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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Che faremo, o signor?
Voi lo chiedete?
O vincere, o morir. Col quarto Arrigo
Per l'ingrato Ildebrando han pur saputo
I vostri avi pugnar: contro il tedesco
Furor non stette la virtù romana,
Quando Lotario s'addestrava al freno
Del rival d'Anacleto, e in Laterano
L'ignominia cambiò nella corona,
E poi fuggì deriso? Ora quell'armi
Che hanno al fero Alemanno aperto il fianco
S'impugnino da voi: la causa è santa,
Son gli stessi i nemici, e da sicura
Torre mostrarsi, e benedir le spade
Arnaldo sdegna. O Libertà, nel seno
Pur m'arde il sangue, e questo sangue è tuo.
Non credete a costui. — Monaco astuto,
Volan dal labbro tuo parole altere:
Ma genti che non mai stanca la guerra,
Che il furor delle parti in lunghe pugne
Esercitò, vincer tu speri? Io vengo
Dalle terre lombarde, e innanzi agli occhi
Ho il terror dei suoi popoli. Milano
Pria che vinta è discorde, e sta Pavia
Nel campo dell'Impero e le sue squadre
Tu sol conosci alla licenza e all'ira
Verso gl'imbelli. Nelle mura infami
Di quell'empia cittade era il trionfo
Apparecchiato all'oppressor crudele
Di questa Italia che non ha fratelli:
Là vidi l'ebro e fetido Alemanno
Ritornar dalle stragi, e vacillante
Dalle donne pavesi andar soffolto
Con turpi abbracciamenti; e a Federigo
Tardar dense le genti il suo corsiero,
E con bacio servile affaticargli
Le mani ancor del nostro sangue asperse:
Ei, con rabbia di rege e di Tedesco,
Da lungo ossequio liberarle, aprirsi
Col ferro a un tempo e col destrier la via;
Nella polve, che è nube a quel superbo,
Lanciarsi i suoi fedeli, e chi s'arresta
Calpestar, o ferir: degna mercede
Ebbe la gioia degli schiavi. Intanto
Quei campi che feconda il pingue Olona,
Teutono cavalier muta in deserto.
Nel dolce piano, e senza colli e selve,
Vana è la fuga del cultor lombardo,
Che alle timide spalle avvicinarsi
Sente la vampa delle nari ardenti
Nel fumante destrier che lo persegue.
Tu la possanza del nemico esalti,
Ed avvilirci speri? Ahi sono pur troppo
L'Alpi ai Barbari aperte: era Adriano
Detto il pastor che qui chiamògli, e v'era
Un sacerdote ad insegnar la via.
Pera dell'empio il nome. Allor l'altare
Divenne un trono, e sol possanza ed oro
Cercò la Chiesa: e voi, ribelle o schiavo
Ognor mirate chi quaggiù di Cristo
Sostien le veci, e mal da lui si noma.
Una catena insanguinata unisce
L'Italia alla Germania; è suo retaggio
La nostra servitù: ben fra le tombe
Tu scorri, o Tebro, che ubbidisci al Reno.
Nell'origine sua mostrar che giova
La fiumana del sangue, ove travaglia,
Pier, la tua nave, che sì male è carca? —
Del presente si parli. A voi, Romani,
Dirò quei casi che costui vi tacque:
Ingannarvi non so. Rosate è fatto
Una ruina da cui sorge il fumo,
E guidava il signor di Monferrato
L'armi alemanne contro Chieri ed Asti
Converse in polve: il suo pastor crudele
Tal fe' vendetta delle proprie offese
Sul gregge fuggitivo; egli di faci
Armò le man tedesche, e case, e templi
Strugger mirava, e benedisse il rogo.
Ecco il perdono che aspettar potete
Da tiranno mitrato. Un'atra cenere
Mostra quel colle dove fu Tortona;
E di vino e di sangue inebrïate
Vi dormian fra le prede e su i cadaveri
Le belve della Magna; e come pallide
Ombre vaganti per la notte oscura,
Quei che al ferro avanzaro ed al digiuno,
E ascose il grembo delle tue caverne,
Desolata città, volsero il piede
Tacitamente all'ospital Milano.
