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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Del teutonico regno, e che tremendi
Fa la mitra e la spada, i miei consigli
Con voi mi giovi il conferire. Ottone,
Di Frisinga Pastor, degno fratello
Di quel Corrado ch'educommi al regno,
Ed in mezzo alla morte al proprio figlio
Della Germania i prenci al mio consiglio
Fidar la mole di cotanto impero,
Apri al nipote il cor: so che vi premi
Alto dolor, benché sereno il volto
A noi fatale
Sarà la Puglia: pria domar conviene
A quei protervi,
Che stanno a guardia delle torri altere,
Spettacol feci arsi castelli; e vide
La superba cittade, a certo esempio
Del destin ch'io le serbo, entrar le donne
Di Tortona distrutta, e in ogni via
Unite dal dolore, i bianchi veli
Colle tenere man strapparsi, e il seno,
Che già i figli nutrì, bagnar di pianto.
Né l'ira nostra vedovò col brando
Quelle infelici: era Pavia; Lamagna
Lascio all'Italia vendicar. Non temo
Le stolte genti a mutar parte avvezze
Ad ogni istante. Qui non siam stranieri;
Venni aspettato: e dei trionfi miei,
Tu lo vedesti, in sul Ticin fu gioia,
E sull'Olona si piangea. Quel breve
Spazio di terra che città divide
Sì vicine fra lor, volse in deserto
Di popoli che fece Iddio fratelli,
La scellerata insania. E noi siam detti
Barbari da costor? Prima ch'io vinca,
Abbian la libertà che qui si brama,
S'uccidano fra loro…. E ti figuri
Concorde Italia, e che vietar ci possa
Del ritorno la via? Come è mutato
Il tuo consiglio? Io ti vedea sul Reno
Reduce dall'Italia, e della stolta
Deridendo le risse, e le romane
Reliquie ricordando, a me dicesti:
«Sono dei suoi destini esempio eterno
Le mura che bagnò sangue fraterno.»
Vincerci può, benché divisa: e vedi
Che l'esercito tuo sfidar non teme
Una sola città, benché la freni
Reverenza all'Imper, e in cor le gridi
Un segreto pensier ch'essa è ribelle;
E s'alcun spirto di pietà vi resta,
Non può credersi giusta. E dritto avea
A strugger Lodi, e in servitù ridurre
Ogni uom che al ferro ed alle fiamme avanza,
E vietargli abitar fra le ruine
Dell'amata città, quasi potesse
Spegner la patria che vivea nel core?
Fu retaggio d'amore e di vendetta
La sua memoria ai figli; e li mirasti
Con quella croce che pietà c'insegna
La via fra i prenci di Lamagna aprirsi,
E del nostro linguaggio a lor mal noto
Colle parole che non fur derise
Chieder mercè; ma più ci disse il pianto.
Quei due canuti nella mente ho fissi,
E dai laceri manti ancor li veggo
Di quella patria, ove abitar fanciulli,
Il cener trarsi che posò sul core,
A te gridando: Eccoti Lodi! E valse
Il tuo fermo volere, e dell'Impero
L'autorità, perché Milan rendesse
E mura e leggi agl'infelici? Il mondo
Sa quali oltraggi vi soffrì Sichero;
Come in oblio ponesti il santo editto
Svelto dalle sue mani, e fatto in brani
Con fremito concorde, e poi nel fango
Dai più vili confitto; e colle pietre
Dell'araldo, che sacra ha la persona,
Vïolate le membra, e alfin deriso
Il suo timor che gli diè l'ali ai piedi
Rapidi sì ch'era la fuga un volo.
L'ira della pietà parole altere
Ti dettò forse, e parve grave offesa
A chi di legge e d'ogni freno è schivo
La rigida giustizia. Al nostro impero
Si sottragga Milan: breve io predico
La libertà d'una cittade ingiusta.
Ora che il suo terror la fa discorde,
Perché ti piace differir l'impresa
Già preparata, e per l'esempio ardite
Rendi d'Italia le città ribelli?
Una favilla che col piede estingui
Mi conosci,
Nobile zio: fin dai primi anni avvezzo
Fui della guerra ai rischi, e fortemente
L'ingiurie io sento, e i benefizi. L'onta
Che il mio nunzio ha sofferto, è tal pensiero,
Che nella mente ognor mi veglia, e freme.
Sospiro il dì che pareggiar la pena
Col misfatto potrò: vincere io sdegno
Senza colpo di spada e suon di tromba,
Città divisa, e a vendicar su pochi
Il delitto di tutti esser costretto.
Lieve pena s'oblia: d'Italia al freno
Sedermi io voglio qual del mio destriero
Che sul dorso m'invita, e pugne anela
Col nitrito magnanimo. Resista,
E m'oltraggi Milan! senz'essa ai patti
Scender vedrei Piacenza, e Brescia, e Crema.
