IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI LIBRO QUARTO - MEROPE 7 - La canzone dei Dardanelli |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Taranto, sol per àncore ed ormeggi
assicurar nel ben difeso specchio,
di tanta fresca porpora rosseggi?
A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio
muro che sa Bisanzio ed Aragona,
che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio?
Non balena sul Mar Grande né tuona.
Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte
gira, e del ferro il tuo Canal rintrona.
Passan così le belle navi pronte,
per entrar nella darsena sicura,
volta la poppa al ionico orizzonte.
Sembran sazie di corsa e di presura,
mentre nel Mar di Marmara e nel Corno
d'oro imbozzate l'ansia e la paura
sognano fumi al Tènedo ogni giorno
apparsi e invocan l'altro Macometto
che scenda in acqua col cavallo storno
come quando alla Blanca un vascelletto
greco e tre saettìe di Genovesi
con lor pietre manesche e fuochi a getto,
conficcate le prue sino ai provesi,
nell'arrembaggio, presero battaglia
contra il soldano e i suoi visiri obesi
e contra una ciurmaglia e soldataglia
legni; e vinsero; e con la vettovaglia
sotto Costantinopoli, tra suoni
e cantici, a rimurchio in salvamento
li ricondusse Zaccaria Grioni.
Eran tre saettìe contra dugento
sàiche fuste e galèe! Taranto, Alfieri
d'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento
su la duna a Bengasi ove tu eri
mista al suo sangue allor che cadde eletto
dalla gloria tra i bianchi cannonieri,
ben si mostrò di quella tempra; e il petto,
come quando le navi avean di legno
il fasciame, fu ben di ferro schietto.
Ma non pur anco il giovincello Regno,
fior di modestia, escito è di tutela.
I pedagoghi suoi stanno a convegno.
la bilancia dell'orafo in pesare
il buon consiglio; e, se il timor trapela,
appoggiandosi al muro famigliare
stranutano e tossiscono. O Senato
veneto! O prisca Libertà del Mare!
Il sobrio Talassòcrate dentato,
il pudico pastor dai cinque pasti
che si monda con l'acqua di Pilato,
immemore dei fasti e dei nefasti
suoi dì vermigli, cigola e s'indigna
a tanto scempio, e torce gli occhi casti!
E quei che verso il Reno ora digrigna
col ceffo nella sua birra sanguigna,
l'invasor che sconobbe ogni gentile
virtù, l'atroce lanzo che percosse
vecchi e donne col calcio del fucile,
il saccardo che mai non si commosse
al dolore dei vinti e lordò tutto
del fango appreso alle sue suola grosse,
l'Ussero della Morte vela a lutto
Stinchi e Teschio per la pietà fraterna
di tanto musulman fiore distrutto!
Ma uno più d'ogni altro si costerna.
Egli è l'angelicato impiccatore,
l'Angelo della forca sempiterna.
Mantova fosca, spalti di Belfiore,
fosse di Lombardia, curva Trieste,
si vide mai miracolo maggiore?
La schifiltà dell'Aquila a due teste,
che rivomisce, come l'avvoltoio,
le carni dei cadaveri indigeste!
Altro portento. Il canapo scorsoio
che si muta in cordiglio intemerato
a cingere il carnefice squarquoio
mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato
da quella mozza man piena d'anelli
che insanguinò la tasca del Croato!
Son questi i cristianissimi fratelli
del protettor d'Armenia, ond'è rifatta
pia la verginità dei Dardanelli.
La vecchia Europa avara e mentecatta
che lasciò solo il triste Costantino,
solo a cavallo nella sua disfatta
combattere alla Porta Carsia e spento
dar la porpora e l'aquile al bottino,
dessa or soccorre del suo pio fomento
lo smisurato canchero che pute
tra Mar Ionio e Propontide nel vento.
Cantar voglio le tre sotto il posticcio
turbante auguste Podestà chercute
e d'austriaco sevo unto il molliccio
soldan che ascolta il suo martirologio
col bianco pelo irto per raccapriccio.
