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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Arnaldo fu Bresciano non sol di domicilio, ma ancora di nascita. Non si può tuttavolta ben accertare s'egli nascesse in città, o in alcun luogo del contado, non trovandosi ciò scritto; ma è più probabile che fosse cittadino. Alcuno de' nostri scrittori ha detto ch'ei fu nobilissimo, ma non ci dice d'onde abbia presa questa notizia; ed è noto, che un secolo prima gli scrittori lavoravano francamente di fantasia. L'essere però Arnaldo stato mandato sino in Francia agli studi, dimostra che la sua famiglia non era povera di facoltà.
In qual anno egli nascesse, è difficile l'indovinarlo; io conghietturo ch'egli nascesse circa l'anno 1105. Eccone il fondamento. Egli morì in Roma nell'anno 1155, assai verisimilmente nell'anno cinquantesimo dell'età sua; perché non veggo che alcuni de' suoi avversari lo rimproveri o di furor giovanile, o di aver delirato in vecchiezza nell'opporsi in Roma con tanta costanza al formidabile partito papale. La figura ch'ei fece in Brescia nella fazione de' Bresciani contra il vescovo Maifredo, nell'anno 1138, e nel Concilio di Sens in Francia, nel 1140, dimostra ch'ei non doveva esser minore d'età di trenta e più anni quando figurò in Brescia, e di vicino a' quaranta quando figurò in Francia. Ponghiamo che quando egli era in Roma avesse quarantacinque anni; dal 1150 sino al 1155, in cui morì, corrono cinque anni, che aggiunti a quarantacinque fanno in punto gli anni cinquanta.
Abbracciò Arnaldo da giovinetto lo stato ecclesiastico, e ricevette i primi due ordini minori. Ciò apparentemente deve essere succeduto in Brescia, e il suo vescovo ordinatore esser dovette il nostro vescovo Villano, che di coadiutore divenne vescovo nel 1116 per la deposizione del suo predecessore il cardinale Arimanno, seguita quell'anno nel Concilio Romano; alla qual disgrazia soggiacque di poi nel 1132 anche il medesimo Villano, che fu discacciato dal vescovado di Brescia da papa Innocenzio.
Aveva Arnaldo sortito uno straordinario talento, ed una veemente inclinazione agli studi. Questo fece che i suoi maggiori determinarono di mandarlo a tal fine in Francia alla scuola del celebre Pietro Abailardo, la cui fama tirava in quel regno il fiore della nobiltà italiana. Ebbe ivi, in conseguenza, per condiscepoli molti giovani illustri d'Italia, e spezialmente di Roma; poiché nella Romana Corte per questo appunto vantava Pietro Abailardo molti suoi scolari divenuti prelati e cardinali, tra quali il cardinal Guido di Castello, illustre per e sue Legazioni, onorato dalle lettere di san Bernardo, e divenuto papa col nome di Celestino II.
Guntero ci dice che Arnaldo stette alla scuola d'Abailardo per lungo tempo ma non ci dice quanti anni.
Ci dice bene che colà visse con poca spesa. Questo potrebbe mostrare che le facoltà d'Arnaldo non fossero molto copiose né molto illustre la sua famiglia, o che i suoi maggiori gli fossero avari di uno splendido trattamento conveniente alla sua nascita e al patrimonio. Ma potrebbe essere ancora che il giovane Arnaldo, applicato tutto agli studi, non si curasse delle vane comparse che piacere sogliono alla gioventù lontana dagli occhi de' suoi maggiori. Quel che penso essere ancor più probabile si è, che il giovane Arnaldo abbracciasse colà l'istituto degli altri scolari di Pietro Abailardo. Perché, ecco ciò che di loro racconta Natale Alessandro. L'Abailardo, dopo la sua conversione, fecesi monaco in San Dionigi. Non trovò in quel monistero pace nessuna. La disapprovazione libera ch'ei faceva della vita secolaresca di que' monaci, e l'aver voluto sostenere la sentenza del venerabile Beda, che il san Dionigi di Francia non era stato l'Areopagita, gli tirò addosso una fiera persecuzione. Sottrattosene colla fuga, al fine col consenso del re, con licenza dell'abate, e per la liberalità d'alcune persone, si formò un nido di quiete in una terra del contado di Troyes, donatagli, in un luogo amenissimo, dove si formò la sua capanna, ed un oratorio di canne e di paglia. Inteso ciò dagli scolari, dice Natale Alessandro, cominciarono a concorrere da tutte le parti, ed abbandonate le città e le castella, abitare nella solitudine: invece di case, costruirsi delle capanne: invece di cibi delicati, vivere delle erbe della campagna, e di pane plebeo: invece di letti molli, procacciarsi paglia e strame: e invece di mense, ergere delle zolle di terra. Assai probabilmente il giovane Arnaldo fu di questo numero, e questo verisimilmente ha voluto indicare Guntero, quando scrisse: Tenui nutrivit Gallia sumptu.
Era molto naturale che questa vita da monaco fervoroso ispirasse al giovane Arnaldo l'amore alla vita monastica. Di fatti, tornato in patria dopo il termine de' suoi studi, si fece monaco in uno dei nostri monasteri, ma non si trova in quale di essi venisse ricevuto. Generalmente parlando, questo è verisimile indizio, che la disciplina monastica non fosse tanto scaduta ne' bresciani monasteri, o almeno che il penitente giovane alcuno ne trovasse acconcio a' suoi pii disegni. Il che a me sembra tanto più verisimile, quanto che, essendo stato lungamente alla scuola di Pietro Abailardo, avea potuto coll'esperienza del maestro, che non trovò quiete né al monastero di San Dionigi, né in quel di Ruys, imparare con qual circospezione dovesse scegliere il monastero in cui destinava di menar la sua vita.
Il suo fervore non fu passeggero; né la vita sì poco regolata del gran numero de' monaci di quel tempo lo potè raffreddare. Sembra anzi che andasse crescendo; perché nell'anno 1140 san Bernardo attesta che la sua vita era austera, e che i suoi digiuni erano tali, che pareva non mangiasse né beesse: il suo discorso era pieno di unzione, la sua conversazione dolcissima, il suo esteriore tutto spirante pietà.
Si può ben credere che ad un religioso di questo carattere fosse di somma afflizione lo stato compassionevole della Chiesa Cattolica di que' tempi. Innondava allora la simonia, di cui la fonte principale era l'imperial corte di Germania, dove facevasi traffico notorio de' vescovadi e delle abbazie. Questi prelati simoniaci naturalmente volevano rimborsarsi della spesa fatta nel comperarsi il benefizio; e così vendevano anch'essi gli ordini e i benefizi a persone che si studiavano anch'esse pure di risarcirsi colla vendita delle orazioni e de' Sagramenti. Da somiglianti prelati non poteva aspettarsi gran sollecitudine nella scelta de' ministri del santo Altare. I canoni che versano sopra una materia sì gelosa, non erano in alcuna considerazione. Non si guardava all'età, perché il nostro vescovo Ulderico ordinò prete e parroco di San Giovanni Battista, Ardiccio degli Aimoni, ancora fanciullo di soli dodici anni. Non si guardava a' costumi, perché quelli del nostro clero d'allora non potevano essere più corrotti. Non si guardava né meno alla scienza, di cui in quel tempo non apparisce vestigio: il solo interesse dell'ordinatore suppliva a tutto.
In tanta disattenzione de' prelati, non potevano non innondare tutti i vizi nel clero. Tanti cherici entrati nella casa del gran Padre di famiglia non per la porta, ma per le finestre, senza vocazione, senza spirito ecclesiastico, senza lettere, senza alcun freno de' loro prelati, non potevano non abbandonarsi all'ozio, padre de' vizi, ed approfittarsi della ricchezza delle loro prebende per fomentarli. Il lusso della mensa, delle vesti, degli addobbi divenne eccessivo. L'esempio de' prelati, che affettavano la temporale signoria, e perciò mantenevano un treno principesco, non pur metteva tutto il clero inferiore al sicuro da ogni loro riprensione o gastigo, ma lo assicurava della loro approvazione e della loro grazia. Da questa vita molle era naturale che sboccasse con empito l'incontinenza. E di fatti, benché Dio ne conservasse alla sua Chiesa alcuni illibati, venne tempo in cui non era disdetto a chi di loro il volesse il mantenere pubblicamente una concubina, ed il generarne ed allevarne in palese i figliuoli. E tanto d'ardire presero gl'incontinenti, che a dispetto de' canoni anche recenti, e di tanti Concili allora celebrati per metter argine a sì torbido torrente, le concubine menavansi francamente a casa come spose legittime, e le dame più illustri non facevano difficoltà di sposarsi ad un prete.
