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Giovan Battista Niccolini
Arnaldo da Brescia

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Scena quinta. Annibaldo, Arnaldo, Popolo

 

POPOLO

Che faremo, o signor?

 

ARNALDO

Voi lo chiedete?

O vincere, o morir. Col quarto Arrigo

Per l'ingrato Ildebrando han pur saputo

I vostri avi pugnar: contro il tedesco

Furor non stette la virtù romana,

Quando Lotario s'addestrava al freno

Del rival d'Anacleto, e in Laterano

L'ignominia cambiò nella corona,

E poi fuggì deriso? Ora quell'armi

Che hanno al fero Alemanno aperto il fianco

S'impugnino da voi: la causa è santa,

Son gli stessi i nemici, e da sicura

Torre mostrarsi, e benedir le spade

Arnaldo sdegna. O Libertà, nel seno

Pur m'arde il sangue, e questo sangue è tuo.

 

ANNIBALDO

Non credete a costui. — Monaco astuto,

Volan dal labbro tuo parole altere:

Ma genti che non mai stanca la guerra,

Che il furor delle parti in lunghe pugne

Esercitò, vincer tu speri? Io vengo

Dalle terre lombarde, e innanzi agli occhi

Ho il terror dei suoi popoli. Milano

Pria che vinta è discorde, e sta Pavia

Nel campo dell'Impero e le sue squadre

Tu sol conosci alla licenza e all'ira

Verso gl'imbelli. Nelle mura infami

Di quell'empia cittade era il trionfo

Apparecchiato all'oppressor crudele

Di questa Italia che non ha fratelli:

vidi l'ebro e fetido Alemanno

Ritornar dalle stragi, e vacillante

Dalle donne pavesi andar soffolto

Con turpi abbracciamenti; e a Federigo

Tardar dense le genti il suo corsiero,

E con bacio servile affaticargli

Le mani ancor del nostro sangue asperse:

Ei, con rabbia di rege e di Tedesco,

Da lungo ossequio liberarle, aprirsi

Col ferro a un tempo e col destrier la via;

Nella polve, che è nube a quel superbo,

Lanciarsi i suoi fedeli, e chi s'arresta

Calpestar, o ferir: degna mercede

Ebbe la gioia degli schiavi. Intanto

Quei campi che feconda il pingue Olona,

Teutono cavalier muta in deserto.

Nel dolce piano, e senza colli e selve,

Vana è la fuga del cultor lombardo,

Che alle timide spalle avvicinarsi

Sente la vampa delle nari ardenti

Nel fumante destrier che lo persegue.

 

ARNALDO

Tu la possanza del nemico esalti,

Ed avvilirci speri? Ahi sono pur troppo

L'Alpi ai Barbari aperte: era Adriano

Detto il pastor che qui chiamògli, e v'era

Un sacerdote ad insegnar la via.

Pera dell'empio il nome. Allor l'altare

Divenne un trono, e sol possanza ed oro

Cercò la Chiesa: e voi, ribelle o schiavo

Ognor mirate chi quaggiù di Cristo

Sostien le veci, e mal da lui si noma.

Una catena insanguinata unisce

L'Italia alla Germania; è suo retaggio

La nostra servitù: ben fra le tombe

Tu scorri, o Tebro, che ubbidisci al Reno.

Nell'origine sua mostrar che giova

La fiumana del sangue, ove travaglia,

Pier, la tua nave, che sì male è carca? —

Del presente si parli. A voi, Romani,

Dirò quei casi che costui vi tacque:

Ingannarvi non so. Rosate è fatto

Una ruina da cui sorge il fumo,

E guidava il signor di Monferrato

L'armi alemanne contro Chieri ed Asti

Converse in polve: il suo pastor crudele

Tal fe' vendetta delle proprie offese

Sul gregge fuggitivo; egli di faci

Armò le man tedesche, e case, e templi

Strugger mirava, e benedisse il rogo.

Ecco il perdono che aspettar potete

Da tiranno mitrato. Un'atra cenere

Mostra quel colle dove fu Tortona;

E di vino e di sangue inebrïate

Vi dormian fra le prede e su i cadaveri

Le belve della Magna; e come pallide

Ombre vaganti per la notte oscura,

Quei che al ferro avanzaro ed al digiuno,

E ascose il grembo delle tue caverne,

Desolata città, volsero il piede

Tacitamente all'ospital Milano.

Vi portan ferro ed odio, e mille eroi

Nascervi io miro dal fecondo esempio

Che Tortona le diede. Oh! s'io potessi,

Santa cittade, sulle tue ruine

Riverente prostrarmi ed abbracciarle!

