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Giovan Battista Niccolini
Arnaldo da Brescia

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Scena ventesima. Federigo sale sul trono, e Detti

 

FEDERIGO

S'ascoltino i Romani.

 

UN LEGATO

A noi concedi

Libertà di parola? in mezzo all'armi

N'assicuri?

 

FEDERIGO

Parlate.

 

LEGATO

O di Lamagna

Possente re, ma della santa ed alma

Donna del mondo imperator futuro,

Se Dio l'assente con benigno orecchio,

E con mente serena udir ti piaccia

Ciò che Roma ti dice. Al tuo cospetto

Un popolo c'invia che scosse il vile

Giogo dei sacerdoti, e da gran tempo

E t'aspetta e t'invoca. Ospite breve

Perché vieni fra noi? qui torna, e siedi,

Se Cesare vuoi dirti. Allor straniero

Più non sarai, ma cittadino: il freno

Riprendi qui dell'universo, e regna

Dall'eterna Città. Pensa che ai vinti

Partecipar le sue virtù le piacque;

Grandi, li fe' servire a Roma, e n'ebbero

Leggi, valore, disciplina, ed armi,

E impero alfin: tutto riabbia, e torni

L'aquila al nido abbandonato, e rendi

Al fulmine dell'ali il volo antico:

Oltre i gioghi del Tauro e dell'Imano

Muova dall'Alpi…

 

FEDERIGO

Nell'Italia nato,

Osi nomarle? e di salir presumi

Quegli ardui monti, onde non ha difesa

La patria tua? Perché da noi si scenda

Li fece Iddio. Stolto romore ascolto

Di tumide parole; ognun conosce

Le vostre glorie antiche, e se perita

Fosse la lor memoria, in voi sarebbe

L'onta minore: le virtù degli avi

Ricorda sempre chi da lor traligna,

E chiama suo quel ch'ei non fece. Ah cessi

Questo vano garrir. Folle Romano,

Deh pensa alfine a ciò che sei: di molti

Secoli di servaggio omai riposa

Notte perenne sulle moli altere,

Sudor di genti oppresse, e dove ai tuoi

Barbari veri fu dell'uom la morte

Spettacolo gradito, il sol momento

Che avessero di gioia. A punir Roma

Di sì lungo delitto elesse Iddio

D'Arminio i figli; e perché in lei vivesse

Alta memoria delle sue vendette

Non fu conversa in polve, ed ha ruine.

Qual è la sprezzo, e ciò che fu detesto;

E ammirar non si dee. Sale ogni gente

A quell'altezza che le fu prescritta

Coll'impeto fatal d'un moto arcano,

Che fugge al suo volere, e poi si volta

Per scendere alla morte: ed empia e stolta

Fu la città che osò chiamarsi eterna,

Dimenticando come Iddio le sorti

Ad ogni gente alterni, e una veloce

Necessità tutto comprenda e regga.

Sopra le rive del fatale Eusino

Nuova Roma sorgea: l'antica emunse

Il Greco sì, che divorato il mondo,

L'avida lupa allor moria di fame.

Poscia il Barbaro venne, e tu giacesti

Schiava obliata in doloroso letto

Per lunga età, né osasti il capo antico

Dalla polve inalzar del tuo deserto:

E allor che vi sorgea nube di guerra,

Pallida gente a ricovrar si venne

Sotto il gran manto del Roman Pastore;

Come fanciul che alle materne vesti

Ratto s'apprende in ogni suo periglio.

Popolo ingrato, e voi ribelli e stolti

Che libertà gridate, ite a prostrarvi

Dove Pietro morì: dannato avrebbe

La città dei trionfi a pianto eterno

Senza quel sangue Iddio; ché Carlomagno

Qui soccorse la Chiesa, e mal sorgea

Allor quell'ombra del cesareo trono,

Che superbi vi fa. Perché l'Impero,

Che Germania gli diè, chiamò Romano?

Il Longobardo, che da lui fu vinto,

Pel più abietto dei servi invan cercava

Un'ingiuria peggior del vostro nome.

 

LEGATO

Grembo del mondo Italia, e son di Roma

Tutte le genti alunne; e se tiranna,

Non maestra la credi, e lodi i figli

Che uccisero la madre, e, ad essa ingrato,

Pur le sventure sue cangi in delitto,

Perché parli di Carlo, e a noi richiedi

La corona di Augusto? Or questa usurpi,

Se da Roma non l'hai: pegni di fede

Dati abbiamo all'impero, e il freno istesso

Che alle sue mani Costantin già tenne,

E poi Giustinïan, fu ricomposto.

