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Giovan Battista Niccolini
Arnaldo da Brescia

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Scena terza. Giordano, Arnaldo

 

Stanze nel Castello di Giordano.

 

GIORDANO

O santo petto, invan t'affanni e tenti

All'altezza inalzar del tuo pensiero

L'umile Italia: ella ha d'errore ingombro

L'infermo capo, e sempre in lei combatte

L'una coll'altra mano. E chi potrebbe

Del Sacerdozio a un tempo e dell'Impero

La guerra sostener, se Roma istessa,

Roma che sa come gli Dei si fanno

Ch'ebber guerra fra loro, e qui li ha visti

Correr nel sangue per seder sull'ara

Più fatal d'ogni trono, ancor parteggia

Fra il pontefice e noi. Tu cerchi invano

Dall'error liberarla, e l'Evangelo

Ai sacerdoti opporre: a lor si crede,

E non a Dio: scrivon gli astuti i primi

Nel libro della mente, e queste note

Cancellar non è dato. A me lo credi,

Io nel sen dei più ardenti un paüroso

Odio conosco delle fole avite:

Pugnano ancor con esse, e non l'han vinte,

E nel furor nascondono i rimorsi.

 

ARNALDO

Fede si serbi a Roma: io non potrei

Divellermi da lei: fosse ombra e sogno,

Nel vano amplesso di perir mi giova.

Soffri, o Giordano, e spera.

 

GIORDANO

Una speranza

Avrei, se Pietro fosse morto altrove.

 

ARNALDO

Ah non avvenga che pel reo cultore

Tu ti riduca a maledir la pianta!…

Ma che pensa il senato?

 

GIORDANO

Ei si figura

Che un nuovo impero qui risorga, e possa

Divenir fonte del poter supremo

Il suo nuovo consesso, o almen confermi

L'imperator che la Germania elegge.

 

ARNALDO

So che in tali speranze a quel Corrado,

Cui lo Svevo or succede, un scriveste

Magnifiche parole: ei pria superbo

Non le degnò d'un cenno; e poi feroce,

Precipitando dal disprezzo all'ira,

Se nol rapia la morte, ei qui movea

Del terzo Eugenio a vendicar la fuga,

E rispondea col ferro il re tedesco

Al romano senato.

 

GIORDANO

Or vien lo Svevo

A farsi sacro, e più spiegar l'artiglio

Allo strazio d'Italia; e solo il papa

Ricercherà fra noi. Roma pagana,

Quei tiranni che uccise in Ciel ponea:

Santa divenne, e quella man che tiene

Le chiavi che in Giudea fur date a Pietro,

La tirannia consacra.

 

ARNALDO

All'armi, all'armi!

Io lo gridai.

 

GIORDANO

Ma invan: questo senato

E il popol tutto che sentier non crede

Laddove orma non sia, negli usi antichi

Fia che si appaghi, e manderà Legati

Al crudel Federigo, e tutte al vento

Roma dispiegherà dei suoi vessilli

Le dipinte paure, abbandonando

A vetuste pareti i ferri immoti,

Reverente all'Impero; e fia chi veli

Con superbia di nomi il vil timore

Che gli desta il tiranno. A lui si deve,

Già gridar odo, il solito tributo

Da Roma dimandar? Perché non viene

Su carro trionfal?… Miseri e stolti!

Dalla superbia del Tedesco avaro

Vi fia negata la più vil moneta

Che all'Italia rapì: sol d'essa i figli

A germanico plaustro incatenati

Ei dall'arse città condur vorrebbe

Al Campidoglio; e sì discordi e vili

Siam fatti omai, che dalla plebe insana

Plausi, e non compri, avrebbe. Oh senza speme

Città, che a regno o a libertà ritrovi

Nella memoria delle tue grandezze

Ostacolo e rampogna, e in lor consoli

La tua viltà! che servi, e fremi, e sogni,

Misera, e sei pur dal passato oppressa!

 

ARNALDO

Se diedi a una virtù che presto langue

Troppo audaci consigli, e quel possente

Affrontar non osate, almen difese

Sian queste mura, ed ai Tedeschi è chiusa

Pur la via della fuga. Avranno a fronte

Il possente Normando, a tergo insorge

La vendetta lombarda: e questi lurchi

Di calore e di polve impazïenti,

Se osan qui rimaner, struggersi io veggo

Negli squallidi campi, in questo cielo

Tacito, ardente: ivi avverrà che pugni

Ai danni loro anche d'Italia il sole.

 

GIORDANO

Pensa di Roma all'immortal nemico,

Ch'è re dell'alme, ed ogni cor fa vile,

E languido ogni braccio. Italia è schiava,

Se baciarsi vedrai Cesare e Pietro.

 

ARNALDO

Pronti a tradirsi; e ancor non bene è noto

Chi sia fra lor che più somigli a Giuda.

L'uno all'altro s'opponga, e pria che parli

Coll'astuto Adrian, Cesare ascolti

I Legati di Roma. Ei tragge seco

Gli esuli della Puglia: a lor conviene

Stringersi d'amistà; ché ad essi ei vuole

Render la patria, e alla Germania un regno

Che il Normando usurpò. Sempre la druda,

Aborrita da noi, nelle sue guerre

Vince perdendo, e al pastoral ricorre,

Se cade il ferro dalla mano imbelle;

E sul capo fatal resta la mitra,

Quando l'elmo balzò. Tosto al Normando,

Ch'ella domo vedea dai suoi terrori,

Comandò prigioniera, e gli sorrise,

E tutte consacrò le sue rapine

Purché ligio ei gli sia: fu quindi offesa

La ragion dell'Impero. È un odio antico

Fra i Normandi e i Tedeschi. Or nel vassallo

Del Romano Pastor vede un ribelle

Federigo superbo: a lui palese

Sia che finge sdegnarsi, e puttaneggia

Con quel Guglielmo che ai Normandi impera,

La Curia infida; e che Adriano, a tergo

Dell'esercito suo che in Puglia ei guida,

Tutte potrebbe sollevar le genti

Se in Roma ei regna. A noi serbar conviene

Gli ordini nostri: e Federigo, in tanto

Pericolo di cose, aver potrebbe

Maggior fiducia nel roman senato.

Che nel prefetto da gran tempo avvezzo

A pontificia servitù. Migliori

Darà consigli il tempo, e in questa guerra

Milano vincerà. Se voi col senno

Libero stato ora serbar potete,

Certo avverrà che almen sia Roma il capo

Dell'italiche genti, e un patto unisca

Le sue città. Se non avviene, indarno

Si sparse il sangue, e questa gloria è breve.

Si oblierà che la crudel procella,

Che i lieti fior della speranza uccide

Nel giardino d'Europa, ognor movea

Dal germanico cielo. Ahi la sua gente,

Come una rupe che quei campi opprime,

Su cui ruina, e poi vi sfida i venti

Immobile e crudele, non si posi

Sul dolce pian d'Italia, e la condanni

Con lurido marito a nozze eterne.

 

GIORDANO

Suona la tromba del castel.

 

 

 




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