Gabriele D'Annunzio
Laudi

LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI

LIBRO PRIMO - MAIA

1 - Laus vitae

IV.

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IV.

 

E come l'esule torna

alla cuna dei padri

su la nave leggera:

il suo cor ferve innovato

nell'onda prodiera,

la sua tristezza dilegua

nella scìa lunga virente:

io così sciolsi la vela,

coi compagni molto a me fidi,

in un'alba d'estate

ventosa, dall'àpula riva

ove ancor vidi ai cieli

erta una romana colonna;

io così navigai

alfin verso l'Ellade sculta

dal dio nella luce

sublime e nel mare profondo

qual simulacro

che fa visibili all'uomo

le leggi della Forza

perfetta. E incontrammo un Eroe.

 

Incontrammo colui

che i Latini chiamano Ulisse,

nelle acque di Leucade, sotto

le rogge e bianche rupi

che incombono al gorgo vorace,

presso l'isola macra

come corpo di rudi

ossa incrollabili estrutto

e sol d'argentea cintura

precinto. Lui vedemmo

su la nave incavata. E reggeva

ei nel pugno la scotta

spiando i volubili vènti,

silenzioso; e il pìleo

tèstile dei marinai

coprivagli il capo canuto,

la tunica breve il ginocchio

ferreo, la palpebra alquanto

l'occhio aguzzo; e vigile in ogni

muscolo era l'infaticata

possa del magnanimo cuore.

 

E non i tripodi massicci,

non i lebeti rotondi

sotto i banchi del legno

luceano, i bei doni

d'Alcinoo re dei Feaci,

né la veste né il manto

distesi ove colcarsi

e dormir potesse l'Eroe;

ma solo ei tolto s'avea l'arco

dell'allegra vendetta, l'arco

di vaste corna e di nervo

duro che teso stridette

come la rondine nunzia

del , quando ei scelse il quadrello

a fieder la strozza del proco.

Sol con quell'arco e con la nera

sua nave, lungi dalla casa

d'alto colmigno sonora

d'industri telai, proseguiva

il suo necessario travaglio

contra l'implacabile Mare.

 

«O Laertiade» gridammo,

e il cuor ci balzava nel petto

come ai Coribanti dell'Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva

«o Re degli Uomini, eversore

di mura, piloto di tutte

le sirti, ove navighi? A quali

meravigliosi perigli

conduci il legno tuo nero?

Liberi uomini siamo

e come tu la tua scotta

noi la vita nostra nel pugno

tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra.

Ma, se un re volessimo avere,

te solo vorremmo

per re, te che sai mille vie.

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte

Non pur degnò volgere il capo.

 

Come a schiamazzo di vani

fanciulli, non volse egli il capo

canuto; e l'aletta vermiglia

del pìleo gli palpitava

al vento su l'arida gota

che il tempo e il dolore

solcato aveano di solchi

venerandi. «Odimi» io gridai

sul clamor dei cari compagni

«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.

Mettimi alla prova. E, se tendo

l'arco tuo grande,

qual tuo pari prendimi teco.

Ma, s'io nol tendo, ignudo

tu configgimi alla tua prua

Si volse egli men disdegnoso

a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento;

e il fólgore degli occhi suoi

mi ferì per mezzo alla fronte.

 

Poi tese la scotta allo sforzo

del vento; e la vela regale

lontanar pel Ionio raggiante

guardammo in silenzio adunati.

Ma il cuor mio dai cari compagni

partito era per sempre;

ed eglino ergevano il capo

quasi dubitando che un giogo

fosse per scender su loro

intollerabile. E io tacqui

in disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul Mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non a quella

inesorabile d'un cuore

possente. E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno.

O pensieri, scintille

dell'Atto, faville del ferro

percosso, beltà dell'incude!

E contemplai, di contro

a Same dai foschi cipressi,

Itaca petrosa,

il Nèrito aspro nudato,

la patria angusta

di quella incoercibile Forza.

E veder parvemi il tetto

securo, la soglia polita,

le stanze purgate dai morbi

con fumido solfo,

le fanti dai cinti vermigli

intente a forbir seggi e deschi

con le spugne lor cavernose

o a torcere i lor fusi

versatili o a scardassare

le lane, e la tarda nutrice

Euriclèa che valse già venti

tauri, e l'economa Eurinòme,

e Femio il cantore, e nell'orto

cinto di pruni Laerte

curvo a rincalzare l'arbusto.

