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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Stanze nel Castello di Giordano.
O santo petto, invan t'affanni e tenti
All'altezza inalzar del tuo pensiero
L'umile Italia: ella ha d'errore ingombro
L'infermo capo, e sempre in lei combatte
L'una coll'altra mano. E chi potrebbe
Del Sacerdozio a un tempo e dell'Impero
La guerra sostener, se Roma istessa,
Roma che sa come gli Dei si fanno
Ch'ebber guerra fra loro, e qui li ha visti
Correr nel sangue per seder sull'ara
Più fatal d'ogni trono, ancor parteggia
Fra il pontefice e noi. Tu cerchi invano
Dall'error liberarla, e l'Evangelo
Ai sacerdoti opporre: a lor si crede,
E non a Dio: scrivon gli astuti i primi
Nel libro della mente, e queste note
Cancellar non è dato. A me lo credi,
Io nel sen dei più ardenti un paüroso
Odio conosco delle fole avite:
Pugnano ancor con esse, e non l'han vinte,
E nel furor nascondono i rimorsi.
Fede si serbi a Roma: io non potrei
Divellermi da lei: fosse ombra e sogno,
Nel vano amplesso di perir mi giova.
Una speranza
Avrei, se Pietro fosse morto altrove.
Ah non avvenga che pel reo cultore
Tu ti riduca a maledir la pianta!…
Ei si figura
Che un nuovo impero qui risorga, e possa
Divenir fonte del poter supremo
Il suo nuovo consesso, o almen confermi
L'imperator che la Germania elegge.
So che in tali speranze a quel Corrado,
Cui lo Svevo or succede, un dì scriveste
Magnifiche parole: ei pria superbo
Non le degnò d'un cenno; e poi feroce,
Precipitando dal disprezzo all'ira,
Se nol rapia la morte, ei qui movea
Del terzo Eugenio a vendicar la fuga,
E rispondea col ferro il re tedesco
A farsi sacro, e più spiegar l'artiglio
Allo strazio d'Italia; e solo il papa
Ricercherà fra noi. Roma pagana,
Quei tiranni che uccise in Ciel ponea:
Santa divenne, e quella man che tiene
Le chiavi che in Giudea fur date a Pietro,
Io lo gridai.
E il popol tutto che sentier non crede
Laddove orma non sia, negli usi antichi
Fia che si appaghi, e manderà Legati
Al crudel Federigo, e tutte al vento
Roma dispiegherà dei suoi vessilli
Le dipinte paure, abbandonando
A vetuste pareti i ferri immoti,
Reverente all'Impero; e fia chi veli
Con superbia di nomi il vil timore
Che gli desta il tiranno. A lui si deve,
Già gridar odo, il solito tributo
Da Roma dimandar? Perché non viene
Su carro trionfal?… Miseri e stolti!
Dalla superbia del Tedesco avaro
Vi fia negata la più vil moneta
Che all'Italia rapì: sol d'essa i figli
A germanico plaustro incatenati
Ei dall'arse città condur vorrebbe
Al Campidoglio; e sì discordi e vili
Siam fatti omai, che dalla plebe insana
Plausi, e non compri, avrebbe. Oh senza speme
Città, che a regno o a libertà ritrovi
Nella memoria delle tue grandezze
Ostacolo e rampogna, e in lor consoli
La tua viltà! che servi, e fremi, e sogni,
Misera, e sei pur dal passato oppressa!
Se diedi a una virtù che presto langue
Troppo audaci consigli, e quel possente
Affrontar non osate, almen difese
Sian queste mura, ed ai Tedeschi è chiusa
Pur la via della fuga. Avranno a fronte
Il possente Normando, a tergo insorge
La vendetta lombarda: e questi lurchi
Di calore e di polve impazïenti,
Se osan qui rimaner, struggersi io veggo
Negli squallidi campi, in questo cielo
Tacito, ardente: ivi avverrà che pugni
Ai danni loro anche d'Italia il sole.
Pensa di Roma all'immortal nemico,
Ch'è re dell'alme, ed ogni cor fa vile,
E languido ogni braccio. Italia è schiava,
Se baciarsi vedrai Cesare e Pietro.
Pronti a tradirsi; e ancor non bene è noto
Chi sia fra lor che più somigli a Giuda.
L'uno all'altro s'opponga, e pria che parli
Coll'astuto Adrian, Cesare ascolti
I Legati di Roma. Ei tragge seco
Gli esuli della Puglia: a lor conviene
Stringersi d'amistà; ché ad essi ei vuole
Render la patria, e alla Germania un regno
Che il Normando usurpò. Sempre la druda,
Aborrita da noi, nelle sue guerre
Vince perdendo, e al pastoral ricorre,
Se cade il ferro dalla mano imbelle;
E sul capo fatal resta la mitra,
Quando l'elmo balzò. Tosto al Normando,
Ch'ella domo vedea dai suoi terrori,
Comandò prigioniera, e gli sorrise,
E tutte consacrò le sue rapine
Purché ligio ei gli sia: fu quindi offesa
La ragion dell'Impero. È un odio antico
Fra i Normandi e i Tedeschi. Or nel vassallo
Del Romano Pastor vede un ribelle
Federigo superbo: a lui palese
Sia che finge sdegnarsi, e puttaneggia
Con quel Guglielmo che ai Normandi impera,
La Curia infida; e che Adriano, a tergo
Dell'esercito suo che in Puglia ei guida,
Tutte potrebbe sollevar le genti
Se in Roma ei regna. A noi serbar conviene
Gli ordini nostri: e Federigo, in tanto
Pericolo di cose, aver potrebbe
Maggior fiducia nel roman senato.
Che nel prefetto da gran tempo avvezzo
A pontificia servitù. Migliori
Darà consigli il tempo, e in questa guerra
Milano vincerà. Se voi col senno
Libero stato ora serbar potete,
Certo avverrà che almen sia Roma il capo
Dell'italiche genti, e un patto unisca
Le sue città. Se non avviene, indarno
Si sparse il sangue, e questa gloria è breve.
Si oblierà che la crudel procella,
Che i lieti fior della speranza uccide
Nel giardino d'Europa, ognor movea
Dal germanico cielo. Ahi la sua gente,
Come una rupe che quei campi opprime,
Su cui ruina, e poi vi sfida i venti
Immobile e crudele, non si posi
Sul dolce pian d'Italia, e la condanni
Con lurido marito a nozze eterne.