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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Ingrata.

Non mi bastano i rimproveri, i quali ti lasciai per ultimi saluti nel mio partire, perché uno giusto furore non così facilmente s'appaga. Inviai contra te la lingua, foriera de' miei affetti, che t'annunziavano i sentimenti del cuore sdegnato. Ero inquieto in me stesso, se alle proprie vendette non permettevo il concorso anche delle mani. E perché è viltà l'impiegarle in ferire o offendere una donna, è stato di mestieri compiacere a me stesso coll'usarle in lacerarti con la penna; se pure sei capace di scissura, fatta tutta cenci d'infamie e dissipate reliquie di vituperio. So che ti beffi di questo mio sdegno: come che la femina mai non si duole se non piange con stille di sangue, e già le ordinarie lagrime sono liquore d'inganno e trattenimento della simulazione. Godrò nondimeno di publicarti sola cagione onde, fatto appresso di me abominevole il tuo sesso, m'ha necessitato al decantare una palinodia d'ignominie, quale vedrai descritta in questo foglio, quando tu non sia insensata come sei irragionevole. Dalla tua ingratitudine, fatta ultimo limite di pessimi costumi, ho appreso che la donna altro non ha d'umano che il volto, per mentire anche non parlando, e per avvertire qualmente non devono attendersi che frodi da chi inganna a primo aspetto. Communica nel genere con l'uomo, appropriandosi anzi tutta la bestialità che può seguire l'esser animale. Ma in ragione di differenza essa non ha punto di ragione, perché, senza senno, opera quasi bruto, non quasi ragionevole. Non conviene in somma con l'uomo che nella declinazione dell'hic et haec, in contrasegno che voi femine siete a noi congiunte solo per avvilire le nostre grandezze, e far declinare la nostra felicità.

Altrimente, se si ricercano Sfingi, Pantere, Tigri e altre fiere o mostri, basta una donna per offerirci, unite in un supposto, le più crude belve e le più bestiali nature. Nel tuo sesso non ritruovasi per ordinario altra potenza ragionevole che la volontà, dominata talmente dalle passioni ch'è fatto infallibile asioma il dire la donna essere senza giudicio. Quindi o sfrenata nella libidine, o sregolata ne' furori, non ha mezo termine, in vigore di cui segua conclusione d'umanità. Allor quando con miti sembianze, con teneri vezzi, con gentili maniere, a credere d'aver furato alcun saggio d'essere umano, dicasi pure che, rapite alla Sirena le lusinghe, usurpate d'altra fiera le frodi, veste abiti d'inganni per compire tradimenti. Qual Polpo che si cangia in iscoglio per facilitarsi la preda, si tramuta quella con apparenze d'uomo per agevolarsi il mentire.

E quale è la ragione per cui gli amanti, nelle loro operazioni, hanno imposta necessità di circonscrivere il proprio essere con termini che dinotano privazione d'intelletto? D'onde procede in essi il vivere senza legge, perché sono senza ragione, fatti però meritevoli di vedersi condonato ogni fallo, come a' mentecatti e privi di senno? Non altronde, al sicuro, che dall'aver inserti ne' loro petti, per forza d'amorosa trasformazione, i cuori delle donne amate. E in qual modo, avendo cuori non collegati con vita intellettuale, potranno vivere in atti ragionevoli? Misero quell'uomo che, facendo sua anima una femina, fa sua essenza affetti di bestialità, ed effetti di pazzia. Deve credersi ch'ella, sin dal nascimento pratticando la proprietà d'appigliarsi al peggio, delle due urne poste al soglio di Giove, nell'uscire dalle sue mani, prenda quella del male, e tutto l'assorba. Quindi con l'ostinazione variando la dipendenza dell'intelletto e della volontà, mentre questa, dominante per i suoi disordinati costumi, s'apprende al male, fa di mestieri che quello pure appruovi ciò solo ch'è contro ragione.

I semi della prudenza infusi nelle umane menti, come diceva quel saggio, quando s'inseriscono nella donna, sono investiti d'una natura tanto corrotta, che producono frutti molto dissomiglianti dall'origine. Che se il vero uomo, cioè a dire il perfetto sapiente, ha per trono una pietra quadrata a fine d'accennare i pregi d'una immutabile constanza, invariabile base dell'eternità dovuta al suo merito, non potranno queste glorie aver seggio nel tuo sesso, tanto volubile e inconstante che la fortuna, unico vento da cui si sconvolge il Mondo morale, per sembianze d'inequietudine, fu vestita di spoglie feminili.

Ma pure il concedere nelle donne quell'intelletto, che non può negarsi, per avere elleno ancora anima individua della nostra specie, ci obliga al credere, secondo la dottrina di Pittagora, che l'intelletto sia il nostro Genio; sì che chiamar potremo la donna il Genio reo, in contraposizione del buono. E se il titolo di Genio reo s'appropria a' Demoni, destinati a rimuovere ogni nostro bene, fattici guida ma a' precipizii, non sarà che ben detto delle femine, per le quali, precipitando ogni ora, l'umanità rimira disperse le sue grandezze negli abbissi ne' quali terminano le sue cadute. E per non lasciare che traballi il discorso su fondamenti non assodati, dimmi, in qual tempo già mai, o in quale stato, non sono le femine un mobile Inferno, giurisdizzione pur troppo stabile delle disgrazie, per continuare contra l'uomo i tormenti e le pene?

