4 - LETTERA DALLA PRIGIONIA
Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor mio Parente, e Padron
Colendissimo.
Le ultime di V.E. nelle quali desidera informazioni del
mio stato mi son capitate tardi. Avranno però occasione d'incontrar nella
risposta una relazione delle mie calamitati, le quali dovranno compassionarsi
da lei, come infortuni d'un suo parzialissimo servitore, non meno che
affettuosissimo parente. Sappia dunque V.E. qualmente sono
già due mesi ch'io sono prigione, o per meglio dire dannato, e quanto ne'
costumi sono più diverso da Cristo, tanto ne' patimenti li sono fatto più
simile. Non mi manca ormai altro che la Croce, per confrontare le mie pene
all'originale della di lui passione. Ma forse questa longa prigionia è più
tormentosa d'una breve morte, ancorché crudele. Contro di me se non è seguito
il Concilio adunato contro di Cristo, sonvi state almeno le massime in quello
proposte, a fine di determinare quel Sacrilego eccidio. Hic homo multa signa
facit. Forte venient Romani,
et tollent etc. La
invidia degli emuli, che non pativano l'aura di quella poca fama, quale
acquistansi quasi miracolosamente le mie debolezze, ha fondata la malignità.
L'interesse di stato, per non irritare il dominante tra' Romani, le fomenta,
come dichiararà meglio a V.E. la forma dell'esecuzione. In
questa non riferisco un Giuda, poiché in questi tempi è più difficile il
ritrovare un Apostolo ne' Collegii di tanti Giudi, di quello fosse in altri
secoli estraordinario il trovar un Giuda tra gli Apostoli. Fui preso doppo
desinare, come Cristo doppo cena, né la differenza pregiudica al confronto,
poiché ugualmente si piglia ne' S. Evangeli desinare e cena con indifferente
proporzione. Seguì per appunto allor che, doppo il colloquio con alcuni amici,
eromi ritirato nella mia stanza, come quegli, doppo il ragionamento a'
Discepoli, erasi ritirato nell'orto. Precedette il segno in aggiustata
conformità del bacio di Giuda, mentre da uno, che precorse li satelliti, fui
fermato in casa, loro preda, con amichevole pretesto d'obligarmi all'attendere
un certo Cavaliere, il quale desiderava d'abboccarsi meco per suo piacere.
Sopragionto dunque d'improviso, fui imprigionato; né in corto viaggio di terra
scorse la opportunità d'alcun strapazzo, poiché in quello delle acque dovevo
con maggiore verità figurarmi il traghetto di Caronte, e il passagio all'onde
Stigie. Non poteva apparire falsa la imaginazione mentre l'oscurità del luogo
in cui mi fu assignato il carcere poteva ragionevolmente effigiarmi il regno di
Plutone. Non fui strascinato da un Tribunale all'altro, accioché fossi privo di
godere anco quel poco di felicità ch'arroccarmi potevano alcuni, se bene brevi,
momenti di luce, o pure a fine di tormi totalmente ogni speranza di
giustificazione, onde aver potessi la certezza d'esser condannato. La mia
innocenza però non ha avuto miglior sortimento di quella di Cristo. Tutto il
fondamento consiste nell'Ecce duo testes deposuerunt etc., parole
compendiose nelle quali ristringesi sommariamente tutto il processo.
