IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
O Pisa, or tu sei vedova del mare,
che stavi notte e dì per tener fronte
in Tersanaia a fare, a racconciare,
quando un bando di Chìnzica o di Ponte
valeva a trarre in corso dai sessanta
scali ben unti le galere pronte!
Pende dal muro la catena infranta
nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri
e i tuoi morti fiorìan la terra santa.
La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri
nel tuo Vescovo il cor di Daiberto
balzò, verso i trofei de' Cavalieri.
O Salerno, nel duomo dove offerto
ti fu da Gian di Procita l'avorio
e l'oro sovra i marmi di Ruberto,
nell'ombra dove il settimo Gregorio
grandeggia, non fanal di capitana,
non stendardo d'emiro pel mortorio,
non insegna, non spoglia musulmana
hai, che tu orni in nome de' tuoi grandi
al tuo giovine eroe la coltre vana?
Non egli è su la bara che inghirlandi;
ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.
E lo chiami per nome e l'addimandi.
Verginità del primo sangue sparso!
Ne bevano le sabbie un più gran flutto;
ma pur quel primo che sembrò sì scarso
risplenderà sul giubilo e sul lutto
più vermiglio e più fervido a Colei
che sa pianger gli eroi con viso asciutto.
O Gaeta, se in Sant'Erasmo sei
a pregar pe' tuoi morti, riconosci
il Vessillo di Pio ne' tuoi trofei,
toglilo alla custodia perché scrosci
come al vento di Lepanto tra i dardi
d'Ali, mentre sul molo tristi e flosci
sbarcano i prigionieri che tu guardi
e che non puoi mettere al remo. O Cagliari,
i quattrocento archibusieri sardi,
che Don Giovanni d'Austria alla battaglia
sotto il Vessillo nella sua Reale
s'ebbe per incrollabile muraglia,
hanno veduto verso il mare australe
e nella sera accorrono al segnale;
ché vien pel mare d'Africa e dirada
l'ombra con la bellezza della morte
un che fu degno della lor masnada.
Egli ha per buon compagno, o Carloforte
che il ferro e il fuoco sai del predatore
e la sferza e la stanga e le ritorte,
un de' tuoi figli che nel suo furore
se ne sovvenne e, per i mille schiavi
di quel settembre, ebbe di mille il cuore.
Marinai, marinai, sopra le navi
e dentro le trincere, a bordo e a terra,
in ogni rischio e con ogni arme bravi,
fatti dalla tempesta per la guerra,
nel silenzio mirabili e nel grido,
infaticati sempre, a bordo e a terra,
di voi s'irraggi e palpiti ogni lido
d'Italia mentre per la mia più grande
Italia qui la vostra gloria incido.
Non le piagge che adorna di ghirlande
amare il flutto ove le sue melodi
Undulna dea dal piè d'argento scande,
ma oggi loderò con le mie lodi
l'acqua oleosa lungo le banchine
sonanti per gli imbarchi e per gli approdi,
l'acqua opaca ove colan le sentine
e nuotano i tritumi del carbone,
le fecce dei cavalli, le farine
delle sacca sventrate, il bariglione
rotto, la buccia putrida, la lorda
schiuma che ingialla il piede del pilone,
mentre alla gru che cigolando assorda
l'aria imbracato il bove da macello
pencola come botte che sciaborda.
Canto l'acqua dei porti. Odo l'appello
rude, il commiato, il grido. I reggimenti
partono. Ogni uomo armato è il mio fratello.
Veggo gli occhi brillare, veggo i denti
rilucere. Odo il lastrico del molo
rombar sotto la marcia. Sono ardenti
i vólti come se li ardesse un solo
riverbero, o il sorriso d'una sola
madre, di quella grande. Ogni figliuolo
oggi ha sol quella, e in cuore la parola
che alfine irruppe dalla bocca forte.
Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola.
Guerra! Una gente balza dalla morte,
s'arma, s'assolve nell'eucaristia
del mare, e salpa verso la sua sorte.
Non più si volge indietro. Guerra! Sia
per giorni, sia per mesi, sia per anni
ella combatterà nella sua via.
Canto la libertà. Quali tiranni
furono uccisi? quali mostri vinti?
Qual forza li atterrò? di quanti inganni,
di che frodi senili erano cinti?
Chi diede al falso tempio il grande crollo?
Le colonne piegarono su i plinti.
Il precone stampato fu col bollo
rovente nella palma della mano
e nel dosso restìo, sino al midollo.
Strascicandosi contra l'uragano
gioioso che lo tratta come balla
di cenci, or vocia nella piazza in vano.
E marchiatelo ancóra su la spalla
e su la fronte! Poi gli sia concessa
la buona greppia nella buona stalla.
Altra parola è data, altra promessa.
Canto il domani e canto la canzone
dei secoli; ché l'anima è trasmessa.
A mira di balestra o di cannone
l'occhio è ben quello, che non batte ciglio.
Dritto è il silùro come lo sperone.
