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Giovan Battista Niccolini
Arnaldo da Brescia

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Scena ottava. Ostasio con i suoi vassalli, e Detti

 

OSTASIO

A liberar l'amico

Giungo opportuno.

(Incomincia la zuffa fra i vassalli di Ostasio e i soldati del monaco; il quale, vedendo che i suoi erano per cedere, dice le seguenti parole:)

 

MONACO

Cedono le schiere

Ch'io qui guidava… Or la pietà sarebbe

Un delitto per noi. Mirar vogliamo

Il trionfo dell'empio? Ognor la Chiesa,

Benché madre benigna, a Dio richiede

Che i suoi nemici esterminar si degni.

S'uccida Arnaldo.

 

GALGANO

Tu morrai primiero.

(Galgano, uscendo dalla zuffa, sta per ferire il monaco, e Arnaldo glielo impedisce.)

 

ARNALDO

Fermati.

 

GALGANO

Ei fugge invano: i miei compagni

Raggiungerlo sapranno.

 

ARNALDO

Il cieco affrena

Impeto dei soldati.

 

OSTASIO

Un sì gran reo

Impunito sarà?

 

ARNALDO

Solo si lasci;

La sua pena incomincia: in quel deserto

Il rimorso lo segue; a Dio potrebbe

Tornar col pentimento: or si compianga;

Il misero non ama.

 

OSTASIO

Iddio favella

Sopra il tuo labbro. — S'ubbidisca Arnaldo;

Qual profeta s'adori.

 

ARNALDO

Ah no! sorgete;

E sia gloria a colui che la soave

Legge di Dio, che Carità s'appella,

Primo insegnò. Qual esser dee vedrete

Da ciò ch'ei narra; e ai sacerdoti antichi

Come somigli il Fariseo novello.

 

CORO

Ignudo e semivivo

Su questa via che a Gerico conduce,

Sacerdote crudel, mi vedi e passi?

Ed il tuo sguardo invano

Nel mio s'incontra, e invan gli erranti lumi,

Su cui la morte ora distende un velo,

In atto di pietà rivolgo al cielo? —

Così l'ignoto pellegrin dicea:

E ben colui che scrisse,

«La mia legge è compita allor che s'ama

Il suo nome ci tacque, ed uom lo chiama.

Poi gli mancò la voce, e i lumi ei chiuse,

E in quel gelido corpo abbandonato

E la vita e la morte eran confuse. —

Ma chi giunge? un levita… Oh dalle bende

Libera il capo: diverran più sacre

Se le converti in fasce, e tosto al sangue

Nell'aperte ferite

Chiudi le vie colla pietosa mano.

Ah se più tardi!… qui giungesti in vano. —

Questa voce parea dal muto aspetto

Sorger del moribondo; e del levita,

Che a lui s'avvicinò, sorgea nel core

Un consiglio d'amore:

Quando spuntar dalla soggetta valle

Mirò quel sacerdote, e ben s'accorse

Dalla via che tenea

Che visto ei pur quel derelitto avea;

Onde l'esempio imita

Del Fariseo crudele anche il levita.

Già su colui che langue

Pendea l'ora fatale,

E dal purpureo sangue

L'alma spiegava l'ale,

Mentre al Giudeo s'appressa

Un figlio di Samaria… A me ridici,

Aura del divo ardore,

Quali parole ei ragionò nel core. —

Perché coll'anatèma

A noi serrar presume,

Che un altro rito abbiamo,

Gerusalem crudele il sen d'Abramo,

Alla pietà di quel ferito e nudo

Il mio cor sarà chiuso? Avrei bramato

Che qui m'abbandonasse il pellegrino

Se in questa via trovava il suo destino?

Ambo siam figli d'Eva: or quei che meco

Ha comune il dolor dirò straniero?

Dell'agil mio destriero

Il procelloso piè non m'assicura:

È più rapido il vol della sventura.

Ma quel trafitto io non conosco! È reo

Forse perciò? Se noto egli mi fosse,

Più gli sarei pietoso… Ah mentre io parlo

Altri piange su lui… Consorte e figli

Quell'infelice ha forse!… Allor sentia

Tutto di pianto inumidirsi il ciglio

Questo pietoso di Samaria, e vero

Era quel che vedea col suo pensiero.

 

Ch'è già nascoso il sol nell'occidente,

La mesta donna dal balcon rimira;

Vi pende immota, e nulla vede e sente;

Onde parla così mentre sospira:

Il mio diletto nella polve ardente

I passi ha stanchi, o in altra via s'aggira

Che dall'insidie di ladroni ascosi

Un asilo gli dia che lo riposi?

 

Madre, il figlio soggiunge, ei mai non suole

Mutar sentiero, ed ha veloce il piede.

Ti rivedrò pria che tramonti il sole,

Il genitor mi disse, e ancor non riede?

Io mi ricordo delle sue parole,

E ch'egli un bacio nel partir mi diede. —

Piange la sventurata e non risponde,

E nei suoi dubbi trema, e si confonde.

 

Quel pio frattanto, siccom uom che prega,

Sta sul trafitto, e colla mano esperta

Tratta soavemente ed unge e lega

Ogni ferita nel suo petto aperta:

Mentre il contempla e sopra lui si piega.

Trepido il volto d'una gioia incerta,

Qual cui tema e speranza il cor divide,

Apre gli occhi l'infermo, e gli sorride.

 

Quel di Samaria con pietosa cura

Sul destrier suo lo guida ad umil tetto;

Gli risana le piaghe, e lo assicura

Colle parole di gentile affetto:

Questo amico fedel della sventura,

Poi che molto vegliò presso il suo letto,

Alla moglie il tornò, che allor si pose

Sul nero crin di Gerico le rose.

 

Fra l'opre tue fu questa,

Superno Amor, che sei

Raggio d'un sole che non teme ecclisse.

Tempo non v'era e loco

Quando dal sen di tua sostanza eterna,

Come scintilla a cui fu padre il foco,

Folgorò l'universo, e si diffuse

Nel mar dell'infinito il tuo pensiero,

Né più star ti piacea dentro il tuo velo,

Re solitario senza terra e cielo.

O cagion di te stesso, o senza prima

E senza poi, presente, eterno, immenso;

Tu sei qual fosti ognora, e la tua vita

Penetra tutto, e splende in ogni guisa,

E sempre una rimane, ed indivisa:

È face che rischiara e manda ardori,

Un arbor lieto di perpetui fiori.

Necessità nel cielo,

Libertà sulla terra è la soave

Fiamma di Dio, che Carità si chiama:

Oh beato colui che vuole, ed ama!

Dal peccato e la morte

L'odio nascea. Nell'immortal suo velo

Come una stella in cielo

Stava l'anima prima: ora del corpo

È fatta ancella, e n'ha gravezza e notte.

Pur si vede tuttor com'arde un riso

Negli occhi del mortal quando è benigno:

L'anima sua risale

All'origine eterna, e si fa bella.

Tanto la prima ugualità prevale,

Che vera ed una in tutti è la favella:

Il volto che in silenzio ha mille accenti

Si volge a lui che sa riporre in calma

Le tempeste dell'alma.

Così nel mar turbato

L'onda che s'avventò nel suo furore,

Se poi riede placato,

Bacia pentita il lido, e sente amore.





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