La necessità di mantenere non solo un treno magnifico, ed una copiosa e splendida mensa, ma ancora la moglie e i figliuoli, e di dare a questi un congruo stato, generò altri disordini. Si perdette la memoria della divisione che dee farsi delle ecclesiastiche rendite da ogni benefiziato, ritenendo per sé sol quanto basti al sostentamento frugale della sua persona, e dispensando il restante alle chiese ed a' poveri. Tutto applicavano a sé ed alla propria famiglia. Anzi, non contenti di ciò, procacciavansi il maggior numero di benefizi ecclesiastici che potevano; e di qui nacque l'abuso lagrimevole della pluralità de' benefizi ancora aggravati di cura d'anime, e quindi la non residenza. Più: dove non giungevano le rendite a supplire ai loro bisogni o alle loro cupidità, alienavano i fondi stessi, disponendone ad arbitrio come di cosa propria, e con vendite e con infeudazioni e con donazioni, e in ogni altro modo che occorresse; nel che i prelati diedero ad essi un esempio scandaloso.
Per giustificare abusi di tanto scandalo, si passò ad un altro maggiore, che fu d'insegnare che i beni ecclesiastici erano propri de' benefiziati, ch'essi n'erano padroni, e non semplici amministratori e dispensatori; e perciò era loro lecito e di consumarne tutte, senza detrazione d'alcuna, le entrate, e di convertire a proprio uso i frutti e il capitale stesso dei fondi.
A tutti questi mali s'aggiunse la fiera e lunga discordia tra l'Impero e il Sacerdozio, con tanti scismi, guerre e rivoluzioni, che finirono di mandare a fondo ogni residuo di disciplina. In questi tempi di turbolenze, la via certa di salire alle prelature più cospicue era quella di mostrarsi zelante dell'uno o dell'altro partito, secondo che le circostanze facevano comparire più probabile la speranza del proprio avanzamento. Quando la parte imperiale era la più potente, era facile il trovare una quantità d'ecclesiastici nobili che si riscaldavano a favore di Cesare, entrando a gara in tutti i complotti anche iniqui, senza eccettuarne gli stessi scismi. Dove al contrario pendesse la bilancia del partito papale, vedevansi altrettanti zelare la causa del papa, e colorire la propria cupidità col finto zelo della religione, ed eccitare per divozione i principi ed i popoli alla ribellione contro l'imperadore. Di questo numero fu il nostro vescovo Arimanno, che per un somigliante zelo fu creato cardinale (dignità allora più rara fuori di Roma) e costituito Legato Apostolico in Lombardia. Fu impresa di questo Cardinal-Legato lo spuntare con tutta forza, che la nostra città, allora suddita dell'Impero, si ribellasse al suo signore, e s'ergesse in repubblica. E da qui può vedersi, che gli ecclesiastici delle altre città Lombarde e toscane furono gli autori principali di simili ribellioni delle città loro.
Da questo nuovo disordine ne nacque un altro, e fu che i vescovi delle città lombarde, siccome erano stati i capi della ribellione, così vollero essere i capi delle nate repubbliche; il che espressamente raccontasi del pure or detto cardinale nostro vescovo Arimanno. Egli stabilì per patto della concertata ribellione, che il vescovo sempre fosse il capo e il signore di Brescia, superiore al generale Consiglio ed ai consoli. Così fecesi una nuova piaga mortale alla pur troppo già piagata disciplina, trasfigurando i vescovi, di pastori delle anime, padri de' poveri, conciliatori della pace, maestri dell'umiltà, della mansuetudine, della frugalità, del disprezzo d'ogni terrena grandezza e d'ogni terreno tesoro: in principi del secolo, oppressori de' deboli, conciliatori di guerre ed alleanze, ed esempio d'alterigia, di doppiezza, di ferocia, e di mondana magnificenza.
Questo loro temporale governo non poteva non esser funesto allo Stato ed alla Chiesa. Alla Chiesa, perché oltre allo sconcertar del tutto l'idea del vescovato, distraeva i prelati in tutto dalle cure pastorali ed avviliva in appresso l'idea dello spirituale ministero lasciato in tutto al clero più basso, quasi impiego servile, e da gente plebea; spargea nel clero, spezialmente nobile, uno spirito di terrena grandezza; autorizzava il lusso e le cure secolari, e il mal uso delle ecclesiastiche rendite; e ciò ancora che più monta, gl'interessi del principato erano quasi sempre in contrasto con quei della Chiesa, convenendo al vescovo-principe spesso il promuovere non la concordia, ma la disunione; non la pace, ma la guerra; non la riforma de' disordini, ma la tolleranza, ed anche l'aumento de' medesimi. Lo scialacquamento immenso delle decime e di varie regalie della Mensa episcopale di Brescia nacque da vescovi somiglianti, che per istabilire la loro temporale grandezza, le divisero in feudo tra' potenti della città e del territorio, che restarono con ciò costituiti vassalli del vescovo, ed obbligati a portar l'armi a sua difesa. I poveri e le chiese rimasero interamente privi della porzione spettante a loro nelle entrate della Chiesa; le quali, benché solite a sopravanzare al mantenimento del pastore, più nemmeno bastavano al mantenimento del principe, il quale trovavasi obbligato a procacciare il mancante colle annate de' benefizi vacanti, co' pesi annui imposti alle chiese, e fin colla vendita delle indulgenze, e talora degli ordini e de' benefizi.
Riuscì funesto ancora allo Stato. Dio, che ha istituite le due podestà regia e sacerdotale, le aveva ancora divise. Non era sperabile ch'egli spargesse le sue larghe benedizioni sopra il governo di chi per umana cupidità aveva voluto riunirle insieme contra l'ordinazione divina, e per vie sì poco legittime. Perciò il governo d'Arimanno fu alla nostra città funesto. Il popolo, che aveva cominciato a bramare di godersela intera, ed a diminuire l'autorità temporale del vescovo, il vescovo fermo a ritenerla, eccitò dissidii tra il popolo, che abortirono ad una guerra civile, che dopo avere sparso un fiume di sangue cittadino, e desolate le nostre fertili campagne, finì alla peggio di lui, che fu bandito per tre anni lungi cinquanta miglia da' confini bresciani.
L'autorità temporale del vescovo da quel tempo si ridusse a poco, e già si pensava a ridurla a niente. Arimanno nel 1116 fu deposto dal vescovato, nel Concilio di Roma, da Pasquale II. Non si sa il perché, ma sì può senza gran pericolo d'errore pensare, che questo vescovo, pieno di spirito mondano, vedendo abbassata da' Bresciani la sua temporale autorità sopra di essi, pensasse di riacquistarla col gettarsi al partito dell'imperatore Arrigo V, che allora preponderava in Italia contra il papa Pasquale.
Villano, suo coadiutore, tentò anch'egli invano di rialzare la signoria vescovile al tempo ch'ei reggeva la nostra chiesa in assenza del bandito vescovo Arimanno. Divenuto poscia vescovo, forse fece nuovi attentati; ma non dovette riuscire con felicità, perché nel 1132 il pontefice Innocenzio II, venuto a Brescia in persona, lo cacciò dal vescovato: il che dimostra, a creder mio, che anch'egli, come Arimanno, impaziente di vedersi col solo pastorale senza lo scettro, si buttasse al partito dell'antipapa Anacleto, che disputava il papato ad Innocenzio, ed aveva in Italia il partito più forte, ed il favore di Corrado re d'Italia.
