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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Signor, concedi al tuo fedel vassallo
Ch'ei torni in armi al Campidoglio, e domi
Della plebe il furor: poscia d'Arnaldo
Dal giardino di Dio svelgasi, e s'arda
La mala pianta, che fiorir potrebbe
Isola nacque, e barbaro vien detto
Dalla superba Italia, a nuovo impero
Vuoi che col sangue or dia principio in Roma?
Gli antichi nomi che rinnova Arnaldo
Nella vota città, la vita avranno
Del fior che nasce fra le sue ruine.
Io sol pavento la fatal dottrina
Onde l'audace impoverir vorrebbe
D'ogni sostanza il clero. Ahi so che piace
Agli avari monarchi e ai lor fedeli
Che cingon spada: ognun di lor desia
Tornar la Chiesa ai suoi princìpi umili;
Delle sue spoglie rivestirsi, e santa
La direbbe quel dì che fosse ignuda.
Di Cesare alle porte, infin che a lui
Di svegliarsi piacesse, allor dovrebbe
Assiso starsi il successor di Piero,
Portentoso cliente; e a pan servile,
Come il mendico che da noi si pasce,
Stender la mano che dispensa i regni.
Provvide Iddio che il temerario Arnaldo
A libertà desti i Lombardi e Roma,
Né dell'Impero la ragion difenda.
Al suo lungo furor spazio novello
Però concedo, e vaneggiar lo lascio
Dietro a quell'ombra che gli par persona,
Finché Cesare giunga. Egli promise
Della torbida Roma il fasto insano
Reprimere coll'armi, e della Chiesa
Tutti gl'iniqui esterminar dovrebbe
Che la spada segnò dell'anatèma,
Se al voler di colui che tien le chiavi
Della gloria di Dio, servir sapesse
Con un ossequio volontario e pio,
Siccome un figlio al padre. Ora fra i due
Occhi del mondo è guerra, e di sua luce
Risplender crede quel minor pianeta
Che illumina la notte, e nell'oscura
Selva del mondo ogni mortal smarrita
Ha la diritta via: dal dì funesto,
A trattar cominciò destra profana
L'armi immortali, e contro noi l'Impero
Una lancia si fe' degli Evangeli.
Tu sei lo spirto che quaggiù gli avviva:
L'eterne leggi interpretar conviene
Solamente a quel re che non traligna.
Noto, o Guido, mi sei: t'arde lo zelo
D'una causa ch'è santa, e non t'accorgi
Che langue il suon della querela antica
Fra l'Impero e la Chiesa, e non divampa
Più la fiamma di Dio nei petti umani.
Or nell'Italia è tanto oblio del Cielo,
Che libertà si cerca, e si combatte,
Ma non per noi. Mirar vorrei dai flutti
Combattuta la nave in cui m'assido:
Ma non sarà che nei suoi fianchi aperti
Mormori l'onda vincitrice. Ascolto
Sempre una voce che dal ciel mi grida:
Pietro, per la tua nave invan paventi;
Tu porti Iddio. Ma dell'Europa io deggio
Reggere ancor le sorti, e sono i regi
Parte del gregge un dì commesso a Pietro,
Né la miglior: sto nell'Italia incerto
Tra Federigo e le città lombarde,
Ch'ei s'argomenta di punire, e temo
Cesare nuovo, e libertà novella.
Una è l'autorità: quando io mi ponga
Ove Milano innalza il suo vessillo,
Non ubbidire insegno, e quei ribelli,
Ch'io qui condanno, in Lombardia proteggo.
Se con Cesare sto, schiavo divengo
A quel poter che non vorrebbe eguali,
Ricondurre la Chiesa. Ahi quanto sangue
Si sparse a liberarla!… È nello Svevo
Indole atroce; lo rapisce il primo
Furor di gioventude e di possanza.
Popolo ei guida, che, feroce e stolto,
Nelle vinte città stima consiglio
Destar la fiamma onde gli tempri il verno.
Nel giorno che a costui diede Lamagna
Premer quel trono ove sedea Corrado,
Di lieve fallo gli gridò mercede
Plebeo ministro e con voce di pianto
Le genti accolte ripetean mercede.
La maestà della sua man severa
Fece silenzio in tutti, e a Dio presente
Tutta il superbo sollevò la fronte,
Non santa ancora per liquor d'ulivo
Da chi tien le mie veci in Aquisgrana,
Gridando: «È la giustizia inesorabile,
Né cede alle preghiere il suo decreto;
Non mi posso ingannar.» Folle blasfema!
Sol non erra quell'uno a cui sul labbro
Parla la voce del Figliuol di Dio.
Io son colui: Svevo, il mio loco usurpi…
E la sventura ti farà crudele,
Se perdonar non sai mentre ti splende
Il sorriso maggior della Fortuna.
Padre e signor, ciò che delitto estimi
Non ardisco lodar, ché se nell'opra
Esser merto potea, coi detti insani
Lo vïolò: ma pur nel re mi piace
Tanto rigor. Quando ai tuoi cenni ei serva
Con cieco ossequio ed ubbidir veloce,
Dovrai sull'ara benedirgli il brando…
Quel dì sospiro in cui d'Arnaldo il sangue
La fè rinnovi dell'antico patto
Fra la Chiesa e l'Impero, e d'ogni male
Svelgano insieme la comun radice,
E taccia l'uomo allor che parla Iddio
Sopra il tuo labbro. Tutto in sé l'Inferno
Senta Abelardo, che primier le corte
Ali spingea dell'intelletto umano
A temerario volo; ed empio, e stolto
Nella sua scuola dimostrar tentava
Ciò che teniam per fede, ed appressarsi
Colla ragione al vero inaccessibile.
