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Molto Reverendo Signore.
Ho appagata la mia curiosità ne' libri moderni inviatimi da
V.S., ma con mia poca sodisfazzione. Ritruovo molto che
osservare in essi, ma nulla di buono. Il nostro secolo dovrà dolersi degli scrittori,
che pretendono d'onorarlo con composizioni, le quali da' posteri, quando non
siano più ignoranti di chi ora vive, saranno schernite, e vilipese. Sono due li
punti principali, tra' quali si ristringeranno li biasimi communi. L'uno è
l'ingerirsi in trattati degl'interessi de' Principi d'alcun Frataccio, il quale
sa solo che cosa sia cucina, né tiene altra notizia di ragione di stato che
dell'Ius de' cuochi. L'altro è la corruzzione della lingua Toscana, mentre
ciascuno ne fa pompa nello scrivere, e nella prattica ne riesce nemico. Li
barbarismi, le improprietadi, li errori distemperano talmente con varia
dettatura e con ortografia volubile questa favella, che temo debba farsi
barbaro un sì perfetto linguaggio. Universalmente non può esprimersi da queste
opere alcuna sostanza, onde questo secolo de' letterati può chiamarsi la età
delle frascherie. Credo che la sferza degl'ingegni sarà usata dalla posterità,
per punire gli scritti de' viventi ora. Ma chi l'ha composta sarà qual altro
Perille fabricatore del Bue di bronzo, pruovando egli prima il flagello,
frustrato conforme il suo merito. Ben è vero che avvezzo a queste battute, come
a' colpi di pistolese, e di bastone, non pruovarà forse patimento, né si curarà
d'ignominie fatte già suo patrimonio. Oltre che fatto boia in atto di sferzare
gli altri, non può discapitare di riputazione, anche ottenendo un capestro. Non
sarà preservato quel Marchese imaginario uscito nuovamente alla luce, il quale
credo che chimerizi in se stesso dottrina, come finge l'onore de' titoli. Egli
ha preparato grande antidoto per riserbare all'immortalità li suoi scritti, ma
il veleno della sua ignoranza è troppo vigoroso, onde gli ha uccisi, quasi
prima della nascita. Egli ha moltiplicati da se stesso testimoni, che
appruovino la sua virtù, e componendo medicamento di mummia, col servirsi
d'autore morto già dieci anni, ha pensato di sanare il suo male, e darsi a
credere buon intelletto. Ma le lettere medesme d'attestazione, essendo quasi
maggiori del libro, dimostrano che l'autore ha più superbia, che cervello. La
sua dottrina deve credersi di quella razza che s'impronta con lettere, mentre
ne sono segnate le sue composizioni, o serviranno forse ad accreditarla, come
le scatole degli speziali. Non posso saziarmi di schernire la spropositata
affettazione di costui, in guisa che scorgendo il nuovo titolo di Marchese,
dommi a credere che la Pazzia l'abbia investito d'alcun suo feudo. Communque
ciò sia lo compatisco, quasi frenetico, e disperato nella infermità di poco
sapere. Condanno il poco giudicio degli altri, che dimostrando la vivacità del
loro spirito, non l'esercitano poscia come conviene. Ammiro l'ardimento di
molti anche tra' migliori, li quali non sanno come si parli, e vogliono
scrivere; non capiscono l'ortografia delle lettere, e presumono d'esser
eccellenti ne' dogmi del comporre. Corregga la loro ignoranza particolare
influsso di Nume letterario, e suggerisca giudicio per fargli risolvere di non
scrivere, o scrivendo di moderare così frequenti errori di lingua, insopportabili
a chi ha senso nel vedere inselvatichito il nostro idioma, da chi maggiormente
lo coltiva con lavoro degl'ingegni. Tanto conceda il Cielo al nostro secolo, e
a me fortuna di servire a V.S. alla quale m'offro per fine.
«Chi scrive — disse il Conte — sarà per certo un Cruscante, che nelle
osservazioni della lingua esercita la solita professione della Critica».
«Nello stesso lor nome — seguì il Marchese — mostrano la condizione del
proprio essercizio, mentre nello scrutinio delle belle lettere riserbansi la
crusca, forse perché d'essa si forma delizioso pasto a' porci».
«Ammiro — soggiunse il Barone — il lor capriccio di voler imporre legge al
mondo con la scelta delle loro parole tratte da' più rozi abitatori delle
montagne, quasi ne debbano convenire li discorsi de' villani con le
composizioni de' letterati».
«Stupisco assai più — ripigliò il Cavaliere — dell'antipatia di costoro con
l'h e della parzialità col z, in queste due lettere
principalmente consistendo il rigore, e la puntualità della loro dottrina».
«Non è maraviglia — replicò il Conte — stando che il z è necessario al
comporre il loro nome, sia come pazzi, o come visi di cazzo. Odiano poi l'h per
l'odio che portano al nome di Christo, tolto quando si levi l'h mentre sarà poco
diverso da crista, e cristiero, soggetti che tendono dove essi inclinano».
«Siasi del z come si voglia, io gli scuso — disse il Marchese — nel
particolare dell'h, poiché piace loro ciò che sta su'l necessario, e quindi in
conformità della natura abboriscono il superfluo, quale è questa aspirazione».
«Sète buon cane da usma per questi luoghi, o Marchese — conchiuse il
Cavaliere —, onde avete dato di naso nel vero punto, e ritruovata la ragione
della loro stravaganza». In questo dire apriva già altra lettera, onde subito
così lesse:
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