Al vescovo Villano venne dunque sostituito Maifredo, che era già suo coadiutore da undici anni, e fu sospettato che co' suoi uffici presso al papa Innocenzio avesse promosso la deposizione di Villano, come accerta l'abate Biemmi nella sua Continuazione della Storia di Brescia manoscritta; il quale fa ancora osservare, che siccome Arimanno aveva per coadiutore Villano, e fu deposto nel 1116, e Villano avea per coadiutore Maifredo, e fu parimente deposto nel 1132, e il loro posto fu immantinente occupato da quei loro coadiutori, si può ben credere, che ciò bastantemente insegnasse a' vescovi che seguirono, a non servirsi più di sì fatta coadiutoria, perché da qui innanzi non veggonsi più nominati questi vescovi coadiutori. Maifredo, pertanto, con non minore ardenza dei suoi predecessori, diedesi a rialzare il prostrato edifizio della temporale signoria episcopale: e si può credere che a ristabilirla molto contribuisse il papa Innocenzio, che allora trovavasi in Brescia; perché è assai credibile che Maifredo promettesse al papa un inviolabile attaccamento a lui, ed un efficace studio per mantenergli attaccata la città, di che il papa aveva estremo bisogno in quel tempo. Racconta lo stesso abate Biemmi, nella citata continuazione della sua Storia ms. di Brescia, un fatto che ci può dare molto lume tra le tenebre di tanta antichità, e in tanto disperdimento delle antiche carte. Doveva il papa Innocenzio aver deplorata la decadenza della disciplina ecclesiastica della nostra città, la quale aveva avuto l'infortunio d'essere stata governata successivamente da quattro vescovi scismatici, e morti scomunicati, e poi dal vescovo-cardinal Arimanno, e da Villano, che entrambi, solleciti solo del temporal principato, non solo non si erano curati di ristabilire la disciplina, ma l'avevano più che mai precipitata colle guerre e discordie che destarono per conservarselo. Quindi non meno in Brescia, che nelle altre città, specialmente di Lombardia, regnava nel clero la simonia e l'incontinenza, cogli altri abusi che ne sono la sequela. È assai verisimile che il papa zelante raccomandasse a Maifredo vescovo-coadiutore di procurare vigorosamente la riforma; e che Maifredo, bramoso di salire sulla cattedra episcopale, se ne mostrasse non meno zelante del papa, accusasse Villano d'aver trascurato un affare sì rilevante, e promettesse al papa, che se fosse egli fatto vescovo, radunerebbe un Sinodo diocesano, in cui la riforma sarebbe fatta nelle forme. Di fatti, salito sulla cattedra di Brescia, e dato buon sesto alle cose sue per tutto l'anno seguente 1133, radunò l'anno dipoi il Sinodo, per quanto afferma l'ab. Biemmi, in cui co' voti concordi del clero si vietò la simonia e il concubinato, e si fecero altri utili decreti. Può servir questo di gloria al clero Bresciano, perché si vede che tutto non era corrotto, anzi la maggior parte di esso detestava gli abusi, e ne procurava l'estirpazione.
L'abate Biemmi ne attribuisce specialmente il merito ai parrochi di campagna, e nominatamente ad Ambrogio parroco di Gardone in Valtrompia, e a Tostando parroco di Vestone in Valsabbia. Ma o questa notizia non deriva da pure fonti, o almeno dee dirsi che Ambrogio fosse parroco della pieve d'Inzino, e non di Gardone; perché Gardone è parrocchia nuova, assai di fresco smembrata dalla pieve d'Inzino. Per altro è certo che nella città il disordine del concubinato pubblico, e portato fino alla sfacciataggine di palliarlo col nome di matrimonio, era familiare, specialmente alla nobiltà di quel tempo. Se i parrochi ancora concorsero nel Sinodo a condannare la simonia e l'incontinenza, può ben presumersi che pensassero trattarsi da Maifredo per cerimonia questo negozio, e che non verrebbe mai dalle parole ai fatti per dare esecuzione ai decreti, poiché non gli tornava a conto l'irritare contro di sé le persone potenti di cui abbisognava per mantenersi sul trono.
Ma il popolo bramava ardentemente la tanto necessaria riforma del clero, e perciò i consoli di quel tempo sollecitavano fortemente il vescovo Maifredo a dar esecuzione ai decreti del Sinodo, e costringere i concubinarii ad allontanar le concubine, e i simoniaci a rinunziare le sagrilegamente occupate prebende, usando le pene canoniche ove non fruttassero le ammonizioni. Fosse pio zelo del vescovo Maifredo, fosse brama di mantenersi nella protezione del papa Innocenzio, fosse paura di disgustare il popolo, e di perdere non sol la signoria, ma ancora il vescovato, com'era accaduto ai due suoi immediati predecessori, s'arrese alte istanze de' consoli, con patto che l'assistessero nell'impresa colla forza dell'autorità civile, che stava non men nelle loro che nelle sue mani.
Siccome per una parte il cancro del clero era invecchiato, e dall'altra in que' tempi i vescovi non si curavano d'usare né i rimedii dolci della predicazione, né la forza piacevole dell'esempio d'una illibata osservanza dei santi canoni, ma davan di mano subito ai rimedii acri delle censure e della privazione dei benefizii (come abbiam veduto praticarsi da Arimanno e da Villano col canonico Morando nel 1110; e forse nemmeno procedevasi colla debita esattezza dell'ordine e del processo, come in quel caso appunto procedettero senza ordine alcuno que' due prelati); il rimedio non solo fu inutile, ma rovinoso. I cherici dissoluti, ch'esser dovevano i più potenti della città, destarono una fiera sollevazione contra il vescovo e contra i consoli, declamando, com'è credibile, che il vescovo ed i consoli procedessero tirannicamente; che violassero gli usi immemorabilmente tollerati non solo in Brescia, ma in tutta la Lombardia, anzi in tutta la Cristianità; che operassero non per vero zelo della disciplina, poiché il vescovo era salito sulla cattedra per vie poco plausibili, ma questi per farsi merito a Roma a loro costo, e quelli per avvilire e mortificare la nobiltà odiata dal popolo. Pertanto fu loro facile il tirare al lor partito non solo tutti i parenti loro e delle pretese lor mogli, ma ancora i loro vassalli, arimanni e dipendenti, e cacciare a furia dalla città e il vescovo e i consoli; come seguì, secondo l'ab. Biemmi, nell'anno susseguente 1135, e rilevasi dal Cronico Bresciano mandato da Bologna, dove a quest'anno si nota: Consules primi ejecti sunt.
Il papa Innocenzio prese a cuore di ristabilir Maifredo, ed a questo effetto mandò a Brescia suo legato il cardinal Oberto in via lata; per mezzo del quale, ricomposte le cose, fu dalla città spedito a Maifredo il conte Goizone da Martinengo per ricondurlo alla sua cattedra. Non si sa quali fossero gli articoli di questo accordo; ma sembrami assai verisimile che le difficoltà incontrate dal vescovo Maifredo nel disgustare i nobili col tentare la riforma, consigliassero a lui di non più insistere su tal negozio, ma abbandonando i dissoluti, come incurabili, alla propria coscienza, procurarsi per tutte le vie la benevolenza de' grandi col favorire il loro partito. Io penso che verisimilmente si spargessero allora i semi di quelle eterne discordie tra la nobiltà e il popolo di Brescia, che poi lacerarono funestamente la bresciana repubblica; e che il vescovo Maifredo, per istabilirsi nel principato della città, s'abbandonasse fin d'allora al partito dei nobili.
Tanto più acremente dunque il popolo, che bramava la riforma del clero, opponevasi all'autorità temporale del vescovo Maifredo; e si può credere che nell'elezione de' nuovi consoli, nei quali era riposta la somma della pubblica autorità, il popolo si studiasse di sollevare a quel posto quei due soggetti cui vedesse più ardentemente desiderare e il ristabilimento della disciplina, e la perfetta libertà della patria; e che tali appunto fossero i due consoli Ribaldo e Persico, i quali si trovavano consoli nell'anno 1139.
Arnaldo, che ardeva di desiderio di veder riformata la Chiesa di Dio, e ben conosceva quanto fosse contrario allo spirito, alle leggi ed all'utilità della Chiesa questo principato che il vescovo Maifredo ambiva per mezzi sì poco plausibili, e in circostanze nelle quali l'estrema necessità della riforma esigeva un prelato libero da tutte le mondane occupazioni ed interessi per applicarvisi con tutto lo spirito e con tutte le forze, e specialmente che presentasse nella propria persona un modello compiuto dell'osservanza dei santi canoni; disapprovò pubblicamente l'impresa del vescovo, ed animò i consoli a resistervi. Il sentimento d'un uomo già montato in gran credito di dottrina e di pietà, confortò i due consoli nella loro impresa. Essi lo confortarono a vicenda a farsi merito presso a Dio di prendervi parte con calore, e colle sue prediche al popolo tirarlo tutto al buon partito. Arnaldo non fu punto restio. Colle Scritture e coi canoni alla mano, mostrava al popolo che i vescovi, siccome descritti in capo alla milizia di Dio, non debbono impacciarsi né intrigarsi in faccende secolaresche; che come successori degli Apostoli debbono esserne gl'imitatori, e dire, come dicevano gli Apostoli, a chi li voglia aggravare di mondane sollecitudini: Non è giusto che noi abbandoniamo la parola di Dio per servire alle mense, cioè per procurare al popolo i temporali vantaggi: eleggete tra voi degli uomini capaci di tale ufizio, e noi ci applicheremo con istanza alle funzioni sante, ed al ministero della parola divina. Siccome Arnaldo era eloquente, per confessione de' suoi medesimi avversarii, ed era in reputazione d'uomo erudito e di santa vita, gran parte del popolo entrò ne' suoi sentimenti, e così il partito dell'opposizione contra il vescovo Maifredo divenne assai potente.