Nella gioventù, se sono amabili tormentano, se odiose annoiano, se amano tiranneggiano, se non amano uccidono. Se vivono da noi lontane angustiano i nostri desideri, se vicine si fanno sensibili con molti affanni. Ciò che le rende aggradite le fa altiere; se non hanno onde insuperbiscano, sono sprezzabili. Quando sono belle sono crudeli, quando diformi lascive; onde chi le brama languisce, chi esse desiderano geme travagliato dall'importunità delle loro persecuzioni. Se mancano d'esser inumane, non lasciano già d'essere superbe e avare; e se non smungono le vene, svenano borse; e quando anche ricusino di vedersi a' piedi cadaveri giacenti, si gloriano d'avere prostrati supplichevoli.

Nella vecchiezza poi, con molto maggiore discapito della ragione, concertano la perversità de' costumi co' progressi del tempo, che nelle rughe va ristringendo a bell'agio que' lusinghieri apparati ch'ad alcuno incauto le persuasero un teatro della nostra felicità, e un campo fertile delle umane contentezze. Al crescere degli anni, o avanzando l'infamie della loro professione, o infamando d'avvantaggio i propri desideri, mostrano che s'è increscapata la deformità del volto, a fine di rinforzarsi in questa unione, onde s'impedisca un mentito riflesso delle qualitadi dell'animo nelle menzogne d'un vano e artificioso lustro. Fatte ambasciatrici d'amore, danno a vedere qual fosse il loro giudicio, che maturato dal tempo ha meritato così principale impiego nel Regno delle dissolutezze. Si scorge da qual abito invecchiato abbiano in quella età comperato l'argento della canizie, per ispenderlo in tributo delle disonestadi, come pure andarono dispergendo l'oro di bionda chioma. Ne' prestigii pur anche e nelle superstizioni, fatte ministre più intrinseche nel Regno de' Demonii, fanno apparire il merito ch'appresso tal regnante ha potuto avanzare tant'oltre cogli anni la loro condizione.

Quando con le bellezze degli anni giovenili hanno perduta l'autorità d'essere Fiere nel lacerare i cuori, divengono aderenti delle Furie, per concorrere con maggior forza a gli altrui danni. È pur vero che le Circi, le Medee, le Meduse, e le Megere, furono, se non vere femine, veri simolacri di quelle sembianze che seco porta la donna. Ciò ben connobbe la prudenza degli antichi Romani, i quali vedendo comparir nelle publiche piazze avanti i tribunali una femina s'atterrirono, quasi a vista d'infausto prodigio, e ricorsero per rimedio d'un tanto terrore all'Oracolo. Mercé ch'in pregiudicio dell'umanità, essendo pessime le donne più che i corvi, augurano non altro che affanni, e sciagure.

Ho lodato mai sempre il paragone della femina con la vite, come che quest'albero anch'egli è apprezzabile nel solo punto della fecondità, oltre di cui non ha altro privilegio che l'essere riserbato alle fiamme. Quindi, vivendo, non sa che piangere, forse in quelle acque preparando diluvi da' quali s'estinguano gli ardori che sa di meritare. Ed ecco l'attitudine del tuo sesso al lagrimare a fine di truovar varco alla simulazione, onde o naufraghi l'altrui durezza, o giungano in porto i suoi desideri. E in allusione cred'io a questa somiglianza, punivansi da' Romani i loro Cittadini con verghe di vite, seguendo forse i documenti del Cielo, ch'a gli uomini, Cittadini di questo Mondo, non si rappresenta in atto di castigo con più crudi flagelli che di questa vite animata; non avendo noi maggiore tormento che la congiunzione o simpatia con la donna. Né può negar costei d'essere vite, mentre come questa appunto avvitticchiandosi fatta tutta lacci e tutta funi, serve solo al legar l'uomo e ad imprigionarlo. È però compatibile in questi legami, mentre viene commandata dalla necessità di procurarsi sostegno, per non rimaner orfana d'ogni pregio e grandezza. Infelici donne se, non sostenute dall'uomo, non avessero questo appoggio alla propria fiacchezza, per non traboccare ad ogni momento, come cieche o pazze, in mille precipizii. Ciò intesero le donne Tartare, le quali usavano di non riconoscere su'l loro capo maggior addobbo, né più prezioso ornamento, che la forma d'un piede umano, per significare che la femina, essendo senza cervello, e priva d'ingegno, non ha gloria maggiore che la sogezzione all'uomo. Con segni di questa, in figura d'essere calpestate, onoravano la più nobile parte di loro stesse, non così sciocche come le altre, che la fregiano co' tesori d'un sepolcro depredato o l'aggravano con intrecciate catene, popolate di gemme.

Ma pur è vero ch'ingrate e tiranne, se non altronde lice loro prendere lo scettro sopra l'uomo, fondano un orgoglioso dominio su l'impero di fugace bellezza, per travagliarlo sotto il giogo d'un indiscreto commando. Volubili mai sempre, e inconstanti, strascinano dietro a' loro variabili voleri que' cuori che da maligno influsso ricevono in pena l'obligo d'assoggettirsi a' loro spietati rigori. Non è facile truovar meta a' rimproveri che merita la perversità feminile, tanto più empia quanto più, palliata sotto lusinghiere menzogne, con ipocrita sincerità tradisce gli affetti più fedeli. Dalla tua conversazione ho appreