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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
UN LEGATO
A noi concedi
Libertà di parola? in mezzo all'armi
N'assicuri?
O di Lamagna
Possente re, ma della santa ed alma
Donna del mondo imperator futuro,
Se Dio l'assente con benigno orecchio,
E con mente serena udir ti piaccia
Ciò che Roma ti dice. Al tuo cospetto
Un popolo c'invia che scosse il vile
Giogo dei sacerdoti, e da gran tempo
E t'aspetta e t'invoca. Ospite breve
Perché vieni fra noi? qui torna, e siedi,
Se Cesare vuoi dirti. Allor straniero
Più non sarai, ma cittadino: il freno
Riprendi qui dell'universo, e regna
Dall'eterna Città. Pensa che ai vinti
Partecipar le sue virtù le piacque;
Grandi, li fe' servire a Roma, e n'ebbero
Leggi, valore, disciplina, ed armi,
E impero alfin: tutto riabbia, e torni
L'aquila al nido abbandonato, e rendi
Al fulmine dell'ali il volo antico:
Oltre i gioghi del Tauro e dell'Imano
Osi nomarle? e di salir presumi
Quegli ardui monti, onde non ha difesa
La patria tua? Perché da noi si scenda
Li fece Iddio. Stolto romore ascolto
Di tumide parole; ognun conosce
Le vostre glorie antiche, e se perita
Fosse la lor memoria, in voi sarebbe
L'onta minore: le virtù degli avi
Ricorda sempre chi da lor traligna,
E chiama suo quel ch'ei non fece. Ah cessi
Questo vano garrir. Folle Romano,
Deh pensa alfine a ciò che sei: di molti
Secoli di servaggio omai riposa
Notte perenne sulle moli altere,
Sudor di genti oppresse, e dove ai tuoi
Barbari veri fu dell'uom la morte
Spettacolo gradito, il sol momento
Che avessero di gioia. A punir Roma
Di sì lungo delitto elesse Iddio
D'Arminio i figli; e perché in lei vivesse
Alta memoria delle sue vendette
Non fu conversa in polve, ed ha ruine.
Qual è la sprezzo, e ciò che fu detesto;
E ammirar non si dee. Sale ogni gente
A quell'altezza che le fu prescritta
Coll'impeto fatal d'un moto arcano,
Che fugge al suo volere, e poi si volta
Per scendere alla morte: ed empia e stolta
Fu la città che osò chiamarsi eterna,
Dimenticando come Iddio le sorti
Ad ogni gente alterni, e una veloce
Necessità tutto comprenda e regga.
Sopra le rive del fatale Eusino
Nuova Roma sorgea: l'antica emunse
Il Greco sì, che divorato il mondo,
L'avida lupa allor moria di fame.
Poscia il Barbaro venne, e tu giacesti
Schiava obliata in doloroso letto
Per lunga età, né osasti il capo antico
Dalla polve inalzar del tuo deserto:
E allor che vi sorgea nube di guerra,
Pallida gente a ricovrar si venne
Sotto il gran manto del Roman Pastore;
Come fanciul che alle materne vesti
Ratto s'apprende in ogni suo periglio.
Popolo ingrato, e voi ribelli e stolti
Che libertà gridate, ite a prostrarvi
Dove Pietro morì: dannato avrebbe
La città dei trionfi a pianto eterno
Senza quel sangue Iddio; ché Carlomagno
Qui soccorse la Chiesa, e mal sorgea
Allor quell'ombra del cesareo trono,
Che superbi vi fa. Perché l'Impero,
Che Germania gli diè, chiamò Romano?
Il Longobardo, che da lui fu vinto,
Pel più abietto dei servi invan cercava
Un'ingiuria peggior del vostro nome.
Grembo del mondo Italia, e son di Roma
Tutte le genti alunne; e se tiranna,
Non maestra la credi, e lodi i figli
Che uccisero la madre, e, ad essa ingrato,
Pur le sventure sue cangi in delitto,
Perché parli di Carlo, e a noi richiedi
La corona di Augusto? Or questa usurpi,
Se da Roma non l'hai: pegni di fede
Dati abbiamo all'impero, e il freno istesso
Che alle sue mani Costantin già tenne,
E poi Giustinïan, fu ricomposto.