Non istette Maifredo colle mani alla cintola. Seppe stringere a sé più che mai i nobili, così ecclesiastici come secolari, mostrando ad essi, che il vescovado di Brescia era un benefizio destinato ai nobili, e che passando da una in altra famiglia, col tempo ad una ad una le illustrava tutte collo splendore non solamente della mitra episcopale, ma ancora dello scettro; che si toglieva in conseguenza all'ordine nobile quanto toglievasi al vescovo. Seppe rappresentare, che il vescovo principe della sua città avrebbe sempre favorito i nobili dell'impiego delle cariche della repubblica e della Chiesa, ed esclusone i plebei: laddove trionfando in questo affare la plebe, nemica naturalmente de' nobili, essi verrebbero villanamente sprezzati, e ributtati da tutti gl'impieghi civili ed ecclesiastici. Fece anche apprender loro che la plebe, abbandonata ai consigli d'Arnaldo, uomo di severi costumi e uno zelo indiscreto, avrebbe dimandata ad alta voce la generale riforma di tutto il clero, per lo che una gran parte de' benefiziati sarebbero stati privati de' loro benefizii col pretesto della simonia o dell'incontinenza, e ridotti colle loro famiglie all'obbrobrio ed alla mendicità; e che quei medesimi che rimanessero in possesso delle loro chiese, verrebbero ridotti a contentarsi d'una porzione assai tenue delle loro rendite assegnate pel loro sostentamento ristretto alla misura assai rigida dell'antica severità dei canoni. Seppe spargere questa non insussistente apprensione ancora in quei monasteri, nei quali il possesso di regi feudi e di grandi ricchezze, e l'usurpazione delle parrocchie e delle decime, l'eccesso del lusso e della mollezza, e l'ingiusta detenzione della gran parte dei loro prodotti dovuti ai poveri, non somministravano poca materia alla riforma da Arnaldo bramata.
Quindi non solo il vescovo e i nobili, così ecclesiastici come secolari, ma tutto il clero, gli abati ed i monaci, si confederarono per far fronte ad Arnaldo ed alla sua fazione, sostenendo al popolo tutto il contrario di ciò che Arnaldo insegnava. Arnaldo, per mostrare al popolo come le voci de' suoi avversarii partivano non da amore della verità e della disciplina, ma da quello dell'interesse loro in grave pregiudizio spirituale e temporale del popolo medesimo, gli mostrò quanto ingiustamente i cherici ed i monaci riputassero suoi proprii i beni delle chiese, per autorizzarsi a spenderne i prodotti in lusso, in golosità ed in usi peggiori, e fino a dilapidarne i fondi che formano il patrimonio de' poveri; quando, come semplici dispensatori, non possono trarne per sé che il necessario onesto sostentamento, e suppliti col rimanente i bisogni della religione, distribuirne fedelmente l'avanzo ai poverelli. Mostrò la necessità della riforma del clero e de' monaci, rilevando col confronto de' canoni antichi l'orrore e la moltitudine de' moderni abusi; e mostratane la necessità pur troppo evidente, fece osservare come indarno ella speravasi da vescovi rivestiti dell'autorità regia, ch'essendo i primi a violare in materia gravissima i sacri canoni, o non la tenterebbono mai, o la tenterebbero senza successo, perché il clero, gli abati ed i monaci lor direbbero: Medice, cura te ipsum; che anzi, come già faceva il vescovo presente, tutti i di lui successori, per conservarsi la signoria ed evitare la propria riforma, sarebbero sempre i capi del partito dell'opposizione alla riforma stessa: e che per questo fine anche solo, era spediente e necessario il non lasciare impadronirsi il vescovo della regia autorità, ma il ritenerla o il ricuperarla per farne uso come di mezzo, in queste circostanze unico ed efficace, posto da Dio in mano del popolo, per salvare la sua Chiesa: che, quando la repubblica possa e voglia far uso di un tal potere da Dio compartitole, la riforma era facile e pronta; perché bastava incamerare, come dicesi, tutti i beni ecclesiastici, commetterne l'amministrazione a persone secolari da lei deputate a quest'uffizio, che somministrassero a' cherici ed a' monaci il loro congruo sostentamento e non più, determinato a tenore de' canoni, e distribuissero il rimanente alli altri usi della religione, ed al sollievo de' poveri. Così rimarrebbe regolato l'uso delle ecclesiastiche rendite, salvati i fondi, corretto il lusso e la golosità; e così sarebbe tolta la simonia e il concubinato, coll'escludere dalla partecipazione di quelle rendite i simoniaci e i concubinarii.
La causa trattata da Arnaldo era troppo plausibile e grata al popolo per non essere da lui con ambe le braccia accolta; ma similmente l'interesse e l'abilità del vescovo, del clero, de' monaci e de' nobili, era troppo grande per non farvi un contrasto terribile. Dove le ragioni non valevano, si ricorse all'armi; e la città nostra, nell'anno 1138 a nel seguente 1139, trovossi involta in una agitazione spaventosa.
II partito degli ecclesiastici era forse per soccombere, se un impensato accidente non faceva cangiar faccia all'affare. Nella primavera di quest'anno 1139, il pontefice Innocenzio II tenne in Roma il gran Concilio di Laterano, a cui furono chiamati tutti i vescovi e gli abati, che vi si raccolsero fino al numero di mille. Vi andò, pertanto, anche il nostro vescovo Maifredo e i nostri abati. Non poteva loro presentarsi più opportuna occasione per muovere contro di Arnaldo non solamente il papa e tutta la romana Curia, ma tutti i vescovi e gli abati del mondo, egualmente interessati con loro in questa causa comune, e seppellirlo sotto gli anatemi di tutta la Chiesa, raccolta in un general Concilio sì numeroso. Concertarono dunque tra loro, Maifredo e gli abati, la querela da porgersi al papa, e la presentarono a lui, conceputa nei termini più energici ed efficaci. I moderni scrittori sono d'accordo che Arnaldo fosse condannato come eretico in quel Concilio, e che la sua condanna contengasi nel canone XXIII, in cui veggonsi condannate le eresie più mostruose de' Catari e de' Petrobusiani. E se questo fosse, converrebbe di necessità convincere il vescovo Maifredo e gli abati di nera calunnia, perché la dottrina d'Arnaldo, descrittaci anche svantaggiosamente da Ottone di Frisinga vescovo, e da Guntero monaco, trovasi lontanissima da quegli errori. Ma san Bernardo ci assicura che Arnaldo vi fu accusato non di eresia, ma di scisma, bensì poi d'uno scisma pessimo; e così vedesi, che i nostri scrittori moderni prendono in ciò uno sbaglio visibile, e che perciò nemmeno è vero che il canone XXIII di quel Concilio riguardi Arnaldo, e che vi sia stato condannato di eresie orribili.
Può essere, per altro, che Maifredo e gli abati, i quali ritornati da quel Concilio a Brescia, cacciarono Arnaldo e i due consoli suoi fautori, come eretici, dalla città, avessero tutta la volontà d'accusarlo come eretico al papa ed al Concilio, e che forse la loro accusa tendesse a questo scopo; ma ciò mostrerebbe che il papa non trovò fondamento bastevole per simile accusa, e che fu necessario ristringerla alla sola denunzia di scisma: e più che mai ne risulterebbe, che il canone XXIII non riguarda Arnaldo. Non si sa nemmeno se l'accusa fosse portata anche al Concilio, o se restasse presso al papa solo. Ottone di Frisinga sembra dire che l'accusa fu portata al Concilio, con queste parole: In magno Concilio Romæ, sub Innocentio habito, ab episcopo civitatis illius, virisque religiosis accusatur. Ma san Bernardo dice solamente: accusatus est apud dominum papam schismate pessimo. Comunque sia, l'accusa almeno accettata dal papa o dal Concilio non fu d'eresia, ma solo di scisma. Lo scisma poi, per attestato d'Ottone, consisteva nella dottrina insegnata da Arnaldo, ed espostaci da Ottone nel medesimo luogo. Questo fu considerato per uno scisma pessimo, in quanto che Arnaldo non solo non concedeva agli ecclesiastici la superiorità da loro pretesa sopra il temporale de' principi, ma accordava a' principi una piena autorità sopra i beni ecclesiastici per regolarne l'uso a tenore de' canoni. San Bernardo dice che Roma ebbe orrore di questa dottrina d'Arnaldo, e d'Arnaldo medesimo che l'insegnava. La cosa era naturale. Essa dottrina tendeva a rovinare i fondamenti della grandezza di quella corte, che consistevano nella dottrina contraria, la quale costituisce il papa signor temporale di tutto il mondo. Anche il restante della dottrina d'Arnaldo dovea mettere in apprensione quella corte, la quale non trovava minore ostacolo al suo principato ne' suoi Romani, di quel che trovasse ne' nostri Bresciani il vescovo Maifredo. È perciò notabile, che san Bernardo non attribuisce questo orrore al concilio, ma a Roma sola. Pare, che se tutto il Concilio avessene mostrato un orror simile, san Bernardo avrebbe detto non Roma, ma orbis exhorruit.
