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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
FEDERIGO s'inoltra verso ADRIANO, e guardandolo dice:
Nel volto di costui leggo l'orgoglio
(Federigo si appressa al papa, gli bacia i piedi, e poi vorrebbe il bacio di pace che Adriano gli nega.)
La fronte austera, e mi respingi, e taci,
E freme il labbro che offerir non vuoi
Al bacio della pace? il tuo rifiuto
Taciti preghi: ira pietosa è questa;
Minaccio il figlio che punir dovrei.
In Canossa non siam; né in mezzo ai geli
Tremante e solo io quel perdono aspetto
Che mal richiese, e peggio ottenne Arrigo.
Non varcai l'Alpi fuggitivo: è noto
Ond'io discesi, e quai vestigi io lasci,
Insino a te, sulla mia via; né gelido
Per sofferte pruine il piè vacilla,
Uso a calcar delle città ribelli
Quei che nomar non osi: i suoi portenti
In questa età. Scriva il maggior la Chiesa
Nei fasti suoi, ché Cesare più all'imo
Scender non può, né tanto Pietro alzarsi.
Si sa com'ei perdona, e mai sì vile
Non sarà nei monarchi il pentimento.
Or non è dato insanguinar Lamagna;
Fe' senno omai: ciò che fu gloria ai padri
È dei figli rossor; né da giurata
Fede può sciorli del Roman Pastore
La man che s'alza a benedir delitti.
Empio chiamarti or io dovrei; ma spero
Che in te l'ira favelli: ai ciechi affetti
Perdona Iddio l'impeto primo. Accheta
I tumulti dell'alma: umili e miti
Cristo ne vuol.
Con ossequio di figlio i tuoi legati,
Né mi fu grave rinnovar la fede
Che ti giurai: poscia a Viterbo invio
Di Cologna i pastori e di Ravenna
A stabilir quel giorno in cui ti piaccia
Cesare incoronarmi: a lor t'involi,
Come fosser nemici, e poi ti chiudi
Nella città che dai Castelli ha nome,
Per l'indugio temendo e pel ritorno
Di quei superbi che ti son fratelli.
Dove giace Viterbo ai piè del monte,
Io delle aquile mie trattengo il volo.
Non ti appaghi, o signor, che nel cospetto
Dell'adunate schiere, un lor campione
Conservarti gli averi e la persona
Giuramento facea sugli Evangeli?
Pronto a tradirmi, se così diffida,
Creder deggio Adrian! Stolto consiglio
Chieder soccorso a chi si teme: e quando
Muovo genti a punir fatte ribelli
Alla Chiesa e all'Impero, in ardue rôcche
Celarti a schermo, qual tu fossi il reo!
Ove tu fossi
Di Cesare l'amico, era il tuo loco
Nel campo suo: male or vi giungi, e tardi.
T'apri la via colle ruine, e lasci
Orme di sangue, vincitor crudele;
E s'io sento il terror che ti precede,
Tu ti sdegni con me!
Né lo vorrei: tu spettator sicuro
Fingi paure, e rampognarmi ardisci
Ciò che vietar dovevi… Ah mal si spera
Che insegniate a ubbidir! Cesare è nome
Che nel libro di Dio più non si legge.
La spada ch'ei non volle in man di Pietro,
Dall'orecchio d'un servo alzare osaste
Fino al capo dei re. Ma tu che credi
Sacra la mia ragione, e ognun che osasse
Sottrarsi a lei nei patti tuoi giurasti
D'anatèma ferir, la tua promessa
Perché sciolta non hai? Deggio in Milano
Io sopportar ciò che ai tuoi preghi io mossi
A distruggere in Roma? I miei diritti
Son più certi de' tuoi; ché fu l'Impero
Pria della Chiesa, o ciò che suo non era,
Donato ad essa Costantino avrebbe
Chiedi il sangue d'Arnaldo, e il fulmin sacro
Nell'eterna Città primo vibrasti,
E armi per me non hai? Vi son ribelli
Solo colà dove io regnar ti lascio?
Mi lasci? eterno peregrin vorresti
Il successor di Pietro? E non avrebbe
Nella valle del pianto ove s'accampi
Quella milizia che trionfa in Cielo?
O fuggitivi, o servi i suoi Pastori
Da lor coll'armi, e fra gli altari il sangue,
E libertà sul Campidoglio e l'Alpi,
Per questa larva che vi dà terrore,
Noi chiamati a varcar: lurida figlia
È dei vostri peccati… Or quali foste,
Liberi o schiavi, nell'esiglio o in trono,
Perché a cercar mi sforzi? Ha lance incerta
Il giudicio mortal, ché sulla terra
Gridano i vizi, e le virtù son mute.