Canto la forza antica e nova, figlio
d'una carne vivente e d'infinita
progenie. O tu che m'odi, io ti somiglio.
Ma il balestriere, chino alla bastita
o alzato sul carroccio, anco in me vive.
L'anima eterna è il vaso della vita.
Canto le stive, le profonde stive
piene d'armi, di viveri, di tende,
di bottame; le maestranze attive
su i ponti apparecchiati ove risplende
forbito ogni metallo. I battaglioni
giungono. Il cielo è prode, con vicende
di nubi e di chiarìe, con padiglioni
immensi, con falangi impetuose.
E tutta la città par che si doni.
E diffuso è l'amore su le cose
come un ciel più vicino, simigliante
al vólto delle madri coraggiose.
Non sul vólto, nell'anima son piante
le lacrime divine e trionfali,
mentre il silenzio fa le labbra sante.
Gloria della città! Passano l'ali
ripiegate dell'uomo, i grandi ordegni
di Dedalo, le macchine campali
fatte di tesa canape e di legni
lievi, che porteran l'uomo e l'atroce
sua folgore su i fragili sostegni.
E le gole d'acciaio senza voce
passano, che laggiù nel lor linguaggio
conciso parleranno, dal veloce
affusto tratte al ciglio del villaggio,
lungo il palmeto, sopra le trincere,
davanti ai pozzi. Romba il carriaggio
su la selce. Seduto è l'artigliere
sul cofano. Conduce a coppia a coppia
i cavalli gagliardi il cavaliere.
L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia.
Repente il sole batte su la faccia
giovenile, sul pezzo, su la doppia
groppa. E l'affusto trascinato a braccia
nella sabbia ove il mare s'impantana
vedo! Chi mai cancellerà la traccia
dentro le dune della Giuliana?
Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota.
Gloria a te, batteria siciliana!
Canto il selvaggio anelito, la gota
che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,
i polsi tra le razze della rota,
le spalle che sollevano la cassa
e la portano, l'ordine del fuoco,
la mira, il primo colpo nella massa
nemica, il suolo raso, l'urlo roco
delle strozze riarse ad ogni schiera
abbattuta, l'allegro ardor del gioco;
o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera
tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata
su la Berca nel soffio della sera.
Canto la Morte, alata e illuminata
come la prima legge della luce.
La vita è meno fertile. È rinata
da lei l'alta bellezza. Ella produce
le semenze che noi nella ruina
seminerem cantando. Ella conduce
le Muse, conduttrice più divina
d'Apollo. Non ha tombe ma trofei.
È tutt'avvolta d'aria mattutina
come la messaggera degli dei.
I più giovini eroi sono i suoi gigli.
O Gloria, ed ella è là dove tu sei.
O Primavera, e tu le rassomigli.
Mentre che soffia il vento del Deserto,
ella infiamma gli anemoni vermigli.
Canto la Gloria cerula, dal serto
alternato di rostri e di muraglie,
che ride se il combattimento è incerto.
Immune dall'orror delle battaglie,
è bella come Roma nel suo trono
e Siracusa nelle sue medaglie.
Come sul mar risponde il tuono al tuono,
il presente al passato in lei risponde;
e la mia corda duplice è il suo dono.
Conculcate le stirpi moribonde
ella fa dell'Italia dai tre mari
la grande Patria dalle quattro sponde.
Quando nei nostri porti gli alti fari
s'accendono, ella sfolgora da ostro
sola nelle foschie crepuscolari.
E, vòlto verso lei notturna, il nostro
sogno ansioso vigila il mattino.
E il mattino per noi sorge da ostro.
Sorge con uno strepito marino,
tra le grida gioiose dei messaggi
che gridano il gentil sangue latino:
gridano i reggimenti e gli equipaggi,
gridano i morti, gridano i feriti
le vittorie da' bei nomi selvaggi,
gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.
Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-
Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti
la palma. Tutta l'oasi è un'ara
fumante. Verri, Granafei, Briona,
Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,
Moccagatta, Spinelli! Un nome suona
la morte, l'altro la vita. E la morte
sola composta di due fronde attorte.
Severo dal suo grande Arco sorride:
il battaglione è come la coorte.
Foss'io come colui che i nomi incide
col ferro aguzzo nella nuda stele
ad eternar la gesta ch'egli vide!
O Roma, almen quello del tuo fedele
inciderò nel fulvo travertino,
e il tuo modo: «Coi remi e con le vele».
O Roma, e mentre al giovine Latino
«Velis remisque» nella pietra intaglio,
scorgo l'Ombra del grande suo vicino.
Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio,
quegli che fece co' suoi nervi soli
a San Giorgio di Lissa il suo travaglio.
«Gittai buon seme» ei dice. Si consoli
per quell'Ombra e s'inebrii del suo pianto
la madre di Riccardo Grazioli.
E tu resta, o Canzone, in camposanto.
Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba;
e veglia, incoronata d'amaranto.