Dunque, Maifredo vescovo e gli abati rimasero delusi della speranza che avevano di far dichiarare eretico Arnaldo dal papa e dal Concilio; il che sarebbe stato di grand'uso a loro per cacciarlo da Brescia co' suoi fautori, e trionfar della nemica fazione. Per non ritornar nondimeno a Brescia colle mani vuote, eglino implorarono dal papa un decreto di bando contro di lui. Pare che Ottone di Frisinga dica che non ottennero nemmen questo, ma solo un ordine che intimasse silenzio ad Arnaldo. Fece nondimeno quest'ordine lo stesso effetto. Il vescovo Maifredo, a cui era intimato l'ordine d'imporre silenzio ad Arnaldo, non fu tardo ad eseguirlo tosto che fu ritornato a Brescia. Radunato, come può credersi, il clero, i nobili ed i monaci, pubblicò l'ordine ricevuto dal papa; esagerò l'orrore con cui la dottrina d'Arnaldo era stata sentita in Roma; procurò di mostrarne l'affinità colla dottrina de' Catari, condannata nel canone XXIII di quel Concilio; ordinò che in tutte le chiese fosse proclamato per eretico, o almen gravemente sospetto d'eresia; e che si eccitassero i fedeli a liberar per sempre la città da questo veleno, discacciandolo coi suoi fautori.
Il popolo, naturalmente religioso, ignorante e volubile, abbandonò in gran parte il partito d'Arnaldo. I nobili presero l'ascendente sopra una fazione così indebolita, e prese l'armi, cacciarono dalla città, come eretici ed ipocriti, Ribaldo e Persico, i due consoli primarii, con tutti i loro aderenti. Arnaldo fuggì da Brescia, e non tenendosi in alcun luogo d'Italia sicuro, passò in Zurigo negli Svizzeri. Questo pare che voglia esprimere san Bernardo scrivendo, che fu cacciato dal natio suolo, e che fu costretto a promettere di non più ritornare in patria, se non con licenza del papa; e che il vigore apostolico ha sforzato l'uomo nativo d'Italia a passar l'Alpi, e non gli permette di rimpatriare. Di qui si vede che il vescovo Maifredo ragguagliò il papa d'aver eseguito l'ordine suo, intimando silenzio ad Arnaldo; d'averlo trovato ben lontano dal prestarvi la debita ubbidienza, e di averlo perciò cacciato dalla città coll'aiuto de' nobili attaccati al partito della Curia romana: e che lo pregò di confermare il fatto e di proibire per sempre a lui il ritorno in Italia. Il papa approvò la cacciata; e quanto al ritorno, operò per mezzo de' suoi nunzii in quelle parti, che promettesse di non ritornare, se non con licenza di Sua Beatitudine.
È però da osservare, in tutto questo negozio, che nulla seguì d'onde legittimamente venga pregiudicato alla di lui fama. La querela contro di Arnaldo portata al papa, e se vuolsi anche al Concilio, non aveva altro fondamento che il vescovo e gli abati, ch'erano insieme accusatori, testimoni e parte; Arnaldo non era presente a difendersi, né fu citato alla difesa. Il decreto, dunque, del papa è privo della debita legalità. Non fu meno irregolare l'esecuzione del decreto. Esso non portava se non l'intimazione del silenzio, eseguita la quale, ove non sortisse l'effetto, richiedevasi un nuovo decreto per passare ad una espulsione violenta; e quest'ordine fu trascurato. L'accusa non era stata d'eresia, ma solo di scisma; e il vescovo cacciò Arnaldo, e i due consoli primarii, Ribaldo e Persico, non come scismatici, ma come eretici ed ipocriti. Così lo racconta il Malvezzi nel suo Cronico, al cap. 54, nel tomo XIV Scriptor. Rerum Italicarum del Muratori, con queste parole: Duo consules hæretici a consulatu Brixiæ depositi… Rebaldus et Persicus viri hypocritæ et hæretici, qui eo anno consulatum regebant, a militibus catholicis a Brixiana civitate cum suis sequacibus expulsi sunt. Ognuno sa poi, che nel linguaggio di quell'età, con quel vocabolo militibus vengono indicati i nobili, con poco onore della nostra città, quasi che tutto il cattolicismo di essa fosse ridotto ne' soli nobili.
San Bernardo e Guntero ci raccontano che Arnaldo colle sue prediche pose in rivolta contra il clero non solamente Brescia, ma ancora altre città. Non solo io non so determinare che città queste fossero, ma nemmeno in qual tempo ciò succedesse. Bisogna però che ciò sia avvenuto prima del Concilio di Sens. Gli affari ivi trattati, e il suo ritiro da quel regno, e il suo viaggio e stabilimento a Zurigo, lasciano poco spazio di tempo per collocarvi queste rivolte. Parmi probabile che ciò seguisse l'anno antecedente, in tempo che per la celebrazione del Concilio di Laterano i vescovi delle vicine città lombarde trovavansi dalle loro sedi lontani. Benché quel Concilio fosse di breve durata, poiché incominciò al principio d'aprile e terminò verso la fine del mese, tuttavia tra l'andata e il ritorno de' vescovi scorre spazio bastevole, perché Arnaldo o invitatovi dai capi delle fazioni, che per tutto regnavano non meno che in Brescia, o di spontaneo moto, facesse delle scorrerie per le città lombarde, per promovervi col fatto quella riforma del clero, che nel Concilio di Roma o non sarebbesi promossa, o lo sarebbe senza frutto, come mostravalo l'esperienza di tanti precedenti Concili. Può essere ancora, che in quest'anno medesimo dopo che fu cacciato da Brescia, si ricoverasse in altre città vicine, prima di uscire d'Italia, e non potendo frenare il suo zelo, vi destasse i medesimi tumulti; finché, passando di una in altra città e non vedendosi in Italia sicuro, si risolvesse in fine a passare l'Alpi.
Ottone e Guntero raccontano ch'ei ritirossi a Zurigo, città degli Svizzeri, e che qui pure, assunto il carico di predicatore, vi sparse per qualche tempo la sua dottrina. Guntero ci assicura che in breve la infettò tutta del suo errore sì fattamente, che ancora al suo tempo i figliuoli conservavano il gusto della dottrina assaporata da' padri loro. Ciò nondimeno sembra difficile a conciliare con ciò che ne scrive l'anno seguente san Bernardo al vescovo di Costanza, alla cui diocesi è appartenente Zurigo. Non sembra credibile che una sì gran commozione del popolo di Zurigo restasse ignota per tutto quell'anno al suo vescovo: eppure noi leggiamo in quella lettera, che il Santo Abate ne scrive a lui come di una persona incognita al medesimo, e non gli espone i mali già fatti da Arnaldo in quella città, ma il pericolo che ve li facesse. Inclino, dunque, a credere che Arnaldo non andasse dirittamente a Zurigo, quando si partì d'Italia, ma per allora si ricoverasse altrove; e vi si annidasse poi l'anno seguente, quando ritirar si dovette di Francia: con che facilmente possono conciliarsi Ottone, Guntero e san Bernardo. Ciò che insegnasse in Zurigo, e con qual successo, indarno si cercherebbe, non trovandosi scritto.
Comunque sia, l'anno seguente 1140, Arnaldo andò in Francia, chiamatovi dal suo maestro Pietro Abailardo. Questi doveva presentarsi al Concilio di Sens per difendervi la sua dottrina, accusata d'eretica da Guglielmo abate di San Teodorico, e per suo mezzo da Goffredo vescovo di Chartres e da san Bernardo. Temeva l'Abailardo sopra tutto la dottrina, l'acume, il credito di san Bernardo. Perciò chiamò in sua difesa da tutte le parti i suoi scolari più abili, e tra gli altri anche il nostro Arnaldo. Questi vi andò, e comparve al Concilio col suo maestro, e con una moltitudine de' discepoli di lui. Fu questa una prova solenne della sua abilità nelle dispute teologiche; poiché in tanta turba di discepoli di Abailardo, niuno eguagliò nemmen da lungi il suo coraggio, la sua eloquenza e la sua dialettica. Degli altri discepoli nessuno è nominato, e tutti rimangonsi nell'oblivione; non è cosi d'Arnaldo, il quale, come l'armigero del nuovo Golia, ché così chiama san Bernardo l'Abailardo, difendeva, siccome egli racconta, tutte le Proposizioni di lui, con lui e più di lui.
