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LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI LIBRO QUINTO - CANTI DELLA GUERRA LATINA 5 - Preghiere dell'Avvento 2 - PER LA GLORIA |
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2 - PER LA GLORIA
Dio d'Italia, cui Dante il duro viso
incotto dalla vampa dell'Inferno
tende e, non vinto dal fulgore eterno,
guata con occhi di rapina fiso;
Dio d'Italia, che gli uomini di parte
cementarono vivo in pietre conce,
il sangue cittadin con le bigonce
mischiando nella calce a far lor arte;
Dio d'Italia, bellezza che il titano
Michelangelo in cupola ed in volta
girò, tagliò nel sasso, amò raccolta
nell'ossatura del dolore umano;
Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.
Dicean eglino: «Dove sono i vostri
morti? Quante migliaia di migliaia
falciò ne' vostri solchi l'operaia
assidua? Dove l'ugne e dove i rostri?
Dove i combattimenti disperati
a corpo a corpo, lama contro lama?
Chi vi devasta i campi? chi v'affama?
chi vi rempie le vie di mutilati?
Avete appreso a vivere sotterra,
fitti nel fango sino alla cintura?
Dentro il fetore della sepoltura
avete appreso a prolungar la guerra?
Avete appreso a mordere la mota?
avete appreso a mordere la neve?
e quando non si mangia né si beve?
quando il calcio s'incrosta nella gota?
e quando non si veglia né si dorme?
quando mastichi il sangue del compagno
e non sai, o t'impigli nell'entragno
caldo, o ti volti su qualcosa informe?
Avete appreso a riconoscer l'ombre
della follia, che genera il fragore,
quando si cala, giù per le gran more
dei morti occhiuti, alle trincere sgombre?
Avete appreso, posti in una croce
di fuoco, a mascherarvi come i mimi?
a brancolar, nelle agonie sublimi,
ciechi d'un pianto stupido ed atroce?
Avete appreso che la guerra è bassa
bisogna, frode lùgubre, immondizia
dolosa? e ch'è sigillo di giustizia
lo stival lordo quando schiaccia e passa?
Dove sono le donne con nel seno
due rosse piaghe, Amàzoni dell'onta?
dove i validi figli con l'impronta
di poltronìa, col pollice di meno?
Quante delle città vostre ridenti
son arse e diroccate? quanti altari
disfatti? quanti senza focolari
popoli in lacrime e in stridor di denti?
Contiamo. Avete appreso ben quest'arte?
Quegli che più patisce e che più dura
diritto avrà di primogenitura
sul gran retaggio, avrà la miglior parte».
E si divincolavano ruggendo
sotto le suola del nemico. I loro
campi erano pantani roggi. L'oro
colava come il sangue, ed era orrendo.
da giugnere, ma moncherini oranti.
Le cattedrali non avean più santi
che pregassero in sommo agli archi vani.
Il fanciullo copriva il limitare,
supino. La canizie pia del vecchio
era dispersa là come pennecchio
Tutte le dolci cose erano spente
senza pietà. Tutte le cose sacre
non erano più sacre. Il fumo acre
del sangue soffocava il Dio vivente.
Rase città lungo putride gore,
borghi in cenere sopra nere pozze
guardava solo, irto di membra mozze
e d'occhi fissi, il dementato Orrore.
L'Italia era in disparte. Taciturna
volgeva la sua faccia verso il mare
sùpero. Udiva il rombo aquilonare
percuotere la grande Alpe notturna.
L'ombra mordeva il suo bel capo stretto
fra i rostri della sua naval corona.
Come chi forte nel pensier tenzona,
ella anelava dal quadrato petto.
Di sé nutriva il suo divino male.
Come l'eroe delle speranze inulto,
parea patire un avvoltoio occulto
che le rodesse il fegato immortale.
Basso intorno al suo cruccio solitario
era il susurro d'un mercato immondo.
Non vedea, non udia, nel suo profondo
travaglio, ella. Guatava l'avversario.
E diceano i suoi blandi parasiti,
diceano i delicati proci: «O fiore
della terra, o benigna Italia, amore
degli uomini, ubertà degli iddii miti,
o nostra grazia, o nostro eterno aroma,
o nomata qual miele nella bocca,
o più dolce dell'aria che ti tocca,
o più bella del nome che ti noma,
qual è mai questo cupo fuoco ond'ardi
negli occhi tuoi d'aquila giovinetta?
Ti proteggan gli iddii, o prediletta
degli iddii tutti! L'Iddio tuo ti guardi!
Cesare è cenere, e smarrito è il dado.
Or sei tu osa ritentar le sorti?
Né dietro a te fremono le coorti
come al grifagno sul fatale guado.
Duro nemico: in vento di Croazia
è polvere di guasto, afa d'incendio.
Ogni bellezza ei tiene in vilipendio.
Mal ti difenderebbe la tua grazia.
O nostra grazia, o balsamo giocondo
per ogni cura, unguento dell'esiglio,
tra tutte le contrade quale il giglio
è tra le spine, voluttà del mondo,
o di noi vecchi bruna Sunamita,
tu sei pur sempre tutta quanta bella,
Italia! Ogni tua pietra t'ingioiella,
ogni tua gleba è un ùbero di vita.
Ti spiamo di sopra alle rovine,
o di noi vecchi bianca Bersabea.
Chi s'ardirà con l'ispida trincea
turbar l'azzurro delle tue colline?
Sèrbati a noi, sèrbati a noi perfetta
pe' lunghi ozii che a noi farà la pace
candida. Non ti giova il dado audace
trarre. Ma dormi su' tuoi lauri e aspetta».
Ella balzò con fremito selvaggio
squassando la corona e la criniera,
ebra di forza, ebra di primavera,
ebra di morte, ebra di te, o Maggio.
O maschio Maggio, turbine solare,
inno vasto di giubilo, o torrenti
di giovinezza, o sùbiti torrenti
di sangue, verso l'Alpe e verso il mare!
Diceva il Patto: «Dove sono i tuoi
morti?». Dal Chiese gelido all'Isonzo
precipitoso, nel romano bronzo
ella eternava il gaudio degli eroi.
Eccoli, Dio d'Italia, i nostri morti.
Li raccogliamo su le grandi cime,
sono la solitudine dei forti.
Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.
Di poi verranno i savii partitori
e distribuitori della terra;
sicché ciascuno, giusta la sua guerra,
godrà la parte e succerà gli onori.
Ma tu fa, Dio d'Italia, che al tuo cenno
gittiam nelle bilance lor cortesi
un ferro ancor temibile, che pesi
più della spada barbara di Brenno.