Vi portan ferro ed odio, e mille eroi
Nascervi io miro dal fecondo esempio
Che Tortona le diede. Oh! s'io potessi,
Santa cittade, sulle tue ruine
Riverente prostrarmi ed abbracciarle!
Le reliquie dei forti in prezïosi
Vasi io vorrei raccorre, e qui dell'ara
Nel dì della battaglia offrirle ai baci.
Oh sia lode al Signor! Più non si muore
Pei ceppi e per l'error: martiri alfine
Hai, santa Libertà: per te divenga
Cenere anch'io. — Ma impallidir vi miro.
Romani voi! scendete; oh questo monte
Non è pei vili. Giù. Nell'ima valle
Il tiranno v'attende; ognun si prostri,
E dia lacrime e baci al piè superbo:
Pria vi calchi nel fango, e poi v'assolva.
Armi discordi, e poche abbiam: le mura
I petti
Son le mura dei forti. E voi credete
Che dia sgomento alle città lombarde
La distrutta Tortona? è un altro esempio
Di feroce valore in pochi forti
Risoluti a morir. Fatiche e sangue
Costa al tumido Svevo, ancor ch'ei guidi
Il fior dei suoi vassalli; e per più tempo
Trattenne il corso del furor tedesco
Una sola città, che Italia intiera
Quando in età codarda al primo Ottone
Fu vittoria l'entrarvi. Alfin migliori
Noi siam dei nostri padri, e ne calunnia
Il sacerdote lodator degli avi,
Cui l'astuto facea coi suoi terrori
Trista la vita, ed il morir tremendo.
Non conoscon paura e Crema e Brescia.
Ma che parlo di lei? Ferma qual rupe
Milano sta, né crolla il capo altero
Al vento di Soavia, ed è sì grande
Il suo valor, che solo in lei potrebbe
Rompersi l'onda del tedesco orgoglio.
Magnanima città, combatti e vinci;
Ma se cadessi, non temer: risorgono
Le mura che bagnò libero sangue;
Son fra gli schiavi le ruine eterne.
Perché si trema
Pria che suoni la tromba? O tu, che fosti
Già re del mondo e nell'Italia il primo,
Or l'ultimo sarai? Diran le genti,
Che non mentì Bernardo, il mio nemico,
Quando ad Eugenio ei scrisse: «I tuoi Romani,
Ribelli o vili, dominar non sanno,
Né impararo a ubbidir; perché li temi?
All'Europa mostrò Tivoli umile
Che han parole superbe e piè fugace»
Ora svenar mi puoi: ma pria nel sangue
Di quella gente che mancipio è fatta
Di tiranno crudele, a Dio prometti
Lavar l'infamia onde tu piangi e fremi.
UNO DEL POPOLO
UN ALTRO DEL POPOLO
All'armi!
ALTRI DEL POPOLO
Ognun qui gridi:
Morte al feroce venditor di sangue,
Che oppresso, opprime, e in altri e in sé distrugge
L'immagine di Dio. Romani, udite:
Or tra voi non ritorno a darvi aita
Sol di parole. Poiché in Brescia io tenni
Del popolo le parti, e a due pastori
Strappai la veste che nascose i lupi,
Ebbi, vi è noto, nell'Elvezia asilo,
E sparsi i semi della mia dottrina
Su fecondo terren. Bernardo astuto,
Ch'ebbe labbro soave e cor di bronzo,
Fremea da lungi, ed io tuonava il vero
Di Zurigo nei templi e di Costanza
O dagli alti suoi monti; e a quella guerra
Che fa l'uomo all'error pensai piangendo,
Quando sotto ai miei piè solo indorarsi
Mirai le nubi che non vince il sole.
O bella Elvezia, amo di tue profonde
Valli il mistero, e l'invisibil fiume
Che rugge in seno dei creati abissi:
Ma ben più t'amo ora ch'io trassi in Roma
Della tua gente che morir non teme
Due mila prodi.
UNO DEL POPOLO
UN ALTRO DEL POPOLO
ALTRI DEL POPOLO
E morte
Ad ogni vile che così chiamasse