Pace tu speri dalla curia infida,
Prode Lamagna, e nel tuo sen non guati
Grave di guerra: è il tuo peggior nemico
Questo perenne venditor di Cristo…
Favor ne speri a racquistar la Puglia,
Se dell'Impero le ragioni usurpa,
E a feudo suo la tien: già col Normando
Cui diè nome di re, corser tre lustri,
Aprì novello traffico di sangue
Il secondo Innocenzo. Invan quest'onta
Udì Corrado a cui succedi. Adempi
Il suo difetto, e la vergogna emendi,
Se tu soccorri alla città che piange
Per grave giogo, e fra noi siedi, ed osi
Togliere all'empia Babilonia avara
Gli ampi tesori che le dà l'Inferno
E il Cristo suo, Satanno: un dì punita
Sarà l'ingorda: ha sete d'oro; e l'oro
L'affogherà.
UN ALTRO LEGATO
Ciò che si fe' pel sacro Impero. Abbiamo
Prese dei tuoi nemici, o a terra sparse
Le torri altere, né temer vi puoi
Gente che ti resista, e vi parteggi
Pel Siculo che rende ai papi omaggio.
Il Milvio ponte, ch'è sì presso a Roma,
Già ruinato per negar l'ingresso
Alle schiere alemanne, in breve tempo
Sorgea di nuovo con ardir felice;
E di mura e di pietre è sì munito,
Da render vano ogni crudel disegno
Dai pontefici ordito e i Pierleoni,
Che congiunti al Normando avean prefisso
Colle baliste fulminar la morte
Dall'ardua cima del fatal castello
Cui dà l'Angiolo il nome. E tu nemici
Creder ne puoi? Questo Adrian superbo,
I Frangipan, di Pierleone i figli,
Tranne Giordan che ci è fedele, e vedi
Al tuo cospetto riverente e muto,
Fra Roma e te porranno guerra: e molta
Già sussurrò nelle regali orecchie
Aura sinistra di calunnie astute.
Vanti e menzogne udii. Fede all'Impero
Roma serbò: ma dove è il mio prefetto?
Consoli, senatori, ordine equestre,
E magistrati, nomi solo ed ombre
In città di sepolcri, or voi credete
Da un monaco invocati esser risorti?
A quel passato che non può giammai
Rendervi l'avvenir, vi riconduce
L'inutil volo del pensiero audace,
Queruli schiavi, e vi riarde i petti
Fremito di memorie e di speranze.
Soffrir tu dei quanto permise Augusto;
E Roma, tua mercede, aver potrebbe
Voi proferir? so che per lei vaneggia
Questa italica gente, e non l'Impero,
Ma i consoli desia. Qui venne Arnaldo
Colla speranza di trovar nel gelido
Cenere del passato una favilla
Cui gran fiamma secondi. Io l'ho col sangue
In tre cittadi estinta, e simil pena
Se ancor non diedi a voi superbi e stolti,
Questo gregge ringrazii il suo pastore.
Roma è sacra per noi dacché divenne
Città di Dio. Ma perché qui raccolta
Non è Italia ad udirmi? or io favello
Qual se vi fosse. Omai provincia è fatta,
E retaggio a Germania, e il re le impone
Che elegge a sé; retro al suo carro è tratta
Con eterno trionfo. Otton le pose
Una catena che talor s'allunga,
Ma frangersi non può: perché risuona,
Liberi vi credete? io questo inganno
Farò che cessi, e saran muti i ceppi
Dal brando mio rifissi. Italia spera
Ai Tedeschi sottrarsi? Aver non puote
Nulla di suo, neppur tiranni; e pensi
Ai suoi destini antichi. Alzarla a regno
Berengario tentava, e vinto e schiavo
Incanutì fra noi; diede pur l'ossa
Prigioniere a Lamagna. Alla sua tomba
I maggiori trarrò dei miei ribelli
Incatenati; e poi sepolcro ai vivi
Le carceri saranno… A voi, Romani,
Or io mi volgo. Che l'augel di Dio
Torni al suo nido, poi che l'ali ei volse
Dell'Orïente alla Città Regina,
Sognar potete? Siamo noi gli eredi
Dell'antica virtù. Guardate intorno:
Questo è il vostro senato, e qui vi sono
Consoli, cavalieri, e tende e valli,
Disciplina, valor: qui nei conflitti
Un'indomita audacia, e intemerata:
Qui repubblica vera, e quanto aveste
Nostro divenne, e seguitò l'Impero:
Non venne ignudo in nostra man; traea
Tutte le glorie del poter latino,
E una memoria che vi dà tormento
Sol vi lasciò… Dirmi straniero osate?