Alla Consulta attendono l'elogio
tutorio i pedagoghi del pupillo
demente; e spiano il tempo ch'è balogio
su la piazza ove ride lo zampillo
romano tra gli equestri Eroi gemelli
palpitando qual limpido vessillo.
Come sul fulvo mare dei camelli
sta la Sfinge, una intorta Pitonessa
senza tripode guarda i Dardanelli.
La licenza è concessa e non concessa,
se guarentita sia la libertà
al sapone di Caffa e al gran d'Odessa.
Ahi cieca ambage! Ed ei non sono già
discepoli di Mosca de' Lamberti
che disse: «Cosa fatta capo ha».
Vanno librando i pesatori esperti
la bilancia dell'orafo sì vana
con once dramme scrupoli malcerti.
Meglio rozza stadera di dogana
ove per dar tracollo il ferreo Cagni
gitti la spada di Bu-Meliana.
La nave, col desìo che il sangue bagni
le torri e il ponte per ribattezzarsi,
richiama a sé gli intrepidi compagni
che troppo a lungo per le dune sparsi
e nelle fosse tennero la guerra
dediti a superare e a superarsi
come quando l'eroe, che di sotterra
ancor gli incìta, disse oltre la morte:
«Io con mille di voi prendo la terra».
Stefano Testa, l'òmero tuo forte
è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio;
o Montella, e il tuo femore. E la sorte,
o Gaudino, t'amò quando un vermiglio
fiore ti pose presso il cor tra costa
e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio
di Bari vecchia ove una santa esposta
e il popol tutto innanzi a lei fa sosta;
o Carmineo, di un'umile eroina
anche tu primo nato tra il Leone
di San Marco e la Chiesa palatina;
o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone,
che in sogno ancor la piaga del tuo piede
strascichi per servire il tuo cannone;
voi tutti, ardenti della vostra fede
e della vostra febbre nella lunga
corsìa triste, con l'anima che crede
e vede or ascoltate se non giunga
un grande annunzio, sussultando al cupo
urlo che nella notte si prolunga.
Dante de Lutti forse in un dirupo
giace coi prodi a Derna, e la vendetta
ride ne' denti suoi di giovin lupo
come quando a Tobrucca su la vetta
della ruina issava il tricolore,
più agile che mozzo alla veletta.
E la notte par piena di clamore.
E la corsìa d'occhi sbarrati e fissi
riarde, e ucciso è il sonno dall'orrore.
Taluno i suoi compagni crocifissi
rivede, là, nella moschea di Giuma,
i corpi come ciocchi aperti e scissi
con la scure, conversi in nera gruma
senza forma, sgorgando le ventraie
per gli squarci; e le bocche ove la schiuma
dell'agonia tersero l'anguinaie
recise, intruse fra le due mascelle;
e i viventi infunati alle steccaie,
alle travi dei pozzi, con la pelle
del petto per grembiul rosso, con trite
le braccia penzolanti dalle ascelle
dirotte, con le pàlpebre cucite
ad ago e spago, o fitti sino al collo
nel sabbione che fascia le ferite,
le vene stagna. Odio, che sei midollo
della vendetta e lièvito del sangue,
ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.
Talun disse: «Spargete poco sangue.
Deh non vogliate esser micidiali!
Quasi pace è la guerra, quando langue».
O dolci eroi sognanti su i guanciali
penosi, udiste l'ordine di guerra?
«Le navi scorreranno gli ospedali
I marinai combatteranno a terra.»
Sognando, andiamo incontro all'Ombre sole
mentre il ponte di Taranto si serra.
La notte sembra viva d'una prole
terribile. La grande Orsa declina.
Infaticabilmente il mar si duole.
Un vento di dominio e di rapina
squassa il vasto Arcipelago schienuto.
Chi vien da Scio con la galèa latina?
Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto,
a capo del naviglio tuo di corsa,
o duca dell'Egeo Marco Sanuto.
Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa.
Dietro i pavesi sta la compagnia
pronta allo sforzo: la minaccia è corsa.
Eri una via calpesta, eri la via
dei Barbari che andavano alla guerra
in Occidente, allora, o Austria pia.
E l'onta di Giovanni Senzaterra
stava su te, la crudeltà del basso
vassallo d'Innocenzo, o Inghilterra,
quando al libero Doge dava il passo
l'Imperatore sul diviso Impero,
e la Morea dal Tènaro a Patrasso
di gloria non immemore d'Aiace,
e il Sunio col suo tempio roso e il nero
Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace,
le Cicladi fulgenti, tutto il lido
curvo dal Mar dalmatico al Mar trace
erano un sol dominio sotto il grido
di San Marco; e Gallipoli, Eraclea,
Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido
il Doge tutto l'Ellesponto avea;
quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali
quivi, e le darsene e le ròcche aveano
i Veneti; lanciavan dagli scali
nel Corno d'oro le galèe costrutte,
al Leone ogni dì crescendo l'ali.
Ecco, o Mediterraneo, su tutte
l'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro
col mio cuore le impronte non distrutte.
Ecco un Sagredo principe di Paro,
a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,
a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.
Presso Blacherne publica il suo bando
Ranieri Zeno, e quasi Imperatore
ha tutta Romania nel suo comando.
conte di Malta usurpa il fio di Creta.
In regia potestà l'Asia Minore
ha Martin Zaccaria, batte moneta,
leva milizie e navi, si travaglia
a Focea per allume, a Chio per seta,
a traffico imperversa e a rappresaglia,
stermina Catalani e Musulmani,
tutt'armato da re muore in battaglia.
O dura schiatta dei Giustiniani,
magnifici, di re senza corona,
che profuman di mastice la bianca
scìa o la segnan d'una rossa zona,
quando nell'isola Andriolo Banca
orna templi, deduce carmi, venera
Omero, èduca lauri, schiavi affranca!
Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene
da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia,
l'Ombre cantano come le sirene.
Un Querini è signore di Stampàlia,
di Nanfio un Foscolo, un Navigaioso
di Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia,
ecco il mare operoso e sanguinoso
di noi, le rive con le nostre impronte,
le mura impresse del Leon corroso.
Un Barozzi è signore a Negroponte,
un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio.
Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte.
Fendo i secoli, lacero l'oblìo,
ritrovo le correnti della gloria
nell'acqua ove portammo il nostro Dio.
Levo sul mar l'onda della memoria
e col soffio dell'anima la incalzo,
che ferva sotto il piè della Vittoria,
che schiumi e fumi sotto il piede scalzo
volante in sommo come quando accorse
precipitosa dal marmoreo balzo
a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forse
anche i tuoi fari pendono. E lo scotto
sarà pagato. Chiedi l'ora all'Orse
come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriotto
quando muti ridean nel cuor selvaggio,
acquattato ciascun nel suo brulotto,
con alla mano i raffii d'arrembaggio,
con alle coste il demone del fuoco,
messo fra i denti il fegato per gaggio.
Anche nel nostro cuore arde quel fuoco,
sorella. Vien d'Ipsara Costantino
Cànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco.
Andrea Miàuli vien sul brigantino
ch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne.
Ma chi è mai quel grande suo vicino?
e l'affilato viso dell'audacia
e l'occhio inesorabile. O Canzone,
piègati sotto l'ala acuta e bacia
per tutti i marinai la fronte fessa
del Capitan che vien dal mar di Tracia.
Viene dai Dardanelli su la stessa
galèa cui non restò se non l'orrore
dell'annerito arsile, su la stessa
galèa che vide volgere le prore
e orzare a terra Mehemet codardo,
viene dai Dardanelli il vincitore
Lazaro Mocenigo. E lo stendardo
del calcese, che gli spezzò con l'asta
il cranio, or croscia al maestral gagliardo
su l'erto capo cinto della vasta
che per corona nautica gli basta.
Chiuso è il destr'occhio che nella marina
di Scio barattò egli contro vénti
navi di Kenaàn tratte a rapina.
Ma il freddo astro di tutti gli ardimenti
è l'occhio manco, specchio dei perigli.
Lazaro Mocenigo ha le sue genti?
Guardalo, Cagni, tu che gli somigli.