Dirti il ver tenterò: calunnia, o lode
Stia sul labbro dei servi… Erate uguali
Al mal seme d'Adamo, onde la colpa
Crebbe in terra così che il Ciel dischiuse
L'acque vendicatrici, e l'uom divenne
Pentimento di Dio. La Chiesa ei solo
Reggea dal Paradiso, e vôto in terra
Era, o Cristo, il tuo loco. Otton coll'armi
Sulla via del Signor vi ricondusse,
E l'austera Germania illustri esempi
Diè sul soglio di Pier. Voi poscia osaste
Di sottrarvi all'Impero: è noto al mondo
Come grato gli fu quel pio Satanno,
Che, dei Cesari schiavo e poi ribelle,
Giudice lor si fece, e tutti i troni
Coll'ara oppressi ardì gridar — Son uno,
Siccome Iddio. — Lavò col sangue il fango:
E nel discorde mondo arse una guerra
Scellerata così, ch'eran funeste
Più le nuove virtù che i vizi antichi.
Io non dovea
Chiamarti in mio soccorso: ecco l'omaggio
Ed egli osava
Accogliermi così? Cesare offeso
Cadde ai tuoi piedi, e tu negargli osasti
Quel bacio che Gesù rendeva a Giuda!
Pace rifiuti, e vuoi la guerra.
A Dio
Già nemico tu sei: gioia all'Inferno
Eran l'empie parole, e se giungesse
Da mute insidie o da nemici aperti
Per te l'ora di morte, al Re del Cielo
Ti volgeresti invan: dall'anatèma
Son tronche l'ali della tua preghiera.
Pietà mi fai, ché da principio antico
L'impeto nasce che vi fa ribelli
Al volere di Dio. Benché lontano
Dall'origine sua, ritiene il fiume
L'acqua del fonte che gli diè la vita.
Figli del sangue che redense il mondo
I pontefici son: nacque l'Impero
Più non t'ascolto.
Va, ti risposi: finché all'uom parlasti,
Potei tacer; nel sacerdozio è Cristo
Ch'io vendicar dovea: nel calle eterno
Mostra dove cademmo, e abbiam le pure
Acque turbato ove si specchia Iddio!
Se nella via dove il consiglio è muto
Dell'aura ispiratrice, il piè vacilla
Sotto il carco d'Adamo, e ci ravvolse
Fra le tenebre sue l'affetto umano,
Nuovo è il nostro fallir: dei re le colpe
Cominciano col mondo.
D'Ildebrando i blasfemi, e qui baleni
Con i folgori suoi: del quarto Arrigo
Non sai che il sangue a quel di Svevia è misto?
Perché sprigioni dalle tue caverne
Vento superbo a dissipar la polve
D'un cenere mendace, e sveli il foco
Che vi giacea nascoso?… Allor ch'io fui
Dai prenci eletto a dominar Lamagna,
Cui l'Italia è retaggio, i casi io lessi
Del monarca infelice: ira e vergogna
M'empiean così, che col pugnal trafissi
Le carte infami, e vi correan di rabbia
Lacrime ardenti a divorar lo scritto.
Ma di quell'empia istoria il fine atroce
Ogni baldanza m'avvallò sul ciglio,
Un attonito orror vinse gli affetti
Nell'anima frementi, e al suol cadea
Il volume fatal; ma nella mente
Restò fisso ogni evento, e mai più saldo
Non si scrisse nel marmo. Or ne' miei sogni
Il delitto rivive, e sempre io veggo
Alle ginocchia ruinar del figlio,
Grave d'anni e catene il re canuto,
Ed abbracciarle invano; e poi ramingo,
Da tutti abbandonato, entrar nel tempio
Ch'egli fondava, e dimandar mendico
Un pan che gli è negato; e l'infelice
Morir di duolo, e non trovar riposo
Pur nella tomba; e gran tempo giacersi
Sull'ignudo terren di cella angusta,
Livida salma, imperator tradito,
Dissepolto dal figlio. Oh se cotanto
Ardisce, e può la tua crudel tiara,
Cessin dei re le nozze! a noi potrebbe
Nascer spergiuro e parricida un figlio:
Benedetto da voi, togliere al padre
A che d'antichi
Se il mio poter sacro non credi, è sciolto
Ogni patto fra noi: quanto l'orgoglio
Delirò d'Ildebrando esser dottrina
Soffrir potrei? Ritemprerò col sangue
Quella corona onde spogliossi Arrigo;
E l'orma sparirà del piede altero
Liberi detti. La regal possanza
Consacrata da noi perde la colpa
Dell'origin profana, e i suoi diritti
Vengon difesi dal pensier di Cristo
Che vive in noi: ci unisca ai piè dell'ara
L'antico patto, e stabil sede in Roma
Or m'assicura. Io veglierò sul mondo
Come l'occhio di Dio: se siam congiunti
Chi può star contro noi? Quel dì che a Cristo
Gli Apostoli gridaro: Ecco due spade, —
«Non più,» rispose; e al Sacerdozio unito
Era così l'Impero. Ognun risplenda
Nel seggio suo: come la luna avrebbe
Nei deserti del ciel silenzio eterno,
Se vi tacesse la virtù del sole…
In pianeta minore! e non risplendo
Che per la luce tua!
