Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
Giovan Battista Niccolini Arnaldo da Brescia IntraText CT - Lettura del testo |
Perché mesto così!
Come dispregian Roma? e pur vi furo
Largamente nutriti: a quella gente
Ch'è devota d'Arnaldo, ogni dottrina
Quel monaco insegnò, fuor che il digiuno.
Tornino alle lor tane; e noi si torni
Alla santa Città, ché assai mi grava
E morir vuoi per questo
Abbominato? Alfin tornava il senno
Al popolo romano, e per Arnaldo
Si chiama in colpa, e si percote il petto
Ai piè dei sacerdoti… A dirti il vero,
Ho l'alma grave di molti peccati;
E un monaco cercai, ma di quei santi,
Che stanno dove Roma è più deserta,
Desideroso di cadergli ai piedi,
E il peso allevïar che mi tormenta.
Alle porte ei battea del monastero,
Quando mi feci innanzi al suo cospetto
Con atto riverente, e dissi: O Padre,
Confessar mi vorrei. Bieco rispose:
Tu sei vassallo di Giordano, e pugni
A favor d'un eretico: va lungi,
E non toccarmi; il tuo peccato è tale
Che assolver non si puote. — In quel s'aperse
Del monaster la porta, e in faccia mia,
Impetüoso come fosse il vento,
Quel monaco la chiuse, e in cupo suono,
Che nell'orecchie mie vive e rimbomba. —
Se dalle rôcche nel mio sen si volge
Arco nemico, e fa volar la morte,
Ahi povero Ferondo! — E tu che godi
Fra i nemici lanciarti, e la tua vita
Poni a rischio maggior, Galgano, pensa,
Pensa all'anima tua. San Pietro è aperto.
Se mutiam parte (e ce ne dan l'esempio
I baroni di Roma), e al suo destino
Si lascia Arnaldo e chi con lui delira,
Pur lo stesso Adrian sopra la fronte
Quel possente crocion farci potrebbe
Che di volo ci manda in Paradiso!
Il gran peccato è l'eresia! ché gli altri
Pesan men d'una piuma, e se ne vanno
Tu sei stolto così, che dallo sdegno
Il disprezzo ti salva, e lascia impune
La viltà che consiglia al tradimento.
Fede ai miseri io serbo: ho con Arnaldo
(Sdegnato)
Non t'adirar.
Se vuoi ch'io non m'adiri,
Non chiamarmi così.
Veggo che sei
Tu d'Arnaldo un discepolo, né credi
Che le porte del Ciel chiuder ti possa
Io sia, Ferondo, nel Vangelo ho letto
Quelle parole che ripete Arnaldo:
«Posseder non dovete argento ed oro.»
Nelle umane ricchezze il suo desio
Ha posto il clero, ed è così crudele,
Che agli eredi le toglie: ei pure è lieto
Del pianto mio.
Tu dunque aver potevi
Sostanze ed agi? Ahi la milizia è dura!
Cara è per me: col mio stipendio io posso
La madre antica sostentar: morrebbe
Di fame pria, ch'ella seder dovesse
Sul limitar del tempio, ove dispensa
D'un pan che le rapì, la gente iniqua
Che sterminar vorrei. — Ferondo, ascolta
Se posso amarli. Era la madre mia
Caduta in povertà, ma la soccorse
Un suo ricco fratello: avea costumi
Innocenti così, che quell'austera
Dottrina egli seguía che sparse Arnaldo
Nel suo loco natio: poco a sé stesso,
Molto ai poveri dava, e nulla al clero.
Ei cadde infermo; allor nelle sue case
Un monaco calò, siccome un corvo
A cui nel ciel per lungo tratto arrivi
Aura maligna d'insepolte morti.
Mesto negli atti, con voce soave,
Presso l'egro s'assise a confortarlo.
Ma un dì che lungi era la sua sorella,
Vi ritornò di furto, e il capo infermo
Sì gli empiè di rimorsi e di spaventi,
Che un demone credea gli stesse ai crini
Per afferrarlo: il monaco ribaldo
Gioía delle sue frodi, e quei terrori
Moltiplicava con parole insane;
Mentre la madre mia tentava indarno
Di ricondurre la ragion smarrita
Nel misero fratello. A lei fu chiusa,
Ed a me, la sua casa… Ancor mi sembra
Quel monaco veder: le membra avea
Per pinguedine tarde, e mai sul ciglio
Una lagrima pia: sol era il grave
Anelito del petto il suo sospiro.
Credi che basti a far d'Arnaldo un santo
Ch'ei mangi appena e beva, abbia le membra
Aride pel digiuno, e gli occhi ardenti
Nella pallida fronte? È fatto macro
Dai vigili rimorsi, e ben s'impingua
Nella grazia di Dio… Ma dimmi, in fuga
Egli sparia,
Quando vestito delle sacre lane
Da quell'astuto di lasciar gli averi,
Onde privò gli eredi, a quel convento
In cui vive l'iniquo, e poltroneggia.
Sta dell'abisso
Nel più profondo che ti fe' soldato.
S'io la causa di Cristo esser pensassi
Quella d'Arnaldo, al par di te saprei
Tu sei, Ferondo,
Di sì povero cor, che delle tue
Armi hai paura; e splende invan la luna,
Ché al suol le getti d'ogni fronda al moto.
Tu da questa milizia uscir potresti
Ai servigi del chiostro, e in quella pace
Farti lieto di cibo e di bevande.
Generoso non sei: tu prendi ardire
D'offendermi così, perch'io mi trovo
D'ogni colpa assoluto. Io son fedele
A Giordano ed Arnaldo, e loco avrai
Di venir meco al paragon dell'armi.
Che teco io pugni? L'eresia, che muta
Il cibo in vermi, e imputridir fa l'acqua,
Rende le spade ottuse, oppur le frange.
Facil vittoria avrei di te: sarebbe
L'ucciderti viltade, e poi rimorso.
Dei Frangipani alla progenie altera
Servir non bramo: conculcar fu vista
I vicari di Dio. Se qui la Chiesa
Armi non ha, so che le son fedeli
Della Germania i vescovi, che seco
Tragge l'imperatore: esser vorrei
Fra i lor soldati accolto; e tu vedresti
Nel dì della battaglia il pio Ferondo
Avventarsi assoluto e benedetto
Io sul mio labbro avea
Fremito d'ira, e tu lo cangi in riso.
Pari a Ferondo i suoi nemici avesse
Questa misera Italia, e non sarebbe
Desolata così!
Se oblíi per poco le follie superbe,
Conoscerai che sono i pii guerrieri
Che regge il senno di pastor mitrato,
Più felici di noi, che fra le lunghe
Tenebre stiamo del piovoso inverno
A guardia delle torri; e udiam sul capo
L'upupa rotearci, a cui fu pasto
Un appeso compagno; e il can ramingo
Presso il livido fosso andar latrando,
Che son gravi del gel che ci flagella:
E se del fresco venticel notturno,
Quando regna l'estate, a breve sonno
Ci persüade la fatal dolcezza,
Della febbre che corre in ogni vena
Se un detto solo irriverente ardisci