Nei deboli la rabbia è men superba.
Ma le pene che diedi a' miei ribelli
Son primizie di stragi. Avaro, il vedi,
Son di sangue tedesco, e i fanti adopro
Che ne manda Pavia, Cremona, e Como,
E chi per noi parteggia: ognor li pongo
Primi alla pugna, ed ultimi alle prede;
E pietà non ne sento, e non li ammiro,
Ché madre del valore è la vendetta
Negl'italici petti: usarla io spero
Ai danni di Milano, e colle stragi
Di chi ubbidir non sa né ai suoi perdona,
Io colmerò le fosse ond'ella è cinta.
Monti all'assalto delle sue bastite
Sopra i capi d'Italia il piè tedesco,
E sian mal vivi, e più da lui si calchi
Chi spirando dirà: Perché mi premi?
Né pago il voto ch'io giurai nell'ira
Ancor sarà: se a queste mani io reco
L'empia città, voglio adeguarla al suolo,
Sicché divenga una ruina umile
Quanto ha d'altezza; e col tedesco aratro
Ov'ella fu, sull'infecondo solco
A testimon d'una condanna eterna
Spargere il sal. Questa fia l'opra sola
Che a segno di dominio a' miei Tedeschi
Concederò: ché di mirar son certo
D'ogni città fedele al nostro impero
I guerrieri alleati, al mio cospetto,
Nell'ebrezza dell'ira e del trionfo,
Alzar le scuri, ed agitar le faci
Di Milano all'eccidio; e s'io parlassi
Di clemenza pei vinti, o se nel volto
Un lieve segno di pietà fingessi,
Tu li vedresti abbandonar l'insegne,
E alla Germania divenir ribelli,
Per esser crudi ai suoi… Ma duce, io deggio
Vietar tumulti, né trovar potrei
Fra l'altre genti accolte al mio vessillo
Un furor più sollecito di mani
Sterminatrici: ivi seder potremo
Noi siccome a spettacolo; e da Roma
Reduci, allora alla rampogna eterna
Che l'Italia ci fa, quando Milano
E col ferro e col foco avran distrutta,
Risponder si potrà: Son qui maggiori
Le fumanti ruine, e voi le feste.
Signor, se vuoi che la fortuna avveri
Ciò che l'ira pensò, riedi a Pavia
Quando sul crine la corona avrai
Di quell'Impero a cui Lamagna elegge,
Ma vien da Dio: dal successor di Piero
Altro sperar non puoi.
Quanto promisi
Al terzo Eugenio, ora da me s'adempie
Verso il quarto Adrian: sempre all'Impero
I Romani Pastor chieggon ribelli
Contro i ribelli aita, e al loro giogo
Roma, ch'è mia, render degg'io. Ma poco
D'essa mi cal: più di Corrado io sprezzo
L'offerte sue. Stolta città superba,
Io non t'invidio al Pastor sommo: insulti
Alla polve dei numi e dei tiranni
Col santo piè, ma del mio ferro all'ombra.
Or dee pur Adrian serbarmi i patti
In Vusburgo giurati: in mio soccorso
Esser promise, onde all'Impero io renda
Il vicario di Cristo, e n'ha tributi
Da lungo tempo.
Accarezzar m'è forza
Di cui sei figlio, e non ripor speranze
Nella romana Curia: ha con Guglielmo
Un'ira breve, e di più lungo amore
Pegno sarà. Tu dominar la Puglia
Qual tua, non puoi: brami al Roman Pastore
Farti vassallo? scenderesti in vano
A cotanta viltà. Roma non vuole
Sì possente vicino, e quindi oppose
Ai Tedeschi i Normandi. Ah, nell'estrema
Parte d'Italia che Guiscardo ottenne
Coll'inganno e la forza, a te non venga
Il crudele desío d'avere un regno
Quando sarai lieto d'un figlio; e cresca
Sotto gelido Ciel la pianta augusta,
Che su terra d'incanti e di menzogne
Brevi radici avrebbe; e l'anatèma,
Folgor che dorme fra le nubi arcane
Onde il soglio di Piero ha velo eterno,
Da sonno, o finto o breve, in cui mal fidi,
Con più grand'ira allor fia che si desti.
Quel sacro foco a depredar non scenda
L'arbor diletta a cui sarai radice:
Egli corre pei fiori e per le frondi,
E non sente pietà del tronco ignudo.