L'accusatore è Monsignor Nunzio di S. Santità il quale mi ha rappresentato a
questa Serenissima Republica coi titoli più opprobriosi di bestemmiatore e
sedutore di tutta la Cristianità contro il Pontefice. Ratifica le sue accuse
con imaginati pretesti d'un libro uscito in luce senza mio nome, ma però
confuso con un miscuglio di lettere, che altre volte furono mie, e di altre
aggiunte, le quali sostengono la querela. L'accusatore però, come zelante
Ministro del suo Padrone, e come finto conservatore della fede commune, si fa
Capo della Turba nel gridare contro di me Crucifigatur, accennandomi
degno di morte. Né mancano invidiosi, o altri suoi aderenti li quali esclamano
a voce piena Crucifige, crucifige. Non manca quivi, ancora, la
competenza meco d'un Barabba, quale di consenso del Nunzio medesmo si licenzia
e lascia in libertà, e questo è lo Stampatore, che chiaramente colpevole nella
publicazione di tal libro, doveva portare la pena di tal contrafazzione al
publico Decreto. Né basta alla tirannica crudeltà di quello il vedermi
mortificato, se non co' flagelli come Cristo, con gli affanni d'una sì longa
prigionia, tra' più orridi patimenti che possano circonscrivere l'Inferno. Come
allora per Cristo diventarono amici Erode e Pilato, non altramente rassembra
ch'io fatto pegno di sodisfazzione a S. Santità, serva a dimostrar di
rappacificazione e di buona intelligenza tra questa Republica e il Pontefice,
tra' quali sono continuati mai sempre effetti di poco buona corrispondenza.
Quindi a suo grado mi trattengono questi S.S. tra
intolerabili orrori, e se bene la giustizia loro, come invariabile, risponda con
Pilato Nullam causam invenio, mentre non posso esser convinto reo, o
quando anco fossi convinto, non tengo colpa la quale debba da loro punirsi: con
tutto ciò il Capo della Turba accennato persevera ostinatamente in gridare Crucifige,
e l'interesse di stato esclama anch'egli Si nunc dimittis non es amicus
Caesaris, cioè a dire del Papa. Quindi questa Republica vedendo contrario
dogma a buona politica l'attacar brighe, o anche il fomentare diffidenze, per
una persona privata, che nulla finalmente a lei s'aspetta, concorre in quella
sentenza, Expedit, ut unus homo moriatur, o almeno patiatur ne tota
gens pereat. Condescende però alla volontà di chi vuole vedermi tormentato
e, fieramente barbaro, gode che io mi strugga, dove longhi tormenti sono pena
superiore ad una sùbita morte.
In tali termini è la mia causa, che in non diversa forma ha condotte le
turbolenze maggiori ch'io già mai temer potessi sotto infausto Cielo. Sono
originate da una invecchiata malevollenza, con cui è ricevuta in Roma la fama
del mio nome, e molto più le mie composizioni. Molte però di queste sono colà
vietate alla lettura de' curiosi, con segno di poco ben affetta inclinazione
più che di qualità da cui possa offender chi legge. Ha dipendenza questa mala
volontà dalla svisceratissima affezzione quale ho sempre publicamente
professata a questa Republica. Ne fu palese dimostrazione il Panegirico, in cui
li primi abbozzi della mia penna, ancorché imperfetti, non però vili per esser
primizie, furono consacrati alle di lei glorie; sono state non meno evidenti,
dove scorgersi potevano meno affettate, altre dichiarazioni di simili
sentimenti d'ossequio, in particolari discorsi, ne' quali procuravansi da
persone maligne li biasimi di sì glorioso dominio. Ho avuta occasione di
contradire a molti aderenti del Pontefice, e rispondere ad alcune Scritture che
offendevano la riputazione di questi prudentissimi Signori, per rinversare
sopra di esse colpe né meno imaginate. Ho incontrata questa fortuna di
significare in tal modo la mia disinteressata osservanza, in Genova già due
anni, a fronte d'un Ministro di S. Santità abitante in Ravenna, da cui si
publicarono Scritture, non so se sue o, come altri dissero, inviategli da
