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Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
O generoso! ahi quanto
Pel tuo capo tremava… Ah mai sì grave
Non mi fu l'ubbidirti.
Il Campidoglio
Il clero
Al sacro monte ove fu Guido ucciso
Appressarsi non osa.
Ha l'interdetto, e son le chiese aperte?…
Come la nebbia che le valli inonda,
Folta la gente vi si addensa, e suonano
E in ogni labbro
Vola il mio nome abbominato?
Mal celarlo potrei: non sai ch'è breve
Nella plebe l'amor, dura lo sdegno
Nei sacerdoti eterno? A lor gli ufici
Adriano divise; e chi fra loro
I pergami salì, spaventa, e regna
È fra l'are tumulto; alle preghiere
Il fremito succede, e in mezzo ai pianti
L'ira si desta, e dei percossi petti
Al suon s'alterna un maledir feroce.
Ma nelle chiese, ov'è silenzio e notte,
I più astuti del clero a udir son posti
Gli altrui peccati; e le sommesse, arcane
Parole mormorate ai proni orecchi
Sono alla nostra libertà fatali
Più d'ogni voce che nei templi assorda;
Perché nuda e tremante al lor cospetto
Ogni alma è tratta dalle sue latèbre,
E assoluto non è chi si confessa
Se gli altri non accusa.
Ch'io torni a Roma, e vi combatta ancora
Per la causa di Dio; che non s'oltraggi
Cristo più lungamente, e ai suoi nemici
La larva io strappi che li fa tremendi.
All'ire brevi del più vil torrente
Resister non si può: sdegnano i grandi
Un sepolcro nel fango. Allor che scorsi
Saran quei giorni in cui la Chiesa è forte
Per le memorie d'immortal dolore,
udrai che intepidì lo zel feroce
Nei più devoti petti. Or ch'è disciolto
Dell'anatèma il nodo, ancor nel clero
Avvi taluno che Adrian condanna,
Che ferire il suo gregge osava il primo
Con insolita pena, avverso a Roma
Come stranier: già gli s'invidia il grave
Manto ch'ei porta, e in ogni cor superbo
Sparisce il sacerdote, e l'uom ritorna.
Ma da cura maggior che lo tormenta,
L'anima è vinta del Roman Pastore;
E quell'armi a frenar che Federigo
Qui volge col furor della tempesta,
Già ricovra in Viterbo, e i cardinali
E tosto
A quel tumido Svevo i suoi legati
Al suo cospetto
Saran pria di costoro. E voglio anch'io
Farmi a Cesare incontro; e tu mi segui,
Se hai cor!
La morte io non pavento: è vita
A chi Cristo seguì. Ma qual consiglio,
Giordano, è il tuo?
Oro, possanza, e nel suo cor lo stesso
Federigo desia. Si parla invano
Colla stolida plebe: è un'arme il vero
Da porsi in man dei re, qualor tu brami
A quel tiranno
Tu vuoi che Arnaldo s'appresenti, e schiuda
Tra ludibri e minacce a vil parola
Pallide labbra, adulator tremante;
E lo consigli che al Tedesco avaro
Doni quei beni che la Chiesa usurpa
Ai popoli d'Italia? A lor li renda
La casta sposa dell'Agnel celeste,
Tardi pentita delle sue ricchezze,
Sacrilegio e rapina: alfin ritorni
Santo l'altare, e saran polve i troni.
Invan lo speri, e d'un poter concorde
Ma pura. —
Secoli, che tacer mai non potrete
Le sventure di Roma, ancor serbate
Memoria eterna di quel dì solenne,
Ch'io del quarto Adrian giunto al cospetto,
Nella smarrita via ridur tentai
Quell'errante Pastor che si fa duce.
Misero Arnaldo, invan parlasti a Pietro!
Ei qui Cristo rinnega, e mai non piange.
Tu aver potresti
Di Cesare il favor: per calle obliquo
Se non giungi alla meta, infamia e morte
Martire in Ciel. — Ma qui speranza alcuna
Di libertà non resta: or di'; che avvenne
Dei prodi Elvezi ch'io condussi a Roma?
Tu puoi
Chiederla a lor… non li ravvisi? in traccia
Muovon di te.