Cattivo esito ebbe per l'Abailardo la sua causa in quel Concilio. I vescovi e gli altri ecclesiastici mostravano apertamente d'essere per condannarlo; ond'egli, affine di prevenire la sua condanna, appellò da quel Concilio alla Santa Sede, sperando fortuna maggiore in Roma, dove aveva cardinali e prelati stati suoi discepoli. Giovò questo a lui per impedire che nella sentenza del Sinodo fosse proscritto il suo nome, ma non impedì che fosse dannata la sua dottrina contenuta in diciannove Proposizioni estratte da' suoi libri. I Padri giudicarono spediente il condannarle non ostante l'appellazione, per impedire il progresso che potea fare la sua dottrina.
Questo gettò anche Arnaldo in nuovi travagli. San Bernardo, che aveva già di lui pessime impressioni sul racconto a lui fatto dagli ecclesiastici di quanto egli aveva operato in Italia, per cui già lo tenea per un pessimo scismatico, vedendo ora l'ardore con cui difendeva i capitoli del suo maestro, ch'egli considerava per eretici, lo giudicò anche eretico. E come il suo zelo era grande, qual esser suole nei santi, scrisse al papa Innocenzio con tutta la forza, non solamente contro l'Abailardo autore di quella dottrina, ma ancor contra Arnaldo suo difensore nel Concilio, le due lettere 189 e 330, quando i Padri nelle loro Lettere Sinodiche 190 e 337 non l'avevano tocco né punto né poco: e laddove i medesimi Padri circa il rimedio da apprestarsi alle insorte novità si rimettevano alla prudenza del papa, e nella lettera 190 e nella 337, dettata dallo stesso san Bernardo, supplicavano solamente che fosse da lui approvata la condanna che il Sinodo aveva fatto delle proposizioni dell'Abailardo, e fosse proposta la giusta pena a chiunque ostinatamente le difendesse, e lo consigliavano ad imporre silenzio ad Abailardo, vietandogli la scuola e il pubblicar libri, ed a proibire i suoi libri già scritti; lo zelo del Santo Abate passò oltre a consigliare al papa di far imprigionare ed Abailardo ed Arnaldo.
II papa condiscese in tutto a san Bernardo, e spedì a' 15 di luglio una lettera breve, ma fulminante, a' due arcivescovi di Reims e di Sens ed a san Bernardo, con cui ordinava che Abailardo e Arnaldo fossero rinchiusi, separati l'un dall'altro in luoghi religiosi, dove fosse creduto meglio, e fossero abbruciati i libri contenenti la dannata dottrina.
San Bernardo non fu negligente nel pubblicare la lettera pontificia al Colloquio di Parigi, come aveva ordinato il papa, e nel sollecitarne l'esecuzione. Volarono subito, dice Bernardo di Poitiers, le copie di quell'apostolica lettera per la Chiesa di Francia. Ma, come se ne lamenta san Bernardo, il suo zelo non fu secondato, e non si trovò in Francia chi facesse questo bene d'imprigionare né Abailardo né Arnaldo. Tutto al contrario, sì l'uno che l'altro trovarono benigno ricovero presso a persone di qualità grande e di gran senno. L'Abailardo venne ricoverato dal venerabile Pietro abate di Clugnì nel suo monistero, che lo riconciliò ben presto e col papa Innocenzio e con san Bernardo medesimo; il quale in una pacifica conferenza dal venerabile Pietro concertata tra l'Abailardo e lui, in presenza dell'abate di Cistercio, lo ritrovò d'animo cattolicissimo, e udì spiegarsi la maggior parte delle sue Proposizioni in cattolico senso, e le altre, che nol soffrivano, rigettar con prontezza e con piena sommessione al giudizio della Chiesa. Era allora l'Abailardo in età di sessantun anno, e visse due altri anni sotto l'ubbedienza del Ven. abate Pietro con somma edificazione, ornato dopo la sua morte di magnifici elogi di pietà e di dottrina dallo stesso Venerabile abate.
Quanto ad Arnaldo, essendo egli forestiero e senza appoggio in Francia, dovette partirsene e ritirarsi altrove; onde san Bernardo scrive che ne fu cacciato. San Bernardo tenne per certo che si fosse ritirato nella diocesi di Costanza, com'ei ne scrive a quel vescovo; e fu, per avventura, allora ch'egli annidossi per la prima volta in Zurigo. Perciò lo zelo del santo Abate lo spinse a scriverne con molta forza a quel prelato, perché di là lo cacciasse sollecitamente, o piuttosto lo imprigionasse, come aveva comandato il papa. Sembra ancora che la casa ove si era stabilito, fosse quella del cardinale Guido da Castello, legato apostolico, ché anche a quel cardinale scrive san Bernardo la lettera seguente allo stesso fine: ed è una forte conghiettura di ciò il sapere che il cardinale Guido era stato discepolo di Abailardo, e perciò condiscepolo di Arnaldo. Doveva, dunque, il cardinal Guido essere allora Legato in Germania, a cui apparteneva allora l'Elvezia; e non in Francia, come ha pensato un dottissimo scrittor moderno: perché san Bernardo scrive al cardinale, che Arnaldo era già stato cacciato di Francia. È vero che non asserisce di certo che Arnaldo si ritrovasse in casa sua; ma si può pensare che il Santo Abate prendesse questa dilicata maniera di scrivere, come si usa colle persone grandi, perché la sua esortazione non prendesse un'aria di riprensione, e producesse contrario effetto.
Cosa ottenesse il sant'uomo con queste lettere, non è noto. È assai probabile che non ottenesse niente di più di quello che avesse ottenuto la lettera del papa Innocenzio. Di Arnaldo non si legge più una sillaba da quest'anno 1140 sino al 1145, in cui passò a Roma; il che dimostra che per questi cinque anni egli rimase in quiete. E parmi verisimile che il cardinale Guido, il quale ben conosceva Arnaldo, stato suo condiscepolo, non men di quello che il Venerabile Pietro abate di Clugnì, conoscesse l'Abailardo, gli prestasse gli stessi amorevoli uffici, e persuaso del cattolico di lui cuore, lo inducesse colle buone a disapprovare tutti quegli articoli del suo maestro, che aveva disapprovati lo stesso Abailardo, e tutti i cattivi sensi che davansi a quelle proposizioni; e che ciò fatto, impetrasse a lui dal papa Innocenzio quella quiete, che il Venerabile Pietro aveva impetrato all'Abailardo. Niente poi era più facile, che indurre Arnaldo a ritrattare li errori del suo maestro. Arnaldo non era l'autore di quegli articoli, e dovea senza dubbio avere assai minor difficoltà a ritrattarli, di quel che ne avesse l'Abailardo. Non li aveva Arnaldo difesi che in qualità d'avvocato del suo maestro al tribunale del Concilio di Sens: e si sa che gli avvocati sostengono con calore nell'atto della causa ciò che eglino medesimi dipoi confessano non essere gran fatto sussistente: e lo stesso amore e concetto del suo maestro, che lo aveva invitato e indotto a difenderlo nel Concilio, dovevalo indurre ad imitarlo nella rassegnazione al parer de' più saggi. Ma ciò che più d'ogni altra cosa rendeva il negozio di piena riuscita, si è che le proposizioni dell'Abailardo non erano appunto del genio d'Arnaldo. Assai diversi erano i loro temperamenti. Il genio dell'Abailardo era dialettico e sottile, portato per le quistioni specolative, ch'erano della moda del suo tempo, di poca o nessuna utilità alla pratica, e sovente poco intelligibili agli stessi disputanti. La sua profana letteratura lo faceva gustare delle sentenze de' filosofi più ancora che della dottrina dei Padri, come gli rimprovera san Bernardo; e parlare col linguaggio de' Gentili più tosto che con quello della Tradizione. Arnaldo tutto al contrario aveva sortito un'indole solida e maschia, che lo portava al massiccio, all'utile ed al pratico: il suo zelo per la disciplina della Chiesa lo faceva ardere e avvampare di desiderio di rialzarla dalla postrazione miserabile in cui giaceva, e il suo studio per questo era quello del Vangelo, delle Apostoliche Lettere, de' canoni e de' Padri; e l'impegno che aveva preso per un oggetto di tanta importanza, e le persecuzioni che soffriva per la causa di Dio, accendevano a più doppi il suo fervore. Nulla dunque era più facile che far mettere in dimenticanza i sottili articoli del suo maestro Abailardo, e l'accidentaria difesa che, solo per favorire il maestro, ne aveva intrapresa al Concilio di Sens.
