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LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI LIBRO QUARTO - MEROPE 9 - La canzone di Mario Bianco |
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Giovine, so che vuota è la tua tomba
là nella cerchia ove le primavere
della morte una candida colomba
reca, Medea nata del Condottiere
di bronzo, quella che i suoi rosei marmi
disfoglia come rose di verziere.
Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmi
ti sorridesse come ad un fanciullo
gentile, non l'adunco irto nell'armi
Colleoni, sì ben Francesco Nullo
era, la buona lancia, il grande e fermo
alfier di Libertà, col viso brullo
ancóra delle fiamme di Palermo,
rotto dal piombo slavo il vasto petto
offerto alla Giustizia ultimo schermo.
Risorrideva nel virile aspetto
il primo sogno che per il selvaggio
Agro trasse il lanciere giovinetto
quando la giovinezza era l'ostaggio
d'ogni patto segnato col Destino
ed ogni giorno era calendimaggio?
Dov'egli cadde, cavalier latino
in terra strana, ivi restò. La spoglia
dell'eroe sola è mèta al suo cammino.
Tu fosti tolto, su la nave in doglia
alla Patria raddotto e alla soave
madre che t'attendea su la sua soglia.
Tinta in minio la prora della nave
non era, né corona avea d'oliva
né la mannella delle spiche flave;
che il virginal tuo sangue, libamento
di guerra, offrisse alla divina riva.
Ma la mistica voce era nel vento,
ma sparso era il libame. «È questo, Italia,
è questo il tuo fermento e il tuo cemento.»
a Delo come il funebre vascello
che radduceva il Giovine d'Italia.
Ed all'approdo ognun t'era fratello
sentendo in sé l'immobile tuo cuore
ripalpitare come un cuor novello.
E dal silenzio fùnebre un dolore
nascea possente come la radice
della virtù. Quest'inno era il suo fiore.
che ci purificasse in una santa
onda per trarci a un regno più felice.
E tu non una giovinezza infranta
eri, ma la promessa e il pegno. Aroma
era del cuor la lacrima non pianta.
E passasti i deserti ove arde Roma
or d'altra febbre, e lungo il mar toscano
le salse macchie che il libeccio schioma.
Oh t'avessero almen per il Gargano
procelloso raddotto al bel nativo
colle scisso dal vomere frentano,
al chiaro colle onde il palladio ulivo
guarda il gregge dell'isole nomate
dal nome del guerreggiatore argivo
e i nostri monti quinci, le nevate
imagini dei nostri alti custodi,
e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!
Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odi
qui fragor di battaglia né ti sazia
l'effuso dopo te sangue di prodi,
ben odi qui, sepolto nella grazia
di San Giovanni, le tue querci cave
vaticinare al vento di Dalmazia».
Ma tu rivalicato hai senza nave
il mar d'Africa. Vuota è la tua tomba
che t'infiora la madre tua soave.
Per Santa Barbara, alla prima romba
del mortaio, già vigile tu eri;
e Gian Muzzo sonava la sua tromba.
Ed eran teco i primi cannonieri
della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;
e tutti eran più bianchi e più leggeri.
E parea che la gran Vergine accesi
avesse i fuochi dell'aurora eterna
alla festa e spiegato i suoi pavesi.
Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna
la festa del mortaio e del cannone,
per Santa Barbara, in vicenda alterna.
Senza pausa correva la canzone
dall'una gola nera all'altra rossa:
rugghio d'incendii le tenea bordone.
L'odor divino della terra smossa,
fra tanta afa, lo spirto della terra
uomo e pezzo allenava nella fossa.
Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,
dèmoni della vampa e del fragore,
àlacri sinfoneti della guerra!
Tutte le batterie un solo ardore.
Tutte le volontà un nervo istesso.
La massa era contratta come un cuore;
la fila era flessibile qual nesso
di tèndini. Fin l'ombra su l'arena
tra l'uomo alzato e l'uomo genuflesso
come i nodi nell'osso della schiena.
Ove il ferro faceva una radura
i superstiti in sùbito retaggio
raccoglievan la forza moritura.
I morti si drizzavan nel coraggio
moltiplicato dei viventi. L'aria
era come un ignito beveraggio.
Roma apparìa. L'anima legionaria
col vasto afflato dilatava i petti.
