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Carissimo Amico.
Alla vostra partenza, che ci divise, io restai impacciato negli amori di quella
Monaca a voi benissimo nota. Eromi imbarazzato per ceremonia, ma con tanta
difficoltà mi sono poscia sviluppato, che non senza ragione affermo essere
quasi pece questa affezzione. È un male attaccaticcio, ch'allorda, intrica, e
in ogni minima scintilla concepisce inestinguibile incendio. Esaggeri pur chi
vuole l'ordinamento de' più ben composti laberinti, ne' quali ad ogni passo
s'incontra inavvedutamente un laccio; ch'ad ogni modo sarà forza confessare
maggiore il ravvolgimento, con cui si confondono gli affetti, se pongono il
piede entro quelle crati di ferro. Considerisi di qual condizione sia
quell'amore, che deve imprigionarsi, quasi prima di nascere, e ne speri chi può
fortunati progressi, mentre quello vanta li suoi principii in un carcere. Raffigurano
que' ferri per appunto il cinto d'una gabbia, in cui però è molto folle chi
rinserra la libertà del cuore, a fine d'accompagnarsi con una bestia
indiscreta, la quale nel suo ozio ha per unico trattenimento il dileggiare, o
anche il tormentare amanti. Mentre sono racchiuse in luoghi sacri, né scorgesi
in esse anima di virtù, fa di mestieri il crederle cadaveri, onde nel
congiungersi con loro si pratticano que' più crudi patimenti, ch'in alcun tempo
inventar puote già mai la spietata fierezza de' più barbari tiranni.
V'assicuro, o amico, che chi pose li Carnefici sotto la disciplina di Cupido,
gli assignarebbe per scola li Chiostri di Monache, dove con particolare studio
si professa esquisitezza in schernire, o tradire chi capita nella rete delle
loro lusinghe.
La moltiplicità d'amanti ricevuta dall'avarizia delle meretrici è procurata
da queste tanto più sfacciatamente, quanto che a diversi nell'ora stessa fanno
communi le loro delizie, o per meglio dire li loro inganni. Cangiando luogo
variano affetti, e da' discorsi con uno, trapassando a favellare con altri,
replicano li detti medesmi, e fanno la scena stessa inalterabile delle solite
finzioni. Con tutti sono prodighe de' diletti, che lor permette la capacità del
luogo, gloriandosi d'adescare gli uomini, onde stimino il sommo de' piaceri
l'autorità di palpar loro una mano, di cogliere un baccio, rubbato per la
maggior parte da' ferri fraposti, e di veder talvolta quella carta, su la quale
chi ama giuocarebbe volentieri tutto il suo, non avvedendosi quanto facilmente
si tramuti, non lasciando altro avanzo che d'appetito. Se inoltra la
corrispondenza al permettere, conforme la mostra che si fa, il lavoro delle
mani, non inferiormente all'uomo adoperando l'amata le dita, queste sono le più
vaghe fatture di questo amore, e li più amorosi artificii, co' quali ei
componga le sue dolcezze. Quivi terminano tutti li più soavi godimenti, e
principia l'opportunità d'accreditare le più fine frodi. Que' frutti, il gusto
de' quali si valuta dall'apprensione, è spacciato alla presenza d'un amante, e
pure si vende da' pensieri all'affezzione d'un altro. L'intenzione degrada
l'opera, onde taluno sciocco, il quale la crede disegnata per sé, la paga con
molto dispendio a contanti d'affetto, e anche di regali.
Rinnovano li costumi degl'istrioni antichi, le rappresentazioni de' quali
consistevano in prospettive, e in gesti, mentre in questi amori comparisce
ciascuno a far scena del più dilettevole, e con le mani gestisce a suo grado.
Riescono le comedie di vago aspetto, ma gli atti sono manchevoli, mentre non si
può entrare in teatro, e si sodisfa solo a gli occhi, a' quali bastano le
apparenze. Sono violenze troppo crudeli, che necessitano l'uomo ad estenuarsi,
e distruggersi da sé solo, persuadendo pure di poter assottigliarsi, di modo
che penetrando per quelli angusti fori, vada a congiungersi con oggetto, che
con soverchia forza lo rapisce.
In questi gusti (lo confesso) m'invescai anch'io, là dove avevo posto il
Paradiso in somiglianti contentezze. Giudicavo brevi li giorni consumati in
adorare una di queste Parche, le quali troncano lo stame per amorosa morte,
senz'avere nelle mani il fuso. Vicino mai sempre a quelle crati per godere
l'aura del suo respiro, e per approsimarmi le fiamme, ch'ardevano nelle sue
guancie, rassembravo ambizioso d'accommunarmi quel carcere; potevo almeno
essere creduto avido di divorare quel ferro, ch'imprigionando la mia Diva,
vietavami il goderla. Avendo vicino il mio Sole, ma privato della commodità
d'abbracciarlo, pruovavo una rigida stagione. Quindi il serpe amoroso faceva
talora grande sforzo per intanare il capo della lingua nelle di lei labbra,
accennando il desiderio di procurar altrove ricovero anche alla coda. Ho
impetrata qualunque sodisfazzione d'apparenza, con offerta anche di meglio, quando
l'opportunità dell'occasione favorevole concedesse di schernire l'impedimento
di racchiusa prigione. Bisognavami ben sì compiacere alla di lei avarizia
ingorda d'acquisti, di modo che sollecitandomi con doni da nulla, mi
necessitava al corrispondere con molto. Affermo più interessati questi amori,
che dispendiose le libidini delle meretrici, poiché obligando al frequentare li
doni, fanno cambii di molta usura.