Monsignor Vitellio, ora mio accusatore, il quale e contro la Republica e contro
la Corona di Spagna trattiensi in queste prattiche. Non altrimente mi è occorso
in Germania col Secretario del Residente Legato colà appresso
S.C.M. con cui, e in voce e in carta, esercitai non meno la
lingua che la penna in difesa di questa invariabile prudenza, fatta esemplare
immitabile d'ogni ben più regolato governo. Dalle relazioni di questi sonosi a
mio credere ingrossati li maligni umori contro di me in quella corte, d'onde
però scaturisce quella putredine che ora corrompe la mia felicità. Questi fabri
delle mie sciagure sopra la tela d'un certo mio libro, sospeso già due anni nel
punto della stampa, dalla auttorità di chi poteva impedirla, hanno formato un
riccamo a lor modo, imponendomi una aggiunta infame, postavi forse da loro
stessi per giustificare le occasioni di perseguitarmi. La materia del mio
lavoro, che era diversità di lettere curiose, ha lasciato campo a costoro in
guisa che possono far apparire quasi intessuto da me ciò che nell'opera mia è
stato inserto da altri; e come è verisimile che pretendendo io publicare
composizioni tali, quali mi s'ascrivono, io non avessi effettuato ciò in
Germania, dove la libertà nel credere e nell'operare poteva rappresentarmi
qualunque più opportuna commodità? Mi trasferii in quelle parti immediatamente
doppo che fumi impedito di dar in luce il libro, là dove vedersi potrebbe che
allora incontrando la licenza del paese avessi voluto sortire
avvantaggiosamente il compimento del mio desiderio, e romper il freno che
m'imponevano le altrui proibizioni. Pure ho dimorato in quelle parti per lo
spazio di sedeci mesi, nel mezzo delle maggiori commodità nelle quali potevo
approffitarmi, né mai ho sviscerato questo capriccio, che ora vogliono gli
emuli siasi da me mandato ad effetto in due o tre mesi; che tanti sono dal mio
ritorno di colà sin alla prigionia, in questa Città nella quale i rigori de'
publici Decreti dovevano promettermi difficile e periglioso l'esito. Chi vedrà
il volume da me composto, e dato in luce nel corso di questo tempo, giudichi se
l'ozio m'ha forse sollecitato ad altre vane occupazioni. L'infortunio di questa
mia causa, è la incapacità di prove che mi discolpino. Di ciò che non è, può
affermarsi solo il non essere. Quanto meno posso schermirmi, tanto più mi
feriscono li persecutori, seducendo alcuni pochi li quali attestino a lor
grado. Non bastano però di produrre ad ogni loro potere quell'arma, che
potrebbe abbattermi mostrando la mia scrittura, ancorché forse abbiano tentata
in alcuni la imitazione dello stesso mio carattere per non lasciar modo alcuno
d'atterrarmi. Ma le loro malvagità e menzogne non possono non zoppicare, e il
mancamento di questo sostegno agevola il precipizio alla loro malignità. E pure
dovranno li manuscritti apparire appresso allo stampatore, quali procurarebbero
di far trascorrere a mio danno, come con altri vani mezi si sforzano
d'avantaggiare li propri disegni: li fingono aboliti, per non esser necessitati
di confessarli non miei, onde succeda l'esser false le loro accuse. In questo
mentre scorre la mia fortuna in termine di ragione di stato, per sodisfazzione
di S. Santità. Non posso esser convinto, ma non meno posso apparentemente
sincerare li sospetti, per la uniformità dello stile che mi condanna. Né
opinione sì ben palliata di verità può facilmente ritrattarsi avanti de'
Tribunali, facendo di mestieri formare un discorso, quasi tra Accademici più
che alla presenza di Giudici, nel provare con moltiplicati esempi, e
attestazioni d'antichi Scrittori, l'aggiustata conformità delle composizioni.
In queste ravvolte basta alla iniquità del mio destino lo strozzarmi, onde
mancando ogni aura di respiro provo una vita suffocata al buio di queste
miserie.