Viene da Cristo
In chi tien le sue veci. Io sono il vero,
Tu sei la forza; e se da me ti parti
Cieco rimani, ed io divengo inerme.
Siamo uno alfine; e il paragon si taccia
Che all'ira ti destò. Cesare e Pietro
Sono i monti di Dio: l'uom dalla terra
Con terror li contempli, e mai non cerchi
Qual di due più sospinga al ciel la cima;
Si vedrà dal creato, e farsi avverse
Alle genti le genti, ed ogni altezza
Quaggiù sparire, e tutto valle e polve,
Vil ludibrio dei venti, infin che venga
Dio sulle nubi a giudicar la terra.
Fa senno alfine, e dall'esempio apprendi
Dell'empio Arnaldo, esser nemico al trono
Nelle tue mani
So ch'egli venne: il giudicò la Chiesa,
Come!
Tolto ei mi fu.
Senza un mio cenno
Chi tanto osò?
S'ignora.
In forza mia
L'eretico verrà: con morte infame
Farò punirlo.
Perché fra tanti
Casi Adrian lungi da me si tenne?
Più pronta dei perigli era l'aita
Ch'io potea dargli, ed ei cercava asilo
Nelle infide città! Torniamo amici.
Che tardi?
Offeso m'hai.
Chi a ciò mi spinse? Or tutto
Poni in oblio tu che il perdono insegni.
Qui niun ci udiva; io son pentito, e basta.
Se al cospetto del mondo alfin mi rendi
Ciò che mi devi, io sarò pago; e reo
Non ti dirò, se ti confessi ignaro…
Come!
All'Impero or non ha guari eletto
Per senno e per valor, puoi gli usi antichi
Dell'alto uficio che ti fu commesso
E che? qual uso?
Pel breve tratto che misura un sasso
Lanciato dalla man, dovevi al freno
E al regio padiglione il mio destriero
Guidar dovevi, e a me tener la staffa
Quand'io scendea; né il faldistoro avrei
Opposto al trono, e con un lieto affetto
Il santo bacio in ambedue le gote
E tu da me sperasti
Tanta viltà? Son dunque tuo scudiero?
Omaggio antico è questo: al tuo rifiuto
Or più scuse non hai.
Che qui l'Inferno
S'apra sotto i miei piè, pria ch'io li mova
A tanto disonor… Suonin le trombe
I miei guerrieri a richiamar nel vallo,
E in me non sia per atto vile offesa
La maestà del sangue e dell'Impero:
Mostriam che Italia e Roma è mia.
Che tenti?
Nelle tue man cadrò; ma tu potere
Non hai su me: pur di catene avvinto,
Sempre il tuo re sarei, ch'io solo impero
Salme poi lasci per ludibrio ai regi.
Ma perché tremi? empio non sono, e stolto.
Qui la canizie del tuo capo augusto,
Dai popoli adorato, erger tu puoi
Con sicura baldanza: io che ti nego
Un vile ossequio, vendicar saprei
Con questa spada anche il più lieve oltraggio
Fatto al gran sacerdote. Or volgo indietro
Le schiere mie, ché dei Lombardi appieno
Trionfato non ho, né qui mi sei
Alleato fedele: altro sul labbro,
Altro sta nel tuo core: esser dicesti
Tu dai Normandi oppresso, e in tuo segreto
Forse gl'invochi. Differir l'impresa
Di Puglia io bramo; e tolga il Ciel ch'io cinga
Quella corona che tu m'hai promesso,
Se a prezzo di viltà comprarla io deggio.
È un vano rito il tuo. Cesare io sono
Per voler di Lamagna, e tu l'Impero
Non dai, ma lo confermi: e che lo dica
Tuo benefizio, e poi mi chiami ingrato
Aspettarmi potrei… Sempre fatale
Era Roma per noi: starvi sepolta
La corona fatal dell'Occidente,
Che dalla mano di Leone imposta,
Con tristo augurio ella rivide il cielo
Sulla fronte di Carlo. Ahi parve omaggio,
E insidia fu! rimase il re prostrato,
E il sacerdote in alto. Allor l'Impero,
Che dato al Grande avea la spada e Dio,
Fu dono vostro, e di Bisanzio astuta
Lo schiavo abietto divenir potea
Il maggiore dei re. Carlo previde
Il vostro orgoglio, e si pentì: chiamava
Nel tempio d'Aquisgrana il suo senato,
E la corona dell'antico Impero
Per darla al figlio sull'altar depose,
E a lui gridò: Colla tua man la prendi,
Tu ricevi il potere. — Anch'io sull'ara,
Se dell'Italia vincitor qui torno,
Prenderò la corona, e sul mio capo
La calcherò col brando: a questo rito,
Chi vuol gl'imperatori a palafreno
Assistere potrà.