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Illustrissimo Signor mio.
Ho mutata stanza, che però ne do avviso a V.S.
Illustrissima per assicurarla qualmente non è variata la mia servitù, e sempre
sto fermo nel desiderare li suoi commandi. Amai in Lucca, dove ero come ella
sa, una Dama maritata, la quale corrispose a' miei amori, e col premio de'
godimenti rimunerò l'applicazione de' miei affetti. Il marito era di poco
spirito, onde avevamo unitamente maggior lena per farlo becco. Osservò egli un
giorno in Villa in possesso della moglie li miei abiti, de' quali essa
avvalevasi talvolta per trattenimento, come bizarra. Congietturò ch'io fossi
addomesticato, dove lasciavo le vestimenta, e che dasse adito alla persona,
quella che tratteneva le vesti. Figurossi in questi le spoglie ch'io riportavo
da' trionfi del suo onore. Disperato di scorgersi quale non poteva negare
d'essere, partì per Roma; non avendo viso esente da' rossori dovuti a tanta
infamia, non avendo però né meno corraggio per abolire col ferro le sue
vergogne. Tanto più liberamente proseguirono le mie delizie; e quasi fiume nel
proprio letto non più pruovavo argine, che vietasse il condurmi sin al mare più
profondo di più copiose dolcezze. Mi tradì la fortuna nel sommo de' miei
contenti, mentre interessò il fratello dell'amata in mantenere la riputazione
della famiglia.
Essendo però della patria stessa che l'altro, non aveva cuore risoluto ad
onorate vendette. Accusommi appresso li secretarii, con protesta di non voler
precipitare li propri interessi, onde pregavagli di porvi rimedio, per esimere
lui medesmo dalla necessità di fare alcuno sproposito. A suo compiaccimento
ebbi ordine di sfrattare, e di partirmi di Lucca; il che esequii, vantandomi di
portare una sì gloriosa memoria della generosità de' Signori Lucchesi. Andai
alla villa della Dama, ove in effettuazione del publico castigo m'ho presa più
volte una volontaria morte, da cui però risorgendo secondo l'ordinario degli
amanti, riducevomi prigioniero nel di lei seno, per assoggettirmi di nuovo a
quella mortale sentenza. Ora mi trattengo quivi, dove l'onore de' commandamenti
di V.S. Illustrissima è la maggiore felicità ch'io auguri a
me stesso; con che per fine, etc.
«Sono corraggiosi, e prudenti — disse il Conte — li Signori Lucchesi, onde
senza proprio pregiudicio, sanno in tal modo facilitarsi le loro vendette».
«A me ancora — soggiunse il Barone — è occorso che mentre in Lucca appunto
godevo una Vedova mia vicina, da' di lei parenti furono mandati li sbirri a
fine di rimuovermi con simile bravura da quegli amori; ma portò il caso che non
mi colsero, e io feci loro le fiche con le dita, in loro scorno».
«E che volete? — ripigliò il Marchese —: una così picciola Republica ha
poche teste, in conseguenza pochi cuori, onde per suo mantenimento fa di
mestieri che procurino di conservarsi la vita».
«Sono loro necessari buoni capi da governo — parlò il Cavaliere —, quindi
conviene loro l'avere giudicio grave, per ben pesate risoluzioni, non però
ricusano la gravezza delle corna».
«Non c'intrichiamo con questi Signori — replicò il Conte —, perché ora sono
scommunicati, e in disgrazia di S. Santità. Oltre che con la riputazione, quale
acquistano in questo negozio, sepeliscono ogni altro loro disonore». Prese
quindi altra lettera, e così lesse:
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