 

Or la figlia d'Icario

guatava la torma dell'oche

clamose beccare dal truogo

il biondo fromento, e niuna

aquila calata dal monte

franger la cervice alle imbelli

come nel sogno antico.

Ma il talamo vasto,

tutto di legno d'olivo

lavorato di man dello sposo,

confitto con chiovi d'argento

saldamente al ceppo natìo

che abbarbicato era con ferme

stirpi alla durezza terrestre,

il talamo antico d'Ulisse

anco una volta deserto

si stava, e per sempre,

sotto la pelle bovina

cui rodean le vigili tarme.

«Deh, un qualche iddio mi rapisca,

O mi fieda Cintia d'un telo

 

Rammaricavasi acerba

la moglie incorrotta. E la casa

di strepitosi chieditori

sonante e di danze e conviti

ripensava ella nel tristo

suo petto. E improvviso a rancore

pestifero cedea

la più che ventenne costanza!

Fatta era l'alta reina

simile a femmina ancella,

poiché queste dicea parole:

«Deh, avess'io scelto a marito

il più ricco e valente

dei Proci, accolto avessi il figlio

di Polibo Eurìmaco o il figlio

d'Eupite Antinòo,

e seco passata io fossi

ad altra dimora, più tosto

che attendere l'uomo cui solo

è talamo grato la tolda

a sciogliervi il cinto dell'onda!».

 

E il savio Ulissìde

Telemaco dal suo seggio

coperto di velli manosi

governava i porcari.

E il pallido adipe, onde un disco

recato avea Melanzio ai Proci

con la panca e la pelle

e la brace perché si scaldasse

e ugnesse e ammollisse il nervo

dell'arco nel della strage,

l'adipe grave su l'epa

cresceva e pe' lombi e nel collo

del savio Ulissìde.

E partiva il suo letto

di belle coltrici adorno

con una florida fante

ei che, ospite imberbe, mirato

avea splendere Elena a Sparta

e ricevuto il bel peplo

da Elena e bevuto il nepente

di Elena alla mensa ospitale.

 

«Contra i nembi, contra i fari,

contra gli iddii sempiterni,

contra tutte le Forze

che hanno e non hanno pupilla,

che hanno e non hanno parola,

combattere giovami sempre

con la fronte e col pugno

con l'asta e col remo

col governale e col dardo

per crescere e spandere immensa

l'anima mia d'uom perituro

su gli uomini che ne sien arsi

d'ardore nell'opre dei tempi.

Sol una è la palma ch'io voglio

da te, o vergine Nike:

l'Universo! Non altra.

Sol quella ricever potrebbe

da te Odisseo

che a sé prega la morte nell'atto

Tali volgea pensieri

il Re sul ponto oscurato.

 

O Itaca dura di rupi,

l'ombra che tu protendesti

nell'occaso del Sole

tal fu per l'anima mia

qual pel figlio della dogliosa

nereide lo stigio lavacro!

Caduto era ogni soffio.

Nelle anse di Same sonore

placavasi il rombo

come nelle ritorte

bùccine quando il dio cessa

d'enfiarle col labbro salino.

Simili a sarisse di bronzo

nel macigno confitte

i lacrimabili cipressi,

interrotto il gemito amaro,

parevano pronti a ferire.

Scorgeasi la glauca Zacinto

lungi, e il Cillene, e la costa

crassa cui nutre di molta

rapina il selvaggio Achelòo.

 

Salir vidi un placido fumo

allora, di tra gli oleastri

che coronan col segno

del buon lottator la Petrosa;

e dolsemi il cor dentro al petto,

ché pel sangue mi corse

pensier della madre lontana,

pensier delle dolci sorelle

e del mio focolare.

E m'apparve il bel fiume ove nato

fui di stirpe sabella,

Aterno di rossa corrente

cui cavalca il ponte construtto

di carene di travi

d'ormeggi, spalmato di pece,

in vista al monte nevoso

che ha forma d'ubero pieno.