Oltre che non può disporre di sé, non che del suo denaro chi rapito dalle
loro frodi è consecrato a quella Divinità, ch'adorandosi appunto ne' Tempii
credesi non mai bastevolmente gratificata. Con arti studiate nelle loro Celle
ingannano talmente che si rende più difficile lo sfuggire le loro insidie,
mentre più accuratamente ne vengono tesi i lacci. In quella loro ritiratezza,
come somministrano materia alla propria disonestà con artificii di vetro, e con
le lingue de' cani, così con disgiustati pensieri si propongono varie forme di
scherni, e tradimenti. Dopo d'avere taluna lusingato in tal modo impuro
prurito, viene a sollecitarlo negli amanti godendo in quella sazietà
d'aggiungere stimoli d'appetito ad un famelico. Ma ceda ogni pena, e ogni
dispendio alla necessità di fermarsi tutto giorno ne' ceppi, a fine di servire
alla loro curiosità, ed esser loro passatempo di conversazione. Li discorsi
sono della malignità, della emulazione, dell'invidia regnante ne' chiostri, o
sono tessuti d'amorose freddure, ch'intirizzano quel misero, che sta ivi appeso
a que' ferri, quasi una statua. Mancandosi da questa schiavitudine un solo
momento, non mancano querele, e rimproveri, in guisa che fa di mestieri dimorar
fermo tra' nodi di quella catena, che assicura a' loro scherzi, e maggiormente
ravviluppa tra' loro inganni. In ogni breve lontananza abbondano al sicuro
messaggieri, e biglietti, li quali tutti sono polize di cambio per esiggere
alcuna cosa. Annoiano almeno con le loro vane sciocchezze in espressione d'un
simulato affetto. Ho scosso finalmente il giogo, avvedutomi della indiscretezza
della mia Furia, la quale mi dileggiava, mi tradiva, e mi tiranneggiava con le
sue lusinghe, trastullandosi nel tempo medesmo con altri tre o quattro, non so
se egualmente a me trattati. Queste date in preda alle più licenziose
dissolutezze, o con alcuna intrinseca amica, o da loro stesse solazzano nelle
proprie stanze; e dopo con assaporito il palato dalle dolcezze gustate si
conducono a' loro amanti, con simulati vezzi facendo inghiottir loro bocconi,
de' quali difficilmente smaltiscono la durezza. In somma il tutto consiste in
finzioni; e se anche non fingono, altro non resta per gli uomini che
compendiati tormenti, mentre fa di mestieri sostenere le punture d'un appetito
che non può compiacersi. Non può ottenersi di vantaggio che d'impastare alcuni
pochi gusti con le mani, ne' quali però non hanno il loro pasto li desideri,
non essendo cibo di nutrimento, mentre non possono stagionarsi entro l'amorosa
fornace. Non s'impronta la forma d'amoroso compiaccimento, non occorrendovi la
compressione degli abbracciamenti, e l'impressione de' baci, là onde il lavoro
delle mani ha solamente una non so quale superficiale apparenza di diletto.
Guardimi il Cielo dall'impaccio di questi amori, posciaché quanto si condanna
nelle femine sognato anche solo dalla imaginazione, che sempre compone contro
d'esse tratti di biasimo, s'avvera puntualmente nelle monache. Ciò serva
d'avvertimento a voi ancora: ch'io gustarò di rimuovere coll'esempio delle mie
sciagure tanta vostra infelicità, come godrei che a mie spese sortiste
l'incontro d'ogni desiderata contentezza, quale v'auguro; e per fine, etc.
«Se le monache — disse il Marchese — sono ad imitazione della ritiratezza
delle Vestali, non disdice che procurino di tener sempre piena la lucerna, e
stuzzicarvi adentro il lume, o con le dita, o con alcun'altra cosa».
«Il lume inestinguibile ch'a quelle riserbavasi — soggiunse il Cavaliere —
rassembra appropriato a queste nel loro insaziabile desiderio, il quale mai non
può estinguersi».
«Bisognarebbe — ripigliò il Conte —, in conformità di quelle sepelirle vive,
né ciò bastarebbe (cred'io) al levare il fetore, con cui nauseano già li nostri
secoli le loro impudicizie».
«Infelice quel terreno — parlò il Barone — in cui esse soggiornassero,
poiché essendo sotterra depredarebbero sin dalle radici con ingorda voracità
tutto ciò ch'indi potesse germogliare, o nascere».
Vollero proseguire ne' biasimi, e rimproveri dovuti alle femine ch'in
professione sacra contaminano lo stato, e il luogo, quando accennò il Marchese
avere maggior colpa in questi eccessi le impertinenze de' Padri, ch'a viva
forza sepeliscono ne' chiostri le figliuole. Quindi esse col fuoco della loro
libidine violentemente rinserrato, formano quegli scoppii, da' quali
s'inorridiscono li secoli con lo scandalo, e dirocca stranamente la riputazione
delle famiglie, e de' monasteri. Incolpando però queste violenze dalle quali
benché provenga anche talora alcun buono effetto riesce poco durevole,
lasciarono di rimproverare le donne di questo partito, le quali col solito poco
senno corrompendo l'apparente bontà, divengono sfrontatamente pessime.
Cessarono però d'esaggerare questa sciagura, deplorabile nelle più gloriose
Cittadi, ove tal chiostro di monache è più esecrando de' publici postribuli, e
degli antichi Lupanari di Roma. Fu proposta nuova lettera, e tale erane il
soggetto:
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