Sia come si voglia, non rimane memoria alcuna che Arnaldo avesse più per conto della dottrina dell'Abailardo travaglio o molestia di sorte. San Bernardo stesso, che pur sopravvisse tredici anni a quella controversia, essendo morto nell'anno 1153 a' 20 d'agosto, non lo nomina mai più; benché il Santo Abate avesse sì frequenti occasioni di parlarne in tante lettere scritte dipoi a' papi successori d'Innocenzio, e massimamente al suo Eugenio III, ed ai cardinali e prelati della Chiesa Romana; ed Arnaldo, fissatosi in Roma dal 1145 fino al 1155 in cui morì, ne dèsse si strepitose occasioni. Una volta sola lo nomina nella lettera 298 al papa Eugenio, l'anno 1151, sei anni dopo che Eugenio era travagliato da Arnaldo per conto della temporale signoria, e in una circostanza tale, in cui doveva, se creduto l'avesse eretico, aguzzare più che mai la sua penna: tutto al contrario, lo giudica vie men colpevole assai di frate Niccolò suo segretario, della infedeltà di cui nell'uffizio di segretario, e d'alcuni altri morali difetti, si duole col papa.
Godette dunque Arnaldo perfetta quiete dall'anno 1140 fino al 1145, e sotto il pontificato d'Innocenzio II, che morì a' 24 di settembre del 1143; e ne' brevi pontificati di Celestino II, ch'era stato il cardinale Guido da Castello, suo amico e protettore, morto a' 9 di marzo del 1144; e di Lucio II, che morì a' 13 febbraio del 1145. Non si sa né che si facesse, né dove dimorasse in questo tempo. Sembra credibile che abbia potuto, volendo, ritornare in Italia, o dopo la sua riconciliazione col papa Innocenzio, o almeno nel pontificato di Celestino, suo amorevole. Ma sembra altresì verisimile, che non abbia voluto ritornare a Brescia sua patria, dove Maifredo suo nemico era ancora vescovo e principe, e d'onde erano sbanditi tutti i suoi partigiani, e la fazione nemica era dominante e piena d'odio antico. Nel Cronico Bresciano pubblicato dall'abate Carlo Doneda, all'anno 1145, sta scritto: Ribaldus et Persicus capti a militibus Brix.; ed all'anno 1153: Manfredus Episcopus (si supplisca) obiit. Castrum Montis Rotundi destructum, ubi Arnaldus suspensus fuit. Il chiarissimo signor arciprete dottor D. Baldassare Zamboni, in una lettera ad un suo amico, del primo d'agosto del 1784, dice che gli pare d'aver letto sugli Storici Bresciani, che i fuorusciti si fossero ritirati in Monte Rotondo (castello del Bresciano). Il Caprioli, citato dal signor abate Doneda nella annot. 10 al detto Cronico, dice che la Rocca fu distrutta perché la guarnigione attendeva alla ruba. Ciò non contraddice al detto di sopra, perché i fuorusciti non potevano vivere altrimenti, non essendo liberi né all'agricoltura né al commercio. Da ciò si vede che il vescovo Maifredo perseverò nella signoria, e nella persecuzione contra la fazione contraria, sino alla morte, accaduta appunto in quest'anno 1155; e che l'anno 1145 fu fatale alla fazione d'Arnaldo per la presa fatta de' due consoli primari, Ribaldo e Persico, suoi fautori.
Morto Lucio II, sommo pontefice, d'un colpo di sasso lanciatogli contra da' Romani, mentr'egli con una banda d'armati volle assalirli in Campidoglio, ove trovavansi raccolti per deliberare dell'elezione di Giordano in patrizio, o sia Capo del Senato Romano; fu due giorni di poi, cioè a' 27 di febbraio, da' cardinali eletto papa Eugenio III, allora abate di Sant'Anastasio, ed allievo di san Bernardo. Già da lungo tempo erasi in Roma formata una fazione di repubblicisti, non meno che nelle città lombarde e toscane, la quale, contenta di confessare l'alto dominio dell'imperatore sopra Roma, non s'acquietava di riconoscere il papa per suo signor temporale, e molto meno per suo assoluto sovrano, come i papi pretendevano. Per questo, oltre i consoli, avevano ristabilito il Senato, di cui si veggono, come osserva il Muratori, chiari vestigi fin da' tempi di Carlomagno, e ch'era poi stato dai papi abbattuto: aveano inoltre creato ultimamente un Patrizio, o sia Capo di questo Senato; e per la rotta data al papa Lucio, e la sua morte indi seguita, vedevansi in una chiara superiorità di forze. Anche in tempo del papa Lucio aveano già atterrate molte case fortificate e torri da guerra de' cardinali e de' nobili del contrario partito, ed alcune altre riserbate ad uso proprio, e cacciati di città vari personaggi di quella fazione: di che ne scrissero a Corrado re de' Romani, professando d'averlo fatto in suo servigio contra i ribelli di Sua Maestà, e spezialmente contro del papa Lucio, del quale scoprono al re Corrado la lega fatta contro di Corrado stesso col re di Sicilia, e implorano la sua assistenza.
Vedendo, adunque, eletto da' cardinali clandestinamente, senza il consenso del clero e del popolo, né l'assenso del re, il papa Eugenio, gli fecero intendere che avrebbero fatta annullare la sua elezione, se non confermava il Senato stabilito e l'elezione del Patrizio, e non rinunziava al temporale governo di Roma. Eugenio III, ben lontano dal contentarli, uscì di Roma di notte con alcuni cardinali, e ritirossi con loro in Monticello; e il giorno seguente con tutti i cardinali si trasferì a Farfa, dove il dì seguente 18 febbraio fu consacrato. Essendosi poi condotto nelle piazze forti dello Stato Romano, diede principio a far la guerra contra i Romani suoi spirituali figliuoli, che lo volevano pastore, non principe, affine di sostenere il suo temporal principato: la qual guerra durò per tutto il tempo del suo pontificato, che fu di otto anni e quattro mesi, e continuò poi sotto alcuni ancora dei suoi successori.
Arnaldo, sul principio del pontificato d'Eugenio, si condusse a Roma per caldeggiare la fazione de' Romani che contrastavano al papa la temporale signoria. Ed è probabile che vi fosse chiamato da alcuno dei Romani stessi, affinché colla sua eloquenza, colla sua dottrina e col credito della sua vita esemplare, ben diversa da quella di alcuni cardinali e prelati di quella corte, tirasse tutto il popolo al loro partito; poiché è certo che ciò tornava molto in acconcio de' fatti loro, e che Arnaldo aveva in Roma non pochi conosciuti, che erano stati con lui discepoli di Pietro Abailardo in Francia. Egli è probabile ancora che vi fosse trasportato dal proprio zelo: perché, considerando egli per una corruttela capitale della disciplina il volersi i vescovi intricare nelle cure secolari del principato, e massimamente il volersi in esso mantenere a dispetto de' popoli, che formavano il loro gregge, e con la guerra, sterminio e spargimento del sangue loro; dovea naturalmente desiderare di veder guarita la Chiesa da questa piaga mortale nel Capo di essa, da cui si diffonde, e coll'esempio e colla dottrina e coll'autorità, il male per tutto il corpo; ed esser lieto che le circostanze presenti di Roma ne presentassero a lui una occasione, che lo lusingava della guarigione intiera.
Vi si trasferì dunque, e colle sue prediche accrebbe di molto il partito repubblicano. Vi insegnava apertamente, che conveniva riconoscere tutta la spirituale autorità del papa: ch'egli era il primo pastore della Cristianità, e il giudice delle cause ecclesiastiche; ma che tutta la sua autorità ristringevasi all'uffizio di pastor della Chiesa: che la cura di tutte le Chiese del mondo ben lo forniva di tante sollecitudini (massimamente in tempo in cui, essendo cresciuti smisuratamente gli abusi, v'era tanto da travagliare per isvellere e distruggere, disperdere e dissipare le pessime usanze, ed edificare e piantare di nuovo l'osservanza salutare de' santi canoni); che il papa ben poteva contentarsene, senza addossarsi ancora il peso del governo temporale e terreno, di cui l'alta ispezione doveva rilasciare con gioia al re ed imperator de' Romani suo sovrano; e l'immediata amministrazione al senato ed al popolo romano, che non solamente se ne incaricavano senza contrasto, ma lo esigevano coll'armi alla mano. Esortava, pertanto, il senato ed il popolo a rimaner saldi nella loro impresa, ed a sostener qualunque travaglio in una causa che riguardava non solo i loro temporali vantaggi, ma il servizio di Dio e il bene della Chiesa, non pur di Roma, ma di tutta la Cristianità. A tal fine li confortava non solo a tener saldo il senato, ma a rimettere in piedi tutte le antiche costumanze della romana repubblica, l'ordine equestre ed il plebeo, il Campidoglio e le antiche leggi.
