparte, e fui solo;
per
sempre fui solo sul Mare.
E
in me solo credetti.
Uomo,
io non credetti ad altra
virtù
se non a quella
inesorabile
d'un cuore
possente.
E a me solo fedele
io
fui, al mio solo disegno.
O
pensieri, scintille
dell'Atto,
faville del ferro
percosso,
beltà dell'incude!
E
contemplai, di contro
a
Same dai foschi cipressi,
Itaca petrosa,
il
Nèrito aspro nudato,
la
patria angusta
di
quella incoercibile Forza.
E
veder parvemi il tetto
securo,
la soglia polita,
le
stanze purgate dai morbi
con
fumido solfo,
le
fanti dai cinti vermigli
intente
a forbir seggi e deschi
con
le spugne lor cavernose
o
a torcere i lor fusi
versatili
o a scardassare
le
lane, e la tarda nutrice
Euriclèa
che valse già venti
tauri,
e l'economa Eurinòme,
e
Femio il cantore, e nell'orto
cinto
di pruni Laerte
curvo
a rincalzare l'arbusto.
Or
la figlia d'Icario
guatava
la torma dell'oche
clamose
beccare dal truogo
il
biondo fromento, e niuna
aquila
calata dal monte
franger
la cervice alle imbelli
come
nel sogno antico.
Ma
il talamo vasto,
tutto
di legno d'olivo
lavorato
di man dello sposo,
confitto
con chiovi d'argento
saldamente
al ceppo natìo
che
abbarbicato era con ferme
stirpi
alla durezza terrestre,
il
talamo antico d'Ulisse
anco
una volta deserto
si
stava, e per sempre,
sotto
la pelle bovina
cui
rodean le vigili tarme.
«Deh,
un qualche iddio mi rapisca,
O
mi fieda Cintia d'un telo!»
Rammaricavasi
acerba
la
moglie incorrotta. E la casa
di
strepitosi chieditori
sonante
e di danze e conviti
ripensava
ella nel tristo
suo
petto. E improvviso a rancore
pestifero
cedea
la
più che ventenne costanza!
Fatta
era l'alta reina
simile
a femmina ancella,
poiché
queste dicea parole:
«Deh,
avess'io scelto a marito
il
più ricco e valente
dei
Proci, accolto avessi il figlio
di
Polibo Eurìmaco o il figlio
d'Eupite
Antinòo,
e
seco passata io fossi
ad
altra dimora, più tosto
che
attendere l'uomo cui solo
è
talamo grato la tolda
a
sciogliervi il cinto dell'onda!».
E
il savio Ulissìde
Telemaco
dal suo seggio
coperto
di velli manosi
governava
i porcari.
E
il pallido adipe, onde un disco
recato
avea Melanzio ai Proci
con
la panca e la pelle
e
la brace perché si scaldasse
e
ugnesse e ammollisse il nervo
dell'arco
nel dì della strage,
l'adipe
grave su l'epa
cresceva
e pe' lombi e nel collo
del
savio Ulissìde.
E
partiva il suo letto
di
belle coltrici adorno
con
una florida fante
ei
che, ospite imberbe, mirato
avea
splendere Elena a Sparta
e
ricevuto il bel peplo
da
Elena e bevuto il nepente
di
Elena alla mensa ospitale.
«Contra
i nembi, contra i fari,
contra
gli iddii sempiterni,
contra
tutte le Forze
che
hanno e non hanno pupilla,
che
hanno e non hanno parola,
combattere
giovami sempre
con
la fronte e col pugno
con
l'asta e col remo
col
governale e col dardo
per
crescere e spandere immensa
l'anima
mia d'uom perituro
su
gli uomini che ne sien arsi
d'ardore
nell'opre dei tempi.
Sol
una è la palma ch'io voglio
da
te, o vergine Nike:
l'Universo!
Non altra.
Sol
quella ricever potrebbe
da
te Odisseo
che
a sé prega la morte nell'atto.»
Tali
volgea pensieri
il
Re sul ponto oscurato.
O
Itaca dura di rupi,
l'ombra
che tu protendesti
nell'occaso
del Sole
tal
fu per l'anima mia
qual
pel figlio della dogliosa
nereide
lo stigio lavacro!
Caduto
era ogni soffio.
Nelle
anse di Same sonore
placavasi
il rombo
come
nelle ritorte
bùccine
quando il dio cessa
d'enfiarle
col labbro salino.
Simili
a sarisse di bronzo
nel
macigno confitte
i
lacrimabili cipressi,
interrotto
il gemito amaro,
parevano
pronti a ferire.
Scorgeasi
la glauca Zacinto
lungi,
e il Cillene, e la costa
crassa
cui nutre di molta
rapina
il selvaggio Achelòo.
Salir vidi un placido fumo
allora,
di tra gli oleastri
che
coronan col segno
del
buon lottator la Petrosa;
e
dolsemi il cor dentro al petto,
ché
pel sangue mi corse
pensier
della madre lontana,
pensier
delle dolci sorelle
e
del mio focolare.