Siete Romani voi? Parola insana
Certo è ad udir ch'io qui da voi sia fatto
E cittadino e re, se Roma è mia.
Voi senza cor, senz'armi, e pria derisi,
E spenti poi, timide belve, immonde,
A cui tombe e ruine eran covile,
Nati alla fuga, e a sollevar la polve
In antico deserto, e sol difesi
Dalle preghiere del sovran Pastore,
Fatti ribelli a lui, sperar potete
La signoria del mondo, e già sognate
Affacciarvi dall'Alpi? Al proprio impero
Carlo l'Italia unì; porvi la sede
Mai non pensò, perché da lunga etade
Quella superba che sdegnò confini,
Cerchio, e non centro, era provincia ai Greci,
Ludibrio ai Longobardi. A noi si volse,
E l'armi ne implorò. Teutoni e Franchi
Siamo un popolo istesso: in me pervenne
La possanza di Carlo: io son di Roma
Legittimo signor. Chi può, rapisca
Ad Ercole la clava… A me s'aspetta
Reggervi col consiglio, ed ogni oltraggio
Respingere da voi. Saprà Guglielmo
Se da stragi lombarde è fatto ottuso
Il teutonico ferro, e certa prova
Nel suo petto n'avrà qualunque ardisca
Resistermi… Non diede a voi l'Impero
Verun'autorità: sol vi consente
A prefetto un Roman, perché si degna
Eleggerlo a vassallo, e in lui trasfonde
Il supremo poter: basti all'onore
Della città. — Selve d'Ardenna, e pure
Onde del Reno, io vi abbandoni, e sieda
Nella squallida Roma, e vi contristi
Per la vaghezza di memorie antiche
Gli occhi nel fango, e chiami biondo il Tebro?
Patria a Cesare è Roma; ella risponde
Con questo nome che da voi s'usurpa
Al teutonico orgoglio: il seggio antico
Fingi sprezzar, ma te ne senti indegno.
Una voce segreta al cor ti dice,
Che della sua grandezza appena un'ombra
Ritrar tu puoi: ma ciò che fu si taccia…
Usanze e leggi custodite e sante
Per gli Alemanni, che tenean l'Impero
Prima di te, giurar tu devi, e Roma
Assicurar che da tedesca rabbia
Vïolata non resti: a quelli che hanno
Uficio in Campidoglio, ed acclamarti
Debbono imperator, quella moneta,
Di cui largo alla plebe esser tu devi,
Prometterai con sacramento, e fermi
Saranno ancor dalla tua mano i patti.
Voi siete folli… in me ragione i moti
Contien dell'ira che si fa disprezzo
Quand'io vi guardo… Alla dimanda iniqua
Segue il rifiuto, e ciò ch'è giusto io debbo,
Perché lo voglio, e nulla io fo costretto.
E patti imporre, e giuramenti ardisce
Serva plebe al suo re? La mia parola
Basta per tutti, e ciò ch'io dico è sacro.
Son magnanimi i forti, e invan temete
Che in Roma un sol de' miei ferir si degni
Col nobil ferro che la Dania ha vinto)
Gente sì vil, che di morire è degna
Prima che nasca. Ora cercate indarno
Vendermi ciò ch'è mio: vorrò coll'oro
Comprar gli onori che acquistò la spada
Del teutone guerriero? io son del mondo
L'imperatore, e sull'aver di tutti
E sulle vite ho dritto, e solo è vostro
Ciò che a me piace di lasciarvi: e quanto
Suole nell'arche custodir l'avaro,
Nelle viscere sue la terra asconde,
A Cesare appartien: vale segnato
Dell'immagine mia l'argento e l'oro:
Ciò vi gridi ch'è nostro… Io d'ogni gente
Vidi i legati ai piedi miei prostrarsi;
Da terre ignote ho nuovi doni: e a vile
Avido volgo, e in povertà superbo,
Qual debito pagar dovrei moneta
Pattüita da lui, come s'io fossi
Un debitor che il carcere sostiene?