Ottone di Frisinga e Guntero lo aggravano d'aver indotto il popolo di Roma e ad abbattere gli splendidi palagi dei cardinali e de' nobili di Roma, e ad offendere le loro persone; ma in ciò lo aggravano indebitamente; perché tutto ciò avvenne a' tempi di papa Lucio, prima che Arnaldo andasse a Roma; e i Romani scrivono, nella lettera al re Corrado, d'averlo fatto fin d'allora; ed oltre a ciò, quelle case erano ridotte a maniera di fortezze e ad uso di guerra; onde la ragion della guerra voleva che si espugnassero le fortezze nemiche, e si offendessero le persone che le difendevano.
Gli venne ancora attribuito, nella lettera del clero romano al papa Eugenio allora dimorante in Brescia, e in quella dello stesso clero ad Adriano IV allora dimorante in Benevento, che avesse sottratto parte del clero e del popolo all'ubbidienza dovuta agli arcipreti-cardinali delle chiese matrici, e vi si colorisce tutto ciò della nera tinta di scisma. Nulla di più ingiusto e di più frivolo. Quando Adriano scrisse la lettera di risposta da Benevento al clero di Roma, Arnaldo era già morto, perché quel papa non passò a Benevento se non dopo avere spuntata la morte di Arnaldo; e perciò qualunque cosa fosse quello scisma, Arnaldo non ne era l'autore. Questo scisma in sostanza non era altro, se non che il clero ed il popolo di qualunque delle chiese filiali ricusava di andare, giusta il consueto, alle funzioni della chiesa matrice: cosa che noi veggiamo oggidì andata in disuso, non per altro che per la continua natural ripugnanza che hanno sempre avuto i popoli di andarvi, non istigati da altrettanti Arnaldi, ma ritenuti da naturale spirito d'indipendenza, dall'abborrimento dell'incomodo di condursi ad una chiesa lontana, e da particolari disgusti o litigii col piovano della matrice. In una città poi cotanto divisa da contrarie fazioni, quanto in quel tempo era Roma, nulla era più naturale di quel che il clero e il popolo d'una fazione vedesse di mal occhio l'arciprete-cardinale che fosse dichiarato per la fazion contraria; e perciò essendo usato a fare le sue funzioni d'ordinario nella propria chiesa filiale, ricusasse d'andare nei consueti giorni alla chiesa matrice. È ben certo che Arnaldo non attaccava punto gli spirituali diritti delle chiese; anzi non per altro attentava alla temporale signoria degli ecclesiastici, se non perché eglino fossero più attenti alle spirituali incumbenze: e perciò queste novità non pure non erano secondo, ma erano contra le sue intenzioni.
Arnaldo rimase in Roma per tutto il tempo del papa Eugenio, il quale al contrario potè pochissimo tempo dimorare in Roma, e sol verso il fine della sua vita vi si stabilì, dopo aver coi Romani fatto un accordo, per cui lasciava sussistere il senato. Sebbene conservò il pensier d'abolirlo, ed a questo oggetto si pose con tanto studio ad accarezzare il popolo con limosine e benefizii, che, per attestato di Romoaldo Salernitano, se la morte nol rapiva intempestivamente a' suoi disegni, avrebbe spuntato col favor del popolo stesso di spogliar della loro dignità i senatori. Morì Eugenio III a' 7 di luglio del 1153, a cui dopo due giorni fu sostituito Anastasio IV, che mori a' 2 di decembre dell'anno stesso 1153, e nel dì seguente gli fu sostituito Adriano IV.
Adriano, non men desideroso che Eugenio di ricuperare e sostenere la sua sovranità, pensò di giungervi col togliere da Roma ed anche dal mondo la persona di Arnaldo, che fomentava la fazione a sé contraria. Lo scomunicò dunque, e lo bandì; ma né il bando gli fruttò punto, perché Arnaldo, protetto dal senato e da diversi potenti, proseguì a rimanere ivi fermo, e sostenere la sua dottrina; né la scomunica, perch'egli la dichiarava illegittima ed invalida. Avvenne che il cardinale di Santa Pudenziana, che doveva essere de' più malveduti dal popolo pel suo attaccamento alla fazione pontificia, andando a palazzo, fu insultato da uno de' Romani e ferito a morte. Il papa Adriano colse con pronta avvedutezza questo accidente per venire a capo de' suoi desiderii: perciò pose in interdetto tutta la città, finché non fosse cacciato Arnaldo, come incentore del popolo e cagione di questi disordini. Era imminente la Settimana Santa, e il popolo bramava ardentemente d'aver le chiese aperte per celebrarvi i consueti solenni uffizii: il clero sollecitava il popolo a dimandar che fosse levato l'interdetto, ed a promettere perciò di cacciare Arnaldo; e ne fu cacciato.
Mentre egli cercava altrove ricovero, un cardinale lo fece inseguire dalle sue genti, che lo arrestarono: e già il conducevano a Roma per consegnarlo nelle mani del prefetto della città, che doveva farlo morire. Ma saputasi la cosa a tempo da certi conti della Campania suoi amici, e che lo riputavano per santo, essi il rapirono a forza dalle mani dei suoi nemici, e lo posero in uno dei loro castelli, senza lasciar penetrare a niuno in quale di essi lo avessero posto.
Intanto l'imperator Federigo I trovavasi in Italia, di viaggio a Roma per prendervi, secondo il costume di que' tempi, la corona imperiale. La corte romana avea già molto innanzi stipulati de' vantaggiosi trattati con Federigo; il che fu cagione che egli ributtò bruscamente l'ambasciata che i Romani gl'inviarono prima ch'ei si avvicinasse a Roma; ed al contrario accogliesse onorevolmente i tre cardinali che gli aveva spediti incontro il papa Adriano, ed accordasse loro tutte le dimande propostegli. Tra le altre c'era questa, che Federigo desse nelle mani del papa la persona d'Arnaldo. Federigo a tal fine fece imprigionare dalle sue genti uno di que' conti che favorivano Arnaldo, né lo volle rimettere in libertà sin ch'ei non glielo consegnasse. Così Arnaldo fu tratto dal castello ove stava nascosto; fu consegnato nelle mani dei cardinali, e da questi rimesso al prefetto di Roma, che lo fece impiccare, abbruciare infilzato in uno spiedo il suo cadavere, e spargere le sue ceneri nel Tevere, perché il popolo non lo venerasse qual santo. Ciò avvenne l'anno 1155, prima de' 18 di giugno, in cui seguì la coronazione di Federigo, essendo Arnaldo in età, per quanto io penso, di circa cinquant'anni.
La sua eloquenza fu predicata da' suoi stessi nemici: l'esemplarità de' suoi costumi fu superiore alla loro malignità, ché li costrinse al silenzio tutti, benché fossero in sì gran numero; e ricevette uno stupendo elogio da san Bernardo, lume di quel secolo: il quale, essendo stato impresso fortemente contro di lui, lo giudicò dapprima scismatico, e poi per le cose del Concilio di Sens lo perseguitò come eretico, ed al fine non ebbe più che dire contro di esso! La sua dottrina è stata da noi giustificata ne' due libri dell'Apologia che abbiamo di lui fatta: e il suo coraggio e il suo zelo per la disciplina della Chiesa sono abbastanza testificati dalle fatiche, dalle persecuzioni, e dalla morte che incontrò per cotal causa.
Le occasioni strepitose in cui la persona del nostro Arnaldo figurò in Brescia, in Francia e in Roma; i personaggi cospicui, coi quali o ebbe a cozzare (Maifredo vescovo di Brescia, san Bernardo, e tre papi, Eugenio III, Anastasio IV e Adriano IV), o che furono suoi amici (il cardinal Guido da Castello, poi papa Celestino II), o che furono adoperati al suo sterminio (qual fu il famoso imperator Federigo I e il prefetto di Roma), ben confluiscono non poco a rendere eterno il suo nome, e a dare de' talenti e dell'abilità straordinaria d'un semplice privato una irrefragabile testimonianza.