E
m'apparve il bel fiume ove nato
fui
di stirpe sabella,
Aterno
di rossa corrente
cui
cavalca il ponte construtto
di
carene di travi
d'ormeggi,
spalmato di pece,
in
vista al monte nevoso
che
ha forma d'ubero pieno.
E
la tomba m'apparve sul poggio
chiomante
di pini, ove il padre
riposa
le sue grandi ossa
ond'io
m'ebbi tempra sì dura.
E
dissi nell'ombra: «O sorelle,
tre
come le porte del tempio,
tre
come il trifoglio dei paschi,
tre
come le Càriti leni,
la
prima dai floridi ricci
salubre
qual cespo di menta
in
docile rio, la seconda
a
me simigliante nel vólto
ma
quasi d'un velo soffusa
argenteo
sì ch'io mi creda
specchiarmi
in sul fare dell'alba
a
un fonte di acque serene,
la
terza dagli occhi bovini
robusta
qual fu giovinetta
la
figlia di Rea, della madre
sostegno
ridente, o mie dolci
sorelle,
non io vi obliai
e
di me voi favellate
nel
vespero forse, dal tetto
arguto
di nidi guardando
verso
l'Adriatico Mare.
Pur,
se taluna di voi
improvviso
mirasse
l'aspetto
della mia
Libertà,
d'orror tremerebbe
e
di spavento, perduto
credendo
il fratello suo caro,
per
sempre perduto;
né
più oserebbe toccarmi
né
dirmi parola di pace.
E
bagnerebbe di pianto
le
incolpabili mani
materne,
alla misera donna
pregando
l'oblìo del suo nato.
E
lo stranier che merca
e
froda al publico sole,
il
falso mendico che ostenta
nel
trivio l'ulcera immonda,
il
marinaio rissoso
che
batte il fanciullo e il vegliardo
parrebbero
a quella men empii
del
caro fratello perduto!
Gèniti
d'un grembo, d'un sangue,
d'un
atto d'amore noi siamo,
sorelle.
E, se penso le vene
su
la vostra tempia non cinta
più
cerule e tenui dell'ombre
cui
le frondi pie dell'ulivo
fan
sul vello dell'agna
che
pasce da presso, io sorrido
d'una
tremante dolcezza
e
le medesime vene
guardo
ne' miei pallidi polsi,
che
battono sì violente
di
desiderio implacato.
E
le mie virtù, i miei vizii,
i
miei delitti, i miei gaudii
letiferi,
i miei operosi
tormenti,
le occulte mie glorie,
i
sogni indicibili, tutto
il
fiume rapace del mio
essere
tingemi i polsi
di
quel vostro azzurro sì lieve!
O
consanguinei fiori,
o
pure ghirlande sospese
alla
fronte del focolare,
s'io
torni ove nacqui,
in
tema starò sorridente
dinanzi
alla vostra allegrezza
come
il viandante che sosta
e
parco è di chiare parole
ché
agli ospiti cela il suo stato.
Ma
tu, o madre mia forte,
che
mi generasti con tante
grida
nel mese fecondo
che
da Marte si noma,
entrando
il Sole nel segno
dell'Ariete
durocozzante,
mentre
passavan sul nostro
tetto
col volubile nembo
i
pòllini di primavera,
tu
subitamente svelato
m'accoglierai
tutto qual sono
nella
luce del tuo dolore.
Qual
sono, per te sarò sacro,
per
te gloriosa in patire
e
resistere, o madre!
E
tu, che immota rimani
a
costringer nelle tue braccia
come
in ferrea zona la casa
fenduta
dai fulmini, il soffio
dell'immenso
mondo
in
me sentirai vorticoso,
senza
terrore, e tutto
saprai,
pur quello che ignoto
mi
sta nel profondo, pur quello
che
sta nel Futuro, inspirata
di
conoscenza celeste.
E
mi dirai: «O figlio,
t'ho
fatto di vita sì breve
e
d'insaziabile cuore!
Giusto
è che tanto t'affretti
a
cercare a lottare a volere,
lontan
dalla madre
che
farti non seppe immortale».
Gloria
al tuo capo, o madre!
Sii
tu testimone sublime
di
mia verità sotto il cielo.
O
Solitaria,
o
Dolorosa,
o
Paziente,
non
sono io forse il tuo grido?
Il
tuo inconsapevole grido
che,
riconosciuto, si spande
su
gli uomini e reca ai più puri
la
tua speranza divina.
O
madre, sia gloria al tuo capo!».
Queste
la mia tristezza
diceva
parole, nell'ombra
d'Itaca
aspra di rupi.
E
parve dal mare profondo
salirmi
al petto una forza
silente,
in cui palpitavan le amiche
Pleiadi,
quando a notte
supino,
col vólto alle stelle,
giacqui
presso l'Occhio di prua.