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Illustrissimo Signore.
So che la mia Casa ha sempre riconosciuto ogni suo avanzamento su la base
de' favori di V.S. Illustrissima. Quindi per non cangiar
meta alle obbligazioni de' miei posteri, ho determinato ricorrere a lei,
nell'occasione che mi si rappresenta d'avvantaggiare le mie fortune. Da uno
sbirro mio amico, intendo qualmente costà s'attende la vacanza dell'ufficio del
Carnefice publico, per una infermità pericolosa che trattiene in forse la vita
del presente. Desidero d'essere sostituito in questa carica, né ho saputo
prommettermi questo compiacimento con l'impiego d'altri che di
V.S. Illustrissima, la di cui autorità conosco in eccesso
abile al promovermi dove desidero, quando non manchino gli soliti effetti della
sua gentilezza. Attenderò un tanto onore dalle sue mani, prontissimo a
contracambiare la grazia col riservirla, conforme le mie forze, e con ciò
facendo fine, riverente le baccio le mani.
«Se avesse scritto — disse il Marchese — di riservirlo secondo la sua
professione, era una gentile promessa d'appiccarlo a prima occorrenza».
«Oh che felice incontro — dissero tutti sorridendo —. Per primo negozio
abbiamo sortito lo scuoprire i traffichi d'una molto onorata ambizione».
«Non vi maravigliate — disse il Conte — perché simili dignitadi in Milano,
dove è scritta questa lettera, truovano molti rivali. Sono alcuni anni che
truovandomi colà io stesso, in occasione d'una simile vacanza, seppi che furono
presentate in Senato diciotto suppliche di pretendenti».
«E come — ripigliò il Barone —, sono in quella tanti furbi, e ladri, che
pure dovrebbero atterrirsi dalla quantità di questi, ch'aspirano ad un
Magistrato così rigoroso per loro?».
«Anzi — rispose il Cavaliere — la quantità degli scelerati cagiona la
moltitudine de' concorrenti. Nel procurarsi questo onorevole impiego sperano
per esso di preservarsi dal meritato castigo».
Fu conchiuso questo motteggiare con un riso commune, a cui succedette la
lettura d'altra lettera del seguente tenore:
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