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LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI LIBRO QUARTO - MEROPE 6 - La canzone d'Elena di Francia |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti,
e voi, Pleiadi, lacrime divine
d'amori eterni e di dolori ignoti;
e tu, fra le sorelle oceanine,
che sola amasti un triste eroe mortale,
e ti celi il tuo vólto nel tuo crine,
o Merope d'Atlante, mia navale
Musa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,
o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,
Càstore, plenitudine di spirti
che la corusca melodìa conduce;
Notte, e Galàssia effusa per crinirti,
Nube, e il dio che ti lacera, scorgete
la bianca nave uscente dalle Sirti!
Sul guerreggiato mare alta quiete
regna. Il silenzio del Risorto incombe,
come quando Simon gittò la rete.
Quasi un dolce candore di colombe
che reca i morti alle materne tombe.
E su l'assi che chiudono il cadavere
e sul letto ove sanguina il ferito
La figura di prua non è scolpito
legno ma un sovrumano Essere intento,
con un sorriso eguale all'Infinito.
E quegli ch'ebbe stritolato il mento
dalla mitraglia e rotta la ganascia,
e su la branda sta sanguinolento
e taciturno, e i neri grumi biascia,
anch'egli ha l'indicibile sorriso
all'orlo della benda che lo fascia,
quando un pio viso di sorella, un viso
d'oro si china verso la sua guancia,
un viso d'oro come il Fiordaliso.
Sii benedetta, o Elena di Francia,
nel mar nostro che vide San Luigi
armato della croce e della lancia
fare il passaggio coi baroni ligi
su le navi di Genova e prostrato
sotto i suoi gigli attendere i prodigi,
sii benedetta; ché ritorna il fato
d'amore all'acque istesse e in te rigiura
Ti sovviene dei morti di Mansura
che putivan nel limo, su le rive
del Nilo, ignudi, senza sepoltura,
mentre per tutta l'oste le malvive
genti ululavan come donne in parto
di tra il marciume delle lor gengive,
e i feriti, colcati su lo sparto
come buoi, la Cappella e il suo Tesoro
deprecavano in van pel sangue sparto
e lungi travedean dal lor martoro
splendere, dietro la criniera ardente
di fuoco greco, la celata d'oro,
la gran spada alemanna ben tagliente,
e udian sonar la prece su la zuffa:
«Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!».
Allora il Re levavasi la buffa
dal viso smunto; e, sceso degli arcioni,
sfangava solo per l'orribil muffa.
Per quel carnaio givasi carponi
piangendo, a riconoscere i suoi cari
morti, i suoi fanti come i suoi baroni.
E i Vescovi, che in campo dagli altari
assolvevano l'anime, al divino
Ma il Re, toltosi l'elmo e il gorzerino,
portava i corpi in su le braccia e in dosso
quand'altri li traeva per l'uncino.
E con quella pia man che avea riscosso
Carlo d'Angiò di sotto il fuoco greco
(in arme d'oro sul cavallo rosso
che ardea per la criniera, ei fatto cieco
e invitto dal suo Dio corse a traverso
l'inferno avendo un grande Angelo seco)
con quella mano l'ulcero perverso
medicava, tagliava intorno ai denti
la carne enfiata, ungeva il taglio asterso.
Pane afflitto partia con le sue genti
nelle fami. Parlava col lebbroso.
Portava invidia agli uomini piangenti.
«Bel sire Iddio, richieder non son oso
fonte di pianto. Alcuna stilla basta
all'alidore del mio cor penoso.»
Le lacrime colando per la casta
bocca, ei gustava nell'amaro sale
la dolcezza che ad ogni altra sovrasta.
Ma non tu piangi, o Amàzone regale.
Una intrepida forza t'azzurreggia
negli occhi, sotto il lino monacale,
se il braccio lacerato dalla scheggia
sostieni o la man tronca fasci o bagni
le labbra al sitibondo che vaneggia.