Pace tu speri dalla curia infida,

Prode Lamagna, e nel tuo sen non guati

Grave di guerra: è il tuo peggior nemico

Questo perenne venditor di Cristo…

Favor ne speri a racquistar la Puglia,

Se dell'Impero le ragioni usurpa,

E a feudo suo la tien: già col Normando

Cui diè nome di re, corser tre lustri,

Aprì novello traffico di sangue

Il secondo Innocenzo. Invan quest'onta

Udì Corrado a cui succedi. Adempi

Il suo difetto, e la vergogna emendi,

Se tu soccorri alla città che piange

Per grave giogo, e fra noi siedi, ed osi

Togliere all'empia Babilonia avara

Gli ampi tesori che le dà l'Inferno

E il Cristo suo, Satanno: un dì punita

Sarà l'ingorda: ha sete d'oro; e l'oro

L'affogherà.

 

FEDERIGO

Taci…. d'Arnaldo ascolto

L'empie dottrine.

 

UN ALTRO LEGATO

Almeno espor ci lascia

Ciò che si fe' pel sacro Impero. Abbiamo

Prese dei tuoi nemici, o a terra sparse

Le torri altere, né temer vi puoi

Gente che ti resista, e vi parteggi

Pel Siculo che rende ai papi omaggio.

Il Milvio ponte, ch'è sì presso a Roma,

Già ruinato per negar l'ingresso

Alle schiere alemanne, in breve tempo

Sorgea di nuovo con ardir felice;

E di mura e di pietre è sì munito,

Da render vano ogni crudel disegno

Dai pontefici ordito e i Pierleoni,

Che congiunti al Normando avean prefisso

Colle baliste fulminar la morte

Dall'ardua cima del fatal castello

Cui dà l'Angiolo il nome. E tu nemici

Creder ne puoi? Questo Adrian superbo,

I Frangipan, di Pierleone i figli,

Tranne Giordan che ci è fedele, e vedi

Al tuo cospetto riverente e muto,

Fra Roma e te porranno guerra: e molta

Già sussurrò nelle regali orecchie

Aura sinistra di calunnie astute.

 

FEDERIGO

Vanti e menzogne udii. Fede all'Impero

Roma serbò: ma dove è il mio prefetto?

Consoli, senatori, ordine equestre,

E magistrati, nomi solo ed ombre

In città di sepolcri, or voi credete

Da un monaco invocati esser risorti?

A quel passato che non può giammai

Rendervi l'avvenir, vi riconduce

L'inutil volo del pensiero audace,

Queruli schiavi, e vi riarde i petti

Fremito di memorie e di speranze.

 

LEGATO

Soffrir tu dei quanto permise Augusto;

E Roma, tua mercede, aver potrebbe

Impero e libertà.

 

FEDERIGO

Qual nome osate

Voi proferir? so che per lei vaneggia

Questa italica gente, e non l'Impero,

Ma i consoli desia. Qui venne Arnaldo

Colla speranza di trovar nel gelido

Cenere del passato una favilla

Cui gran fiamma secondi. Io l'ho col sangue

In tre cittadi estinta, e simil pena

Se ancor non diedi a voi superbi e stolti,

Questo gregge ringrazii il suo pastore.

Roma è sacra per noi dacché divenne

Città di Dio. Ma perché qui raccolta

Non è Italia ad udirmi? or io favello

Qual se vi fosse. Omai provincia è fatta,

E retaggio a Germania, e il re le impone

Che elegge a sé; retro al suo carro è tratta

Con eterno trionfo. Otton le pose

Una catena che talor s'allunga,

Ma frangersi non può: perché risuona,

Liberi vi credete? io questo inganno

Farò che cessi, e saran muti i ceppi

Dal brando mio rifissi. Italia spera

Ai Tedeschi sottrarsi? Aver non puote

Nulla di suo, neppur tiranni; e pensi

Ai suoi destini antichi. Alzarla a regno

Berengario tentava, e vinto e schiavo

Incanutì fra noi; diede pur l'ossa

Prigioniere a Lamagna. Alla sua tomba

I maggiori trarrò dei miei ribelli

Incatenati; e poi sepolcro ai vivi

Le carceri saranno… A voi, Romani,

Or io mi volgo. Che l'augel di Dio

Torni al suo nido, poi che l'ali ei volse

Dell'Orïente alla Città Regina,

Sognar potete? Siamo noi gli eredi

Dell'antica virtù. Guardate intorno:

Questo è il vostro senato, e qui vi sono

Consoli, cavalieri, e tende e valli,

Disciplina, valor: qui nei conflitti

Un'indomita audacia, e intemerata:

Qui repubblica vera, e quanto aveste

Nostro divenne, e seguitò l'Impero:

Non venne ignudo in nostra man; traea

Tutte le glorie del poter latino,

E una memoria che vi dà tormento

Sol vi lasciò… Dirmi straniero osate?

Siete Romani voi? Parola insana

Certo è ad udir ch'io qui da voi sia fatto

E cittadino e re, se Roma è mia.

Voi senza cor, senz'armi, e pria derisi,

E spenti poi, timide belve, immonde,

A cui tombe e ruine eran covile,

Nati alla fuga, e a sollevar la polve

In antico deserto, e sol difesi

Dalle preghiere del sovran Pastore,

Fatti ribelli a lui, sperar potete

La signoria del mondo, e già sognate

Affacciarvi dall'Alpi? Al proprio impero

Carlo l'Italia unì; porvi la sede

Mai non pensò, perché da lunga etade

Quella superba che sdegnò confini,

Cerchio, e non centro, era provincia ai Greci,

Ludibrio ai Longobardi. A noi si volse,

E l'armi ne implorò. Teutoni e Franchi

Siamo un popolo istesso: in me pervenne

La possanza di Carlo: io son di Roma

Legittimo signor. Chi può, rapisca

Ad Ercole la clava… A me s'aspetta

Reggervi col consiglio, ed ogni oltraggio

Respingere da voi. Saprà Guglielmo

Se da stragi lombarde è fatto ottuso

Il teutonico ferro, e certa prova

Nel suo petto n'avrà qualunque ardisca

Resistermi… Non diede a voi l'Impero

Verun'autorità: sol vi consente

A prefetto un Roman, perché si degna

Eleggerlo a vassallo, e in lui trasfonde

Il supremo poter: basti all'onore

Della città. — Selve d'Ardenna, e pure

Onde del Reno, io vi abbandoni, e sieda

Nella squallida Roma, e vi contristi

Per la vaghezza di memorie antiche

Gli occhi nel fango, e chiami biondo il Tebro?

 

LEGATO

Patria a Cesare è Roma; ella risponde

Con questo nome che da voi s'usurpa

Al teutonico orgoglio: il seggio antico

Fingi sprezzar, ma te ne senti indegno.

Una voce segreta al cor ti dice,

Che della sua grandezza appena un'ombra

Ritrar tu puoi: ma ciò che fu si taccia…

Usanze e leggi custodite e sante

Per gli Alemanni, che tenean l'Impero

Prima di te, giurar tu devi, e Roma

Assicurar che da tedesca rabbia

Vïolata non resti: a quelli che hanno

Uficio in Campidoglio, ed acclamarti

Debbono imperator, quella moneta,

Di cui largo alla plebe esser tu devi,

Prometterai con sacramento, e fermi

Saranno ancor dalla tua mano i patti.

 

FEDERIGO

Voi siete folli… in me ragione i moti

Contien dell'ira che si fa disprezzo

Quand'io vi guardo… Alla dimanda iniqua

Segue il rifiuto, e ciò ch'è giusto io debbo,

Perché lo voglio, e nulla io fo costretto.

E patti imporre, e giuramenti ardisce

Serva plebe al suo re? La mia parola

Basta per tutti, e ciò ch'io dico è sacro.

Son magnanimi i forti, e invan temete

Che in Roma un sol de' miei ferir si degni

Col nobil ferro che la Dania ha vinto)

Gente sì vil, che di morire è degna

Prima che nasca. Ora cercate indarno

Vendermi ciò ch'è mio: vorrò coll'oro

Comprar gli onori che acquistò la spada

Del teutone guerriero? io son del mondo

L'imperatore, e sull'aver di tutti

E sulle vite ho dritto, e solo è vostro

Ciò che a me piace di lasciarvi: e quanto

Suole nell'arche custodir l'avaro,

Nelle viscere sue la terra asconde,

A Cesare appartien: vale segnato

Dell'immagine mia l'argento e l'oro:

Ciò vi gridi ch'è nostro… Io d'ogni gente

Vidi i legati ai piedi miei prostrarsi;

Da terre ignote ho nuovi doni: e a vile

Avido volgo, e in povertà superbo,

Qual debito pagar dovrei moneta

Pattüita da lui, come s'io fossi

Un debitor che il carcere sostiene?