Le reliquie dei forti in prezïosi

Vasi io vorrei raccorre, e qui dell'ara

Nel della battaglia offrirle ai baci.

Oh sia lode al Signor! Più non si muore

Pei ceppi e per l'error: martiri alfine

Hai, santa Libertà: per te divenga

Cenere anch'io. — Ma impallidir vi miro.

Romani voi! scendete; oh questo monte

Non è pei vili. Giù. Nell'ima valle

Il tiranno v'attende; ognun si prostri,

E dia lacrime e baci al piè superbo:

Pria vi calchi nel fango, e poi v'assolva.

 

POPOLO

Armi discordi, e poche abbiam: le mura

Umili sono e ruinose.

 

ARNALDO

I petti

Son le mura dei forti. E voi credete

Che dia sgomento alle città lombarde

La distrutta Tortona? è un altro esempio

Di feroce valore in pochi forti

Risoluti a morir. Fatiche e sangue

Costa al tumido Svevo, ancor ch'ei guidi

Il fior dei suoi vassalli; e per più tempo

Trattenne il corso del furor tedesco

Una sola città, che Italia intiera

Quando in età codarda al primo Ottone

Fu vittoria l'entrarvi. Alfin migliori

Noi siam dei nostri padri, e ne calunnia

Il sacerdote lodator degli avi,

Cui l'astuto facea coi suoi terrori

Trista la vita, ed il morir tremendo.

Non conoscon paura e Crema e Brescia.

Ma che parlo di lei? Ferma qual rupe

Milano sta, né crolla il capo altero

Al vento di Soavia, ed è sì grande

Il suo valor, che solo in lei potrebbe

Rompersi l'onda del tedesco orgoglio.

Magnanima città, combatti e vinci;

Ma se cadessi, non temer: risorgono

Le mura che bagnò libero sangue;

Son fra gli schiavi le ruine eterne.

 

POPOLO

Tu ci oltraggi, signor!

 

ARNALDO

Perché si trema

Pria che suoni la tromba? O tu, che fosti

Già re del mondo e nell'Italia il primo,

Or l'ultimo sarai? Diran le genti,

Che non mentì Bernardo, il mio nemico,

Quando ad Eugenio ei scrisse: «I tuoi Romani,

Ribelli o vili, dominar non sanno,

impararo a ubbidir; perché li temi?

All'Europa mostrò Tivoli umile

Che han parole superbe e piè fugace»

 

POPOLO

Non più; cessa, o morrai.

 

ARNALDO

Popol, t'ho desto;

Ora svenar mi puoi: ma pria nel sangue

Di quella gente che mancipio è fatta

Di tiranno crudele, a Dio prometti

Lavar l'infamia onde tu piangi e fremi.

 

UNO DEL POPOLO

Evviva Arnaldo!

 

UN ALTRO DEL POPOLO

All'armi!

 

ALTRI DEL POPOLO

Ognun qui gridi:

Morte ai barbari, morte!

 

ARNALDO

Ahi sol gridate:

Morte al feroce venditor di sangue,

Che oppresso, opprime, e in altri e in sé distrugge

L'immagine di Dio. Romani, udite:

Or tra voi non ritorno a darvi aita

Sol di parole. Poiché in Brescia io tenni

Del popolo le parti, e a due pastori

Strappai la veste che nascose i lupi,

Ebbi, vi è noto, nell'Elvezia asilo,

E sparsi i semi della mia dottrina

Su fecondo terren. Bernardo astuto,

Ch'ebbe labbro soave e cor di bronzo,

Fremea da lungi, ed io tuonava il vero

Di Zurigo nei templi e di Costanza

O dagli alti suoi monti; e a quella guerra

Che fa l'uomo all'error pensai piangendo,

Quando sotto ai miei piè solo indorarsi

Mirai le nubi che non vince il sole.

O bella Elvezia, amo di tue profonde

Valli il mistero, e l'invisibil fiume

Che rugge in seno dei creati abissi:

Ma ben più t'amo ora ch'io trassi in Roma

Della tua gente che morir non teme

Due mila prodi.

 

UNO DEL POPOLO

O generoso Arnaldo!

 

UN ALTRO DEL POPOLO

Qual figli ei n'ama.

 

POPOLO

O padre, e santo.

 

ALTRI DEL POPOLO

E morte

Ad ogni vile che così chiamasse

Il Sassone Adriano.

 

 

 




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