Non lacrime, non gemiti, non lagni.
Quegli che vinse fuor della trincera,
vuol col silenzio vincere i compagni.
E quegli che di vivere non spera
già fiammeggiar nel gelido lenzuolo
sente i tre ferzi della sua bandiera.
Qual novo giorno splenderà sul molo
popoloso, laggiù? La Patria è tutta
pallida, in piedi, con un vólto solo.
Pallida, in piedi, con la gota asciutta,
serra nel petto i nomi de' suoi morti.
Guarda lontano. E il mar non li ributta.
Quale mistico approdo è atteso? I porti
sono solenni come cattedrali.
Donna di Francia, or sai quel che tu porti.
Tu porti con la nave i sogni e l'ali
e le rose future e il novo canto
in quel cumulo d'anime e di mali.
L'angioino vascello non più santo
era allorché recava il grande spoglio
del Re che volse in cenere il suo manto.
Ben ti sovviene. Il fùnebre convoglio
con l'oste e col navile in gran cordoglio.
E il Re col suo soave Gian Tristano
stavasi in bara; e, qual lo pinse Giotto
in Fiorenza, il cordiglio francescano
nell'una man tenea forse e di sotto
al drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligi
avea su l'ossa il càmice incorrotto.
il sepolcro, guardata dalla morte
la via lunga di Trapani a Parigi.
Re Tibaldo morivasi alle porte
dell'Invitta, Isabella d'Aragona
sentiva già l'orrore della sorte
imboscata ne' monti ove risuona
giù per la costa calabra il maligno
guado che lei travolse e la corona.
E il Nasuto, il carnefice ulivigno
de' biondi Svevi, in terra di baldoria
gli usci franceschi tinti di sanguigno
non si sognava già, né la sua boria
vedeva il lunedì di Risurresso
e le galere di Rugger di Loria,
quand'ebbe offerto in pegno di possesso
eterno a Monreale il Cor beato
e in Palermo il Lambello ebbe rimpresso.
il Fiordaliso ed il Lambel vermiglio
raddotto hai tu, non in vessillo issato,
o Elena di Francia, ma in naviglio
ricrociato d'amore e di dolore
ove tu splendi come il più gran giglio.
«Così è germinato questo fiore!»
par sorrida colui che su la roccia
del sacro balzo, ove l'umano errore
si purga, Ugo Ciapetta che rimproccia
suo seme ha visto tutto vòlto in giuso
fonder per gli occhi il male a goccia a goccia.
«Nuova luce percote il viso chiuso»
dice la Voce. E dice: «Qui si monta».
Ed ovunque il suo spirito è diffuso.
La sua forza gentile austera e pronta
è la tempra dell'aria. O Italia bella,
or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.
O dolce Francia, o unica sorella,
per la muta speranza che s'inclina
su le chiare acque della tua Mosella,
per la memoria pia di Valentina
che, fedele al suo lutto, patir volle
senza tregua nel cor l'acuta spina,
pei campi onde l'allodola tua folle
balza chiamando, e i pioppi della Mosa
fremono, e il sangue grida nelle zolle,
Francia, ricevi e serba la gioiosa
promessa che ti fa, d'una vendetta
più grande, questa carne sanguinosa.
Taglia per noi con la tua vecchia accetta
un ramo della quercia di Lorena,
sul colle ove Giovanna è alla vedetta,
intreccia al ramo rude la verbena
già sacra ai nostri padri, ed a noi manda.
Su le Statue velate il ciel balena.
Balena anche per noi da quella banda.
Sul Campidoglio senza Feziali
sospenderemo noi la tua ghirlanda.
E tu òccupa il ciel con le tue ali,
guerriera alata. Noi le navi forti
spingeremo nel mar dai nostri scali.
O Elena, che in fronte ai nostri morti
impressa vedi la virtù di Roma,
pel gran patto latino oggi tu porti
la verbena augurale entro la chioma.