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Reverendissimo Signor mio.
Grande bisbiglio è stato a' giorni adietro in questa nostra Città per
l'avviso venuto che S. Santità abbia levate diciotto feste. Chi diceva che il
Papa aveva proibiti li Santi, chi aggiungeva che gli aveva banditi; chi in
somma in un modo, e chi nell'altro descriveva scioccamente questa novità. Se
avessero detto ch'egli aveva bandita la Santità, ciò non fora stata cosa nuova,
perché non altrimente ritruovasi esule da Roma la virtù, e ogni uomo da bene
per li di lui costumi, e per lo tirannico governo de' Nipoti. Ma il dire
d'avere esiliati li Santi, è un mostrarlo sì temerario, che abbia voluto porre
la sua autorità in Paradiso. Questi sono stati concetti di persone simplici, le
quali però al di più delle volte, mentre parlano innocentemente, discorrono con
verità. E dall'avere posto in scompiglio tutto il mondo coll'ingerirsi per
tutto altro non può credersi, se non che debba cagionare confusione anche in
Cielo. Chi ha intrapreso di travagliare tutti i Principi d'Europa, eccettuati
li nemici della fede, può giustamente stimarsi ora rivolto ad intorbidare la
gloria de' Santi. Se li nepoti fossero ansiosi di Beatitudine, come sono avari
d'oro, potrebbe credersi che usurpasse la gloria a' Santi, per appropriarla ad
essi, come già sono loro applicate tutte quasi le rendite della Chiesa. A tal
fine è sì longamente prorogata la vacanza di tanti Cardinali, e con tal
interesse forse d'una tirannica autorità, se non d'ingorda avarizia, pretende
di trattare anche li Santi. O forse presume di scacciar questi dal Paradiso,
per vuotare luogo a se stesso, e a' suoi, poiché colà su non saravvi stanza per
essi. Così è stata variamente interpretata la proibizione di queste feste,
osservata nel numero di diciotto, eguale a gli anni del Pontificato di S.
Santità. Concetizano sopra di questo gli speculativi, come se in ciascun anno
del suo dominio abbia discapitato la Chiesa, quanto deve stimarsi la perdita
d'un Santo. Diciotto Santi sono aboliti dal Catalogo, perché in diciotto anni è
decaduta diciotto gradi la Chiesa nel continuo mancamento della virtù, ne' mali
esempi d'un zelo tutto passione, e interesse, nel fomento in somma di schisma
per la rivoluzione di tutta la Christianità. Mancano tanti giorni di solennità,
quanti anni egli ha dominato, perché si mutano in giorni di pianto, e se più
longamente ei vive, si cangiaranno in secoli di miserie. Diminuisce
ragionevolmente le feste chi moltiplica le occasioni di gemere, non di gioire,
e se egli tosto non muore, credesi che sia per mancare ogni solennità, a fine
di riserbarsi più pomposa al celebrare li suoi funerali. Con somiglianti
sentimenti è stata confusa questa nuova, di modo che io stesso non so
distintamente assicurarmi che cosa sia, e quale sia l'intenzione di S. Santità.
M'avvisi Vostra Signoria Reverendissima con reale schietezza, ch'io a tanto
onore professarommi obligatissimo, quale appunto me le dedico; e per fine, etc.
«Quanto è deplorabile — disse il Barone — la condizione de' Grandi, li quali
soggiacciono alla malignità de' maldicenti, che con ogni peggiore strapazzo
conculcano la loro Maestà. Ha il Pontefice levate queste feste, a proffitto de'
poveri artigiani, accioché men di rado distratti dal lavoro, non abbiano così
frequenti le perdite del guadagno, con cui si mantengono. Ecco una azzione
diretta a publico giovamento, come empiamente viene scindicata!».
«Pretende forse S. Santità — soggiunse il Cavaliere — d'aggravare li sudditi
di contribuzioni, onde procura li loro vantaggi. Ma per giovar a' poveri, non
doveva levare le feste, ma levare li tesori superflui a' nipoti, rapiti dal
publico Erario della Chiesa, e dispensargli in loro sovvenimento».
«Orsù — ripigliò il Conte —, voi ancora annoverarvi volete tra quegli empi,
che biasimano chi deve adorarsi. Riserba li tesori della Chiesa appresso li
nepoti, quasi in deposito, per impiegarli in aggrandimento di lei, e in
occorrenza di rilievo».
«Forse nella conquista del Regno di Napoli — parlò il Marchese —, come
rassembrava publicato da falsa voce. Eh, questo nostro Pontefice non ha tanto
spirito, e ama troppo l'oro per non gettarlo, ancorché con speranze maggiori.
Basta bene ch'in sì longo Pontificato lasci memoria di grandi imprese nella
riforma del Breviario, e nel degradare la solennità di questi Santi».
«Concertate sì bene — ripigliò il Barone — con chi ha scritta la lettera,
che quasi caderei io ancora in questa consonanza, se non dubitassi di peccare
gravemente in questa mormorazione, poiché io tasteggiare più altamente, e
toccarci altre corde più sonore de' biasimi di questo Papa, trascurando le
bagatelle quali s'accennano da voi, soggeti solo da Pasquinate scherzose.
Volgiamoci in grazia ad altra materia, ch'altrimente su questo libro sarei
sforzato di cantare anch'io note d'ignominia».
Ciò dicendo aprì altra lettera, con la curiosità di cui rapita l'attenzione
de' compagni, gli distrasse dall'altra. Così era scritto:
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