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Giovan Battista Niccolini
Arnaldo da Brescia

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Scena diciottesima. Un Araldo, Adriano e Federigo

 

ARALDO

Or qui son giunti

I Legati di Roma: al tuo cospetto

Vuoi che sian tosto ammessi?

 

ADRIANO

Or più non deggio

Teco restar: qual nelle fiamme il vento

Sarà, per l'ira che t'accende il petto,

L'audace vol delle parole insane

Dal lor labbro superbo. A te s'addice

Minaccia e pena; a me silenzio e pianto

Su quegli erranti a cui fu chiuso il Cielo.

Quando all'ira di Dio farai vendetta

Col brando dell'Impero, il guardo altrove

Rivolgerò, ché questa gloria è tua.

 

FEDERIGO

Basta; compresi… Se anche a me ribelli

Non fossero i Romani, il lor gastigo

Chiesto mi avresti indarno: i re non sono

Un carnefice vil che mova il brando

Dei sacerdoti al cenno… A che rinnovo

Questa lite fra noi? T'affida, o Padre,

Nella giustizia mia: tu sei Britanno,

Ed io nacqui Tedesco; abbiam comune

L'odio di Roma. A Cristo e a noi fan guerra

Gl'idoli suoi pagani, e il più tremendo,

L'antica libertà; ché il suo veleno

Per l'Italia è diffuso, e nomi, e leggi,

E tumulti destò. L'opra compisci

Dei pontefici antichi, e di superbi

Marmi s'accresca ogni cenobio umile:

Fa che possano tutte in Vaticano

Le memorie perir del Campidoglio;

Lo adegua al suol: quella città superba

Un sepolcro divenga, in cui si prostri

Il Romano pentito, e chiegga a Dio

Perdono della gloria e dei delitti.

 

 

 




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