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LAUDI DEL CIELO, DEL MARE, DELLA TERRA E DEGLI EROI LIBRO QUINTO - CANTI DELLA GUERRA LATINA 14 - Cantico per l'ottava della vittoria |
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Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.
E vendica la potenza del canto sul clamore,
Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro
che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo
mal mondato nel trivio bercia.
Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli
come quando su lo strame d'Italia i tristi vegli
e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra
al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra
contro il sogghigno dei vigliacchi.
O domatrice di fuochi, foggiami tu quest'ode
e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode
mi trema e condurla non posso.
Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.
E rimbombare odo dentro di me, come alla porta
del tempio, uno scudo percosso.
Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.
Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio
Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.
E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice
Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
o Patria, così ti chiama colui che trascolora
di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un'aurora
Palpiti come un' aurora colma di melodia,
come un'aurora chiomata d'astri ignoti, che sia
apparsa alla soglia del mondo.
Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita
non sei se non il preludio della novella vita,
E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'aurora
a cui ti facemmo sacra con l'aratro e la prora
La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.
Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo
Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta
da secoli per cantare quest'inno che sovrasta
Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima
ti rapì nel Paradiso dov'arde su la cima
Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo
in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odo
fra il Tevere e il Capitolino.
Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana.
T'odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.
E l'Istria è un sol coro latino.
E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.
E la vittoria cilestra nel colossèo di Pola
si prodiga all'arcato abbraccio.
E le città di Dalmazia si scingono sul mare
cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare
nell'ambra di Vettor Carpaccio.
E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,
ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiede
tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,
ridorata come quando Venezia si rispecchia
E la seconda non fulge sopra il riposto mare
dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,
ma per gli occhi del suo veggente,
ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi
dall'ardore del futuro ch'egli vede levarsi
oggi dal sangue immortalmente.
O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,
la cecità del profeta reduce dai tre mondi
anch'egli ma senza corona!
O Spàlato imperiale, Spàlato piena d'arche
sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche
O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne
dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne
La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto l'artiglio
il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio
il tuo cipresso nell'incastro.
La sùbita primavera si crinisce di pioggia.
La rondine d'oriente torna nella tua loggia
ad annunciar la Santa Entrata.
Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardi
e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,
o tu che sei la più dorata.
E danzano la tua gioia lungh'essa la tua costa
le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,
O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!
O sasso della Donzella dove l'amor latino
rinnovellò la morte d'Ero!
E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.
E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa
E la Libertà dal vasto petto, l'unica Musa,
canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;
Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,
canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito
Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti
nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti
quando la grande alba non era.
Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:
al sommo del loro ossame portano i loro volti
trasfigurati, l'ebre gole.
Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi
come se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisi
Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,
nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale
nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,
nella Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugna
e tra l'Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,
negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,
che sono i fratelli del Grappa,
essi cantano con calde bocche, riavvampati
da un sangue repente; e vanno, s'accrescono, soldati
della luce, di tappa in tappa.
Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch'esso
di gioventù sovrumana, come aveva promesso?
«Ch'io venga anche all'ultima guerra!
Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stella
d'Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.
Ma ch'io venga all'ultima guerra!»
Giovine, giovine come nell'estancia, a Maromba,
alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba
sonò su Roma serva slargando col selvaggio
squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio
giovine e con la criniera fulva come l'estate,
sul gran stallone di neve dalle froge rosate,
che per ala ha il candido manto,
cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,
fiso alla morte, e l'amore della sua morta gente
O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira
dal mio petto? Son io servo dell'inno senza lira
Tutte le vie della notte furon da me percorse
per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse
Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni
della trasfiguratrice? Che val se m'incoroni?
Son nel carcere dell'ossa, nei lacci delle vene,
e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,
in tutte le tue creature.
Con una meravigliosa gioia tesi le mani
a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani».
Sempre diceva ella: «Più alto!».
La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.
Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa
O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso?
e perché fu ingannata l'anima? Avevo chiuso
te nell'arca e la mia speranza,
tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente
avevo teco bevuto l'acqua senza sorgente
Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi.
L'arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi,
ha scoperchiato il sasso cavo.
E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell'asta,
sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta
Ma dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era?
Non l'avevano raccolto dentro la tua bandiera
Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante
dell'ala avevan disteso, né con le foglie sante
né veduto di tra le foglie dell'alloro pugnace
ardere subitamente nel profondo torace
Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale.
Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,
in te vita e morte oggi invoco.
Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.
Si fa mattutino canto lo spirito esalato.
Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.
La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.
Regna «colui che più s'indìa».
Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore
e sono il tuo testimonio. Se m'odi, il mio amore
Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.
Da oriente a ponente l'inno prima s'intona:
«La vita riculmina in gloria!».
Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.
Da ostro a settentrione scroscia l'inno secondo:
«La morte s'abissa in vittoria!».