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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
(Incomincia la zuffa fra i vassalli di Ostasio e i soldati del monaco; il quale, vedendo che i suoi erano per cedere, dice le seguenti parole:)
Ch'io qui guidava… Or la pietà sarebbe
Un delitto per noi. Mirar vogliamo
Il trionfo dell'empio? Ognor la Chiesa,
Benché madre benigna, a Dio richiede
Che i suoi nemici esterminar si degni.
(Galgano, uscendo dalla zuffa, sta per ferire il monaco, e Arnaldo glielo impedisce.)
Ei fugge invano: i miei compagni
Un sì gran reo
Impunito sarà?
Solo si lasci;
La sua pena incomincia: in quel deserto
Il rimorso lo segue; a Dio potrebbe
Tornar col pentimento: or si compianga;
Sopra il tuo labbro. — S'ubbidisca Arnaldo;
Ah no! sorgete;
E sia gloria a colui che la soave
Legge di Dio, che Carità s'appella,
Primo insegnò. Qual esser dee vedrete
Da ciò ch'ei narra; e ai sacerdoti antichi
Come somigli il Fariseo novello.
Su questa via che a Gerico conduce,
Sacerdote crudel, mi vedi e passi?
Nel mio s'incontra, e invan gli erranti lumi,
Su cui la morte ora distende un velo,
In atto di pietà rivolgo al cielo? —
Così l'ignoto pellegrin dicea:
E ben colui che scrisse,
«La mia legge è compita allor che s'ama,»
Il suo nome ci tacque, ed uom lo chiama.
Poi gli mancò la voce, e i lumi ei chiuse,
E in quel gelido corpo abbandonato
E la vita e la morte eran confuse. —
Ma chi giunge? un levita… Oh dalle bende
Libera il capo: diverran più sacre
Se le converti in fasce, e tosto al sangue
Chiudi le vie colla pietosa mano.
Ah se più tardi!… qui giungesti in vano. —
Questa voce parea dal muto aspetto
Sorger del moribondo; e del levita,
Che a lui s'avvicinò, sorgea nel core
Quando spuntar dalla soggetta valle
Mirò quel sacerdote, e ben s'accorse
Che visto ei pur quel derelitto avea;
Del Fariseo crudele anche il levita.
Già su colui che langue
Un figlio di Samaria… A me ridici,
Quali parole ei ragionò nel core. —
Perché coll'anatèma
Che un altro rito abbiamo,
Gerusalem crudele il sen d'Abramo,
Alla pietà di quel ferito e nudo
Il mio cor sarà chiuso? Avrei bramato
Che qui m'abbandonasse il pellegrino
Se in questa via trovava il suo destino?
Ambo siam figli d'Eva: or quei che meco
Ha comune il dolor dirò straniero?
Il procelloso piè non m'assicura:
È più rapido il vol della sventura.
Ma quel trafitto io non conosco! È reo
Forse perciò? Se noto egli mi fosse,
Più gli sarei pietoso… Ah mentre io parlo
Altri piange su lui… Consorte e figli
Quell'infelice ha forse!… Allor sentia
Tutto di pianto inumidirsi il ciglio
Questo pietoso di Samaria, e vero
Era quel che vedea col suo pensiero.
Ch'è già nascoso il sol nell'occidente,
La mesta donna dal balcon rimira;
Vi pende immota, e nulla vede e sente;
Onde parla così mentre sospira:
Il mio diletto nella polve ardente
I passi ha stanchi, o in altra via s'aggira
Che dall'insidie di ladroni ascosi
Un asilo gli dia che lo riposi?
Madre, il figlio soggiunge, ei mai non suole
Mutar sentiero, ed ha veloce il piede.
Ti rivedrò pria che tramonti il sole,
Il genitor mi disse, e ancor non riede?
Io mi ricordo delle sue parole,
E ch'egli un bacio nel partir mi diede. —
Piange la sventurata e non risponde,
E nei suoi dubbi trema, e si confonde.
Quel pio frattanto, siccom uom che prega,
Sta sul trafitto, e colla mano esperta
Tratta soavemente ed unge e lega
Ogni ferita nel suo petto aperta:
Mentre il contempla e sopra lui si piega.
Trepido il volto d'una gioia incerta,
Qual cui tema e speranza il cor divide,
Apre gli occhi l'infermo, e gli sorride.
Quel di Samaria con pietosa cura
Sul destrier suo lo guida ad umil tetto;
Gli risana le piaghe, e lo assicura
Colle parole di gentile affetto:
Questo amico fedel della sventura,
Poi che molto vegliò presso il suo letto,
Alla moglie il tornò, che allor si pose
Sul nero crin di Gerico le rose.
Fra l'opre tue fu questa,
Raggio d'un sole che non teme ecclisse.
Quando dal sen di tua sostanza eterna,
Come scintilla a cui fu padre il foco,
Folgorò l'universo, e si diffuse
Nel mar dell'infinito il tuo pensiero,
Né più star ti piacea dentro il tuo velo,
Re solitario senza terra e cielo.
O cagion di te stesso, o senza prima
E senza poi, presente, eterno, immenso;
Tu sei qual fosti ognora, e la tua vita
Penetra tutto, e splende in ogni guisa,
E sempre una rimane, ed indivisa:
È face che rischiara e manda ardori,
Un arbor lieto di perpetui fiori.
Libertà sulla terra è la soave
Fiamma di Dio, che Carità si chiama:
Oh beato colui che vuole, ed ama!
L'odio nascea. Nell'immortal suo velo
Stava l'anima prima: ora del corpo
È fatta ancella, e n'ha gravezza e notte.
Pur si vede tuttor com'arde un riso
Negli occhi del mortal quando è benigno:
All'origine eterna, e si fa bella.
Tanto la prima ugualità prevale,
Che vera ed una in tutti è la favella:
Il volto che in silenzio ha mille accenti
Si volge a lui che sa riporre in calma
L'onda che s'avventò nel suo furore,
Bacia pentita il lido, e sente amore.