E la tomba m'apparve sul poggio

chiomante di pini, ove il padre

riposa le sue grandi ossa

ond'io m'ebbi tempradura.

 

E dissi nell'ombra: «O sorelle,

tre come le porte del tempio,

tre come il trifoglio dei paschi,

tre come le Càriti leni,

la prima dai floridi ricci

salubre qual cespo di menta

in docile rio, la seconda

a me simigliante nel vólto

ma quasi d'un velo soffusa

argenteo sì ch'io mi creda

specchiarmi in sul fare dell'alba

a un fonte di acque serene,

la terza dagli occhi bovini

robusta qual fu giovinetta

la figlia di Rea, della madre

sostegno ridente, o mie dolci

sorelle, non io vi obliai

e di me voi favellate

nel vespero forse, dal tetto

arguto di nidi guardando

verso l'Adriatico Mare.

 

Pur, se taluna di voi

improvviso mirasse

l'aspetto della mia

Libertà, d'orror tremerebbe

e di spavento, perduto

credendo il fratello suo caro,

per sempre perduto;

né più oserebbe toccarmi

dirmi parola di pace.

E bagnerebbe di pianto

le incolpabili mani

materne, alla misera donna

pregando l'oblìo del suo nato.

E lo stranier che merca

e froda al publico sole,

il falso mendico che ostenta

nel trivio l'ulcera immonda,

il marinaio rissoso

che batte il fanciullo e il vegliardo

parrebbero a quella men empii

del caro fratello perduto!

 

Gèniti d'un grembo, d'un sangue,

d'un atto d'amore noi siamo,

sorelle. E, se penso le vene

su la vostra tempia non cinta

più cerule e tenui dell'ombre

cui le frondi pie dell'ulivo

fan sul vello dell'agna

che pasce da presso, io sorrido

d'una tremante dolcezza

e le medesime vene

guardo ne' miei pallidi polsi,

che battonoviolente

di desiderio implacato.

E le mie virtù, i miei vizii,

i miei delitti, i miei gaudii

letiferi, i miei operosi

tormenti, le occulte mie glorie,

i sogni indicibili, tutto

il fiume rapace del mio

essere tingemi i polsi

di quel vostro azzurrolieve!

 

O consanguinei fiori,

o pure ghirlande sospese

alla fronte del focolare,

s'io torni ove nacqui,

in tema starò sorridente

dinanzi alla vostra allegrezza

come il viandante che sosta

e parco è di chiare parole

ché agli ospiti cela il suo stato.

Ma tu, o madre mia forte,

che mi generasti con tante

grida nel mese fecondo

che da Marte si noma,

entrando il Sole nel segno

dell'Ariete durocozzante,

mentre passavan sul nostro

tetto col volubile nembo

i pòllini di primavera,

tu subitamente svelato

m'accoglierai tutto qual sono

nella luce del tuo dolore.

 

Qual sono, per te sarò sacro,

per te gloriosa in patire

e resistere, o madre!

E tu, che immota rimani

a costringer nelle tue braccia

come in ferrea zona la casa

fenduta dai fulmini, il soffio

dell'immenso mondo

in me sentirai vorticoso,

senza terrore, e tutto

saprai, pur quello che ignoto

mi sta nel profondo, pur quello

che sta nel Futuro, inspirata

di conoscenza celeste.

E mi dirai: «O figlio,

t'ho fatto di vitabreve

e d'insaziabile cuore!

Giusto è che tanto t'affretti

a cercare a lottare a volere,

lontan dalla madre

che farti non seppe immortale».

 

Gloria al tuo capo, o madre!

Sii tu testimone sublime

di mia verità sotto il cielo.

O Solitaria,

o Dolorosa,

o Paziente,

non sono io forse il tuo grido?

Il tuo inconsapevole grido

che, riconosciuto, si spande

su gli uomini e reca ai più puri

la tua speranza divina.

O madre, sia gloria al tuo capo!».

Queste la mia tristezza

diceva parole, nell'ombra

d'Itaca aspra di rupi.

E parve dal mare profondo

salirmi al petto una forza

silente, in cui palpitavan le amiche

Pleiadi, quando a notte

supino, col vólto alle stelle,

giacqui presso l'Occhio di prua.

 

 


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