Tanta viltà da me speraste? Io fremo
Solo in pensarvi. Al vostro re dar legge,
Infingardi malvagi!… E dirmi avaro
Tu, Roma, non potrai; ché i miei fedeli
Quel vil metallo che da me richiedi,
Getteran nella faccia ai pochi e squallidi
In sozzi panni avvolti, onde io li vegga
Fra lo scherno de' miei cader nel fango,
E ravvolgersi in esso, e disputarvi
Con fronte insanguinata il mio tributo.
Arrossisco per te. Le leggi infrangi,
La dignità calpesti. A tanti oltraggi
Sola risposta è il ferro, e questa in Roma
Spetta al popolo il darti: e noi morire
Sappiamo ancor; vincer saprà Milano.
Non senza sangue una corona avrai,
Che poi cadrà nel sangue: e mi conforta
Questo lieto avvenir che già combatte
Per divenir presente: e qui di Roma
Le calunniate glorie e le sventure,
Gioia della Germania, or io difendo.
Quando il Sol cade, ancor dei colli umili
L'ombra si fa maggiore: e così quando
Dechinò Roma dalla sua grandezza,
Ogni popolo crebbe; e sorto appena
Dal suo fango natio, mostrò le vili
Ire del servo che divien tiranno.
Patria infelice, quel che sei condanna
Chi mai non fu! Quando, o Tedeschi, in mille
Stolidi sogni che creò l'ebrezza,
Sognar potete un avvenir che vinca
Le memorie di Roma? il suo vessillo
Non si usurpi da voi. L'aquila vostra
Nacque fra i ceppi e l'ombre, e sol discese
Sui cadaveri nostri a certa preda;
Ma non osa tentar le vie del cielo
Coll'occhio infermo che paventa il sole.
Che di Germania parli? Ai nostri danni
Congiurava ogni gente, e sempre indarno,
Sino al giorno fatal che, vinto il mondo,
Roma uccidea sé stessa. In voi non era
Pensier di gloria e di vendetta: il vento
V'agitava dell'Asia, e allora i dolci
Campi d'Italia ad inondar scendeste,
Lurida nube che non tuona e fugge.
Non lacrime di re tratti in catene,
Non lunga polve di trionfi, e l'onda
Di plebe che gridò: «Cesare giunge:»
Fu sulla Sacra Via; ma la percosse
Di barbari corsieri il piè sonante:
Poi la gente avidissima si sparse
A cercar l'oro nelle tombe; e il sole,
Che non vide città maggior di Roma,
A mirar condannò l'ossa dei forti
Dissipate nel suolo; e con insana
Rabbia impotente d'atterrar tentaste
Le moli antiche; e dalla rea fatica,
Stanchi e prostrati, e nella polve ascose
Quelle ruine che vi dier terrore,
Non osaste seder, barbari vili,
Sul sepolcro di Roma… E tutto aveste
In lei distrutto: rimanean le sante
Leggi che diede il vincitor benigno
Ai popoli volenti, e un dolce impero
Tutti li unì. Del gran consorzio umano
Voi sempre indegni, e non vi muta il Cielo.
Nell'Italia ai Tedeschi è fato invitto
Divenir molli, e rimaner crudeli.
(L'esercito tedesco, gridando Morte, vorrebbe uccidere Giordano: Federigo lo impedisce stendendo Io scettro.)
E l'ira vostra
Scenderà così basso? egli è Giudeo,
D'Anacleto german, degno Legato
Della nuova repubblica: vedete
In chi risorge la virtù romana! —
Quanto cadea la vostra gloria in fondo,
Saper non voglio da macerie e sassi;
Nei vostri aspetti io lo contemplo, e voi
Siete di Roma la maggior ruina.
I LEGATI
Nunzi qui siam; ci rivedrai nemici.
Ché fremono le schiere: io più non posso
Da loro assicurarvi.
I LEGATI
A fronte avrete