Ahi la pronta credenza, e dello spirto
La povertà, cui fu promesso il Cielo,
Per lui s'ebbe a dispetto; e sul maggiore
Dei ministri di Dio vennero a rissa
Pur di Gallia i fanciulli, e l'infinita
Schiera che in gente vana a lor somiglia:
Retro al sofista suo la razza audace
Entrò nel tempio a lacerar quel velo
Che coprì l'ara, e pur dei Santi il Santo
Fu nei trivi argomento a strepitoso
Garrir di volgo. In quella scuola Arnaldo
Crebbe al delitto: egli quell'armi stesse,
Onde fe' guerra al Cielo il suo maestro,
Or contro il soglio ha volte e la tua santa
Autorità, che dei monarchi al freno
I popoli educò. Ma l'empia voce
Qui suona ancor, perché lo zelo è morto
Ond'arse in terra il tuo fedel Bernardo,
Madre di Dio! che se ubbidito avesse
La terra dov'ei nacque al suo consiglio
E d'Innocenzo ai cenni, il fero Arnaldo,
Che nella fuga seminò gli errori,
E ai trionfi or qui vien da lungo esiglio,
Nostro poter, che l'alma errante avrebbe
Sì ricondotta a Dio col pentimento,
Ch'ella al Cielo potea salir dal rogo,
La Chiesa,
Fino alla tromba che nel giorno estremo
In ogni avello sveglierà la polve,
Deve la guerra sostener col mondo,
D'errori armato che si fan dottrina.
Lo Svevo abbiam nemico: or collo scettro
La possanza tener di Carlomagno
Io so ch'ei vuol: spera che torni indietro
Il fiume eterno degli umani eventi,
E a un suo cenno ubbidisca, e gli riporti
L'antico freno che corresse il mondo.
A quella norma ricompor vorrebbe
Tutti gli stati, e dominar la Chiesa,
A cui deve ubbidir: scandalo ei grida
I riti nostri, una spelonca il tempio
Ove l'oro si conta, e Dio si merca
Sul sepolcro di Pietro. Oimè, sul trono
Sta l'eresia d'Arnaldo! e se non fosse
Che amor gli ferve d'una fola antica
Nell'indomito petto, esser potrebbe
Di Cesare l'amico: ei l'empio capo
Promise a noi per vendicar l'Impero,
Ma non la Chiesa: a separarla ei viene
Dalle città lombarde, ove risorge
La libertà che qui mal chiede Arnaldo.
Temo i doni di Cesare: infamarmi
Spera col sangue che a un mio cenno ei versi,
Ond'io poi grato e reo la man sollevi
All'anatèma di Milano, e ponga
In sua balía l'Italia e Roma. O Guido,
Tutto cangiò! La Croce invan sovrasta
Sulla corona ai re, ché il suo mistero
Non aggrava la fronte a quei superbi.
Non riconoscon che fu data a Pietro
In retaggio ogni gente, e si distende
Ai confin della terra il suo potere.
Però non deggio essere in tutto avverso
Alla ragion del popolo: t'è noto
Ciò che sperò Bernardo. Oh s'io potessi
Tornare Arnaldo al nostro grembo, e farne
Un lione di Dio! dalla sua fronte
Disgombrerei dell'anatèma il carco
Se in Milano costui gridar sapesse:
Libero è l'uom quando ubbidisce a Dio,
Non sono
Io nel cospetto d'Adriano?… e questa
La voce sua non è?… Deh, nel tuo segno
Soccorrimi, o Signor. Guido, sei desto,
Oppur dell'uomo l'avversario antico
In fero sogno a cui fuggir non puoi
Così ti parla?
Stolto! obliasti che Gesù non vuole
Del peccator la morte, e ad Abelardo
Perdonava Bernardo, e pur gli piacque
L'austera vita a cui si diede Arnaldo?
Finte virtudi, o vane; or sta la morte
Nell'opre sue.
Posson col mio perdono
Ei s'è diviso
Dal gregge tuo.
Cercar la pecorella: io son pastore
Può farlo agnello Iddio: sorger ei puote,
E tu cadere.
Io che non erro?
Che un Concilio il dannò?… poi tu?…
Che dici?
Io posso tutto. Osan le membra audaci
Ribellarsi dal capo? in queste mani
Non stan le chiavi un dì concesse a Pietro?
Qual sentenza di Dio, ripete il Cielo
La mia parola che qui scioglie e lega.
Non tanto Arnaldo osò. Sol della terra
Mi contrasta l'impero: or più di lui
(S'inginocchia al papa.)
Errai: perdona! Io dai tuoi piè non sorgo
Se non m'assolvi: m'ingannò lo zelo.
Sono il tuo fango: or qual più vuoi mi forma,
Ch'io sol dal monte, ove mi ha posto Iddio,
A dissipar le tenebre del mondo
La face inalzo: è della sua chiarezza
Figlio lo zelo che all'error fa guerra.
Sempre travia chi guarda altrove; io sono
Norma all'opre, ai pensieri; e tu seguirmi,
Non preceder mi devi: agnello umile
Al pastore t'atterga, e guata il suolo;
L'orme che vi segnai guidano al Cielo.
Conosco Arnaldo; ei qui verrà, lo spero,
A segreto colloquio. Ancor non sono
Nel vicin tempio i cardinali accolti,
Che fra il clero devoto e i suoi fedeli
Denno proceder meco a Laterano,
E consacrarmi sul maggior dei troni.
Ov'io mutar non possa il cor superbo
Dell'infelice Arnaldo, allor sapranno
Il volere di Dio: quando il periglio
Sta sulla Chiesa, non son io che parlo.
A lor t'unisci, e i nostri cenni aspetta.