Io riverente agli anni e ai tuoi consigli,
Benché quel che mi dai credere io deggia
Timido figlio dell'età senile,
Non ti dirò: Nel chiostro, Otton, ritorna;
Qui mal t'assidi a profetar sventure
Al comun sangue: tu scevrar sapesti
Dalla Curia la Chiesa, e pur voi tutti,
Cui circonda le chiome onor di mitra,
Non servi, ma fratelli esser dovete
Al successor di Pietro. A lui promisi
Render l'antico onor, né voglio in Roma
E consoli, e tribuni, e quanti nomi
Dimenticò di cancellarvi il brando
Degli avi nostri. Inalzerò la croce
Sull'antiche ruine, ove allo stolto
Popol rampogna la viltà presente
Un monaco ribelle, e da gran tempo
Fuor del sen della Chiesa; in sua balia
L'eretico porrò, ch'esser promisi
Io della fede il difensor: ma sacra
È pur la mia giustizia, e ognun che vuole
Sottrarsi a lei, questo Adrian promise
D'anatèma ferir. Chiaro fra poco
A noi sarà come n'attenga i patti
Chi pio vien detto, e ai suoi princìpi umili
Se l'indole abbia pari, o più superbo
Sia d'Ildebrando che nascea men vile.
Se l'orme sue ricalcar crede, e quando
Poste in sua mano avrò le briglie erranti
Sopra il collo di Roma, egli protegge
I ribelli Lombardi, o fatto ingrato
A Cesare lontan, chiamare osasse
Quella corona che mi vien da Dio,
Un benefizio suo…
Nella dolcezza degli scritti umili,
Come l'angue tra i fiori, occulta e mesce
La dottrina fatal: dove si trovi
Chi la rechi in Lamagna, e vi difenda
Fra i principi adunati al tuo cospetto
Un'antica menzogna, io colla spada,
e tutti i principi fremono di sdegno.)
Che tu mi desti a vendicar l'impero,
Vietar quel sacrilegio. — Or modo all'ire.
UN PRINCIPE
Signor del mondo è il nostro re.
UN ALTRO PRINCIPE
UN ALTRO PRINCIPE
In te la legge
Vive, ed è legge il tuo voler.
Tu dei
Della Germania liberar la Chiesa
Dalle romane arpie, d'un giogo antico
Toglierci all'ignominia: escan d'Egitto
Se meco siete,
Principi dell'Impero, io della Chiesa
Come ai tempi di Carlo, ogni diritto
Di ristorar m'affido; e allor di Roma,
Se l'armi impugna, ai piedi miei deriso
L'anatèma cadrà. Certo nel gregge
Che all'errante pastor sta più d'appresso
Ogni pecora è astuta, e delle sante
Ire si ride della fragil verga
Che un dì coll'ombra sgomentò le genti;
E nella sua virtù poco si fida
Costui che invoca il brando mio…
Fra l'Impero e la Chiesa; o coi ribelli,
Fatte vessillo, militar vedrai
Pur le chiavi di Pietro. Io dissüasi
L'impresa della Puglia, e in sensi brevi
L'alta ragion del mio consiglio esposi:
Aggiungerò non esser lungi il tempo
Che al piè fatale d'Orïone armato
Arda stella crudele il Can Celeste.
Fuggì la rabbia sua, che asciuga i fiumi,
E fende i campi, e le infocate e pigre
Nubi sospende, onde a noi vien la morte.
Fuggir?… Che dici? uso dei chiostri all'ombra,
Il Sol paventi? Onde il guerrier non abbia
Dalle mefiti del roman deserto
Ignobil morte, e soggiogar tu possa
Spoleto nei tributi infida e tarda,
E che prigion ritiene un tuo fedele;
Roma lasciando all'Appennin, si prema
Presso alla Nera il dorso, e un'altra via
Colà ci guidi, ove la Puglia è lieta,
E l'aer pieno di salute, e molte
Son le ricchezze che rapì Guiscardo
A gente molle nella sua rozzezza.
Solo temer si può che in dolce terra,
Paradiso dei vili, i tuoi guerrieri
L'ozio non vinca: ti faran contrasto
Pochi Normandi: dei Pugliesi al fianco
Pende inutile il brando, ed han veloci
Sol nella fuga i piè. Tu mal dai Greci
Chiedesti aita per domar Guglielmo
In odio ai duci suoi… Cesare voli
Alla vendetta del German, deriso
Da gente in cui viltà sempre è loquace;
Non fia che il suon delle tue trombe aspetti,
E fra la polve folgorar le spade
Del Teutone guerrier: pria che librato,
Morrà lo strale nella mano imbelle.
Nell'ora che la mente è più tranquilla
Dentro tacita stanza, ov'io non oda
Fremito d'armi che alle pugne invita,
Eleggerò: sapete esser nemiche
Al buon consiglio la prestezza e l'ira.
Mi è sospetto Adrian: qui presso a Sutri
Com'ei promise, ancor non giunge… Ascolto