E accioché ne abbia Vostra Eccellenza alcun saggio di cognizione, le
circonscriverò brevemente, ancorché il compendioso ristretto di questa
infelicità sia l'essere inesplicabile. Queste prigioni possono chiamarsi vivi
sepolcri, e per l'angustia loro, e per la profondità del sito, e per le tenebre
continuatamente durevoli. Hanno di meno d'esser tombe de' Cadaveri il non esser
imbiancate al meno, e in apparenza abbellite, sì che inorridisce anche la
rozezza de' marmi de' quali sono composte. Hanno di più l'essere capaci di
patimenti, là dove ne' sepolcri a chi entra si toglie il senso per non più
patire. Può dunque più fondatamente dirsi che siano vivi Inferni, ne' quali
precorrendosi l'universale giudicio, con le pene de l'anima congiongonsi anche
li tormenti del corpo. L'oscurità, non allumata che dolorosamente dal fuoco, si
rassomiglia a questa, ch'altro lume non gode di quello che dalla fiamma
proviene di lucerne. E ben risplendono solo faci, ove si compiscono solamente
uffici d'essequie per l'estinta e sepolta felicità. O pure in conformità di
que' popoli che collocavano appresso de' loro morti nei sepolcri lume e cibo,
simili trattamenti si concedono a' miseri imprigionati. Convincono però come
falso questo credito detto di tomba le esclamazioni e le grida proprie di
disperati mentre, senza veder alcuno, odonsi solo le voci, affiguro per appunto
le querele delle anime de' dannati, ch'invisibili all'occhio fanno sensibile
con le strida il loro supplicio. E le giuro che tal volta, mentre fuori di
queste cave parla alcuno, parmi udire intronati quegli accenti sin nei più
profondi abbissi, onde risuonando questi marmi, fanno un lagrimevole eco di
compassione. Quando S. Paolo participò la gloria del Paradiso rapito al terzo
Cielo, riferisce d'aver veduto cose delle quali non era lecito parlare. Mentre
quivi si parla con chi non può vedersi, è necessario conchiudere queste carceri
il contraposto del Cielo, quale è per appunto l'Inferno. Che se di colà qui
vogliono alcuni si veda da' dannati la suprema Beatitudine a lor maggior
confusione e dolore, e fondasi questo parere nella parabola del Ricco Epulone,
quivi pure lo stesso ci si rappresenta nella figura quadrata, che secondo le
revelazioni dell'Apocalisse è tra' Cicli figura particolare dell'Empireo. Èvvi
di più, che come a Mosè ordinò Iddio di prender per occhiale il buco d'una
pietra, allor quando egli si dimostrò ansioso di vagheggiarlo, così e non
altrimente ci si concedono in queste angustiose miserie che due sferici fori,
donde possono li sguardi licenziarsi da queste angustie allo scorgere l'Idolo
della bramata libertà. Ma anche questa figurata specie di creduta contentezza
inganna, mentre queste aperture non trapassano ad altri oggetti che alle più
orride tenebre, alla vista de' sventurati che nuovamente sopragiungono, o al
riguardare la canaglia delli Guardiani, demoni custodi delle nostre sciagure.
Se si concedesse il consorzio di fanciulli innocenti, avendosi alcun
sollevamento, queste prigioni credersi potrebbero in vece d'inferno il Limbo,
poiché quivi per altro né caldo né freddo approvano la diversità delle
stagioni, o nelle intemperie di spietati influssi varietà di tormenti;
communque ciò sia, bastami che concordando il fine di questa lettera al
principio, posso chiamarmi in questo stato quasi che conforme a Cristo,
avverandosi di me il Passus et sepultus est, et descendit ad inferos.
Aspetto il resurrexit tertia die. Né per la divinità di quello stimo
temerario 'l paragone, poiché quivi ancora con concetti di deità si vive,
mangiandosi sopra de' letti, come usavasi cogl'Idoli Antichi, e per la
secretezza del luogo, e per mancamento d'altre comodità. O in più verso senso
usurparsi possono concetti divini, mentre arde mai sempre, e giorno e notte,
avanti noi una lampada accesa; non permettendosi che oglio, o tal volta alcuna
candela di cera, come s'accostuma ne' Tempii in riconoscimento della Suprema
Maestà di Dio. Ma pure mentre sono sepolto vivo, al mio Resurrexit non
si ricerca sopraumana virtù, bastando ordinario favore della Giustizia di
questi prudentissimi e benegnissimi Signori, dalla benignità dei quali spero
che in breve s'imporrà fine a questo miracolo d'una barbara fortuna. Desidero
presta libertà, sì per essere questa il bene maggiore e più desiderabile di cui
ci si conceda l'usufrutto in questa stagione della nostra mortalità, sì per
esser sciolto alla servitù de' miei Padroni, tra' quali io raffermo il
principal luogo a V.E. come suo.
A dì 10 Novembre 1641
Cugino e servitore parzialissimo
Ferrante Pallavicino
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