Tanta viltà da me speraste? Io fremo

Solo in pensarvi. Al vostro re dar legge,

Infingardi malvagi!… E dirmi avaro

Tu, Roma, non potrai; ché i miei fedeli

Quel vil metallo che da me richiedi,

Getteran nella faccia ai pochi e squallidi

Abitatori delle tue ruine

In sozzi panni avvolti, onde io li vegga

Fra lo scherno de' miei cader nel fango,

E ravvolgersi in esso, e disputarvi

Con fronte insanguinata il mio tributo.

 

GIORDANO

Arrossisco per te. Le leggi infrangi,

La dignità calpesti. A tanti oltraggi

Sola risposta è il ferro, e questa in Roma

Spetta al popolo il darti: e noi morire

Sappiamo ancor; vincer saprà Milano.

Non senza sangue una corona avrai,

Che poi cadrà nel sangue: e mi conforta

Questo lieto avvenir che già combatte

Per divenir presente: e qui di Roma

Le calunniate glorie e le sventure,

Gioia della Germania, or io difendo.

Quando il Sol cade, ancor dei colli umili

L'ombra si fa maggiore: e così quando

Dechinò Roma dalla sua grandezza,

Ogni popolo crebbe; e sorto appena

Dal suo fango natio, mostrò le vili

Ire del servo che divien tiranno.

Patria infelice, quel che sei condanna

Chi mai non fu! Quando, o Tedeschi, in mille

Stolidi sogni che creò l'ebrezza,

Sognar potete un avvenir che vinca

Le memorie di Roma? il suo vessillo

Non si usurpi da voi. L'aquila vostra

Nacque fra i ceppi e l'ombre, e sol discese

Sui cadaveri nostri a certa preda;

Ma non osa tentar le vie del cielo

Coll'occhio infermo che paventa il sole.

Che di Germania parli? Ai nostri danni

Congiurava ogni gente, e sempre indarno,

Sino al giorno fatal che, vinto il mondo,

Roma uccidea sé stessa. In voi non era

Pensier di gloria e di vendetta: il vento

V'agitava dell'Asia, e allora i dolci

Campi d'Italia ad inondar scendeste,

Lurida nube che non tuona e fugge.

Non lacrime di re tratti in catene,

Non lunga polve di trionfi, e l'onda

Di plebe che gridò: «Cesare giunge:»

Fu sulla Sacra Via; ma la percosse

Di barbari corsieri il piè sonante:

Poi la gente avidissima si sparse

A cercar l'oro nelle tombe; e il sole,

Che non vide città maggior di Roma,

A mirar condannò l'ossa dei forti

Dissipate nel suolo; e con insana

Rabbia impotente d'atterrar tentaste

Le moli antiche; e dalla rea fatica,

Stanchi e prostrati, e nella polve ascose

Quelle ruine che vi dier terrore,

Non osaste seder, barbari vili,

Sul sepolcro di Roma… E tutto aveste

In lei distrutto: rimanean le sante

Leggi che diede il vincitor benigno

Ai popoli volenti, e un dolce impero

Tutti li unì. Del gran consorzio umano

Voi sempre indegni, e non vi muta il Cielo.

Nell'Italia ai Tedeschi è fato invitto

Divenir molli, e rimaner crudeli.

 

SOLDATI

Morte a costui: s'uccida.

(L'esercito tedesco, gridando Morte, vorrebbe uccidere Giordano: Federigo lo impedisce stendendo Io scettro.)

 

FEDERIGO

E l'ira vostra

Scenderà così basso? egli è Giudeo,

D'Anacleto german, degno Legato

Della nuova repubblica: vedete

In chi risorge la virtù romana! —

Quanto cadea la vostra gloria in fondo,

Saper non voglio da macerie e sassi;

Nei vostri aspetti io lo contemplo, e voi

Siete di Roma la maggior ruina.

 

I LEGATI

Nunzi qui siam; ci rivedrai nemici.

 

FEDERIGO

Fuggite, dileguatevi, volate,

Ché fremono le schiere: io più non posso

Da loro assicurarvi.

 

I LEGATI

A fronte avrete

Roma e i Normandi.

 

 

 




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