Nel cielo spaziava l'ala icaria.
d'Aïn-Zara, per tesser le ghirlande
della gloria primiera ai primi eletti,
ch'io li mesca ai narcissi della grande
Berenice, ai nettunii gigli nati
su l'orlo delle sabbie memorande
ove tinse gli affusti trascinati
a braccia il primo sangue virginale
in libamento della Patria ai Fati.
Guardiamarina, cippo sepolcrale
in Tobrucca ti sia l'un dei cannoni
ammutoliti, tolti nel campale
giorno di Santa Barbara ai ciglioni
d'Aïn-Zara che videro i fuggenti.
Gli altri sei diamo agli altri sei leoni
Ché dove noi poniamo i fondamenti
della potenza, là poniam de' nostri
morti l'ossa per consacrar gli eventi.
Non nelle antiche ombre, ne' lunghi chiostri
dei cimiteri, tra gli usati avelli,
dove profusa la pietà si prostri;
ma novel tumulo ad eroi novelli
diamo, oltremare, su la quarta sponda;
e ciascun nome in pietra si scarpelli;
e sien pietre angolari che profonda-
mente radichi in terra ad opra forte
il costruttore, il saldo eroe che fonda.
O Tobrucca, alte mura e ferree porte
avrai, cantieri, maestranze, scali,
darsene, e i novi ingegni della morte.
E strapperemo alla Vittoria l'ali
perché mai dall'acropoli munita
si fugga. Avrem col Mare altri sponsali.
di sogni avremo, senza il sacerdote,
in mezzo a noi, nel mezzo della vita.
Ché l'Africa non è se non la cote
ove affilammo il ferro, per l'acquisto
supremo, contra le fortune ignote;
e riluce per noi nell'intravisto
futuro un bene che per rivelarsi
vale il martirio d'un novello Cristo.
O Giovine, se mai nel cor t'apparsi
e del gran fuoco mio l'anima t'arsi,
odimi, qual ti vedo su la fossa
della trincera mentre ancor spirante
bevi l'odore della terra smossa,
odimi. Non morrai. Sei nell'istante
e nell'eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante
e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene
di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.
Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli
anelai. Vissi come tu combatti.
Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,
d'aspro sangue, per trasmutarli in atti.
Solo, per simulacro della guerra
posi a me, tenni a me tremendi patti.
Tutto che in sé l'insonne anima serra
perverte esalta io lo conobbi. E pure
talor fui pari a un fiume della terra!
Ma gli anni d'onta, ma le cose impure
pesavano su me. La mandra abietta
si voltolava nelle sue lordure.
A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta.
Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.
La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta».
Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,
il Signore aspettato, alto volando,
come la verità, sopra la morte.
Ecco, vedi, obbedisco al suo comando
e tremo. Vedi, sono ebro d'amore
e di spavento. Or ei dice: «Chi mando,
o gridatore ed indovinatore
di cose sante? Chi andrà per noi?».
«Eccomi» dico «manda me, Signore.
Con qual segno?» Col segno degli eroi
Egli ha moltiplicata la mia gente,
accesa la virtù degli occhi tuoi.
Ah perché, mentre tutto è rinascente
che quella delle Esperidi, e il presente
e di stami indicibili, e la vita
nella pietra di Pallade corrosa
della divinità novella, e ignoto
nume è il soffio che t'agita e t'incìta,
ah perché non rinasco dal mio loto
Principe della Gioventù traendo
i miei compagni a me duce e piloto,
meco giurati a un patto più tremendo,
e, per guidarli, d'un più alto e puro
fuoco in me stesso non mi riaccendo?
O Giovine d'Italia, il morituro
ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,
declina sopra i mari del Futuro.
Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istante
e nell'eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante
e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene
di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.
Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,
gloria nei mari, gloria su la terra!
Combatti e canta come il pio Mameli;
semina e mieti; i varchi tuoi disserra;
assoda e guarda le tue vie; con pugno
intrepido le tue fortune afferra;
e sappi come traggo il miel del bugno,
l'acqua del fonte, della piaga il dardo;
e vedi come il mio dolore espugno.
Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo
abbracciato il dominio, su la vetta
vertiginosa infisso il tuo stendardo,
offerto al Sole l'ultima saetta,
alfine avrò da te forse il selvaggio
inno che il paziente orgoglio aspetta,
l'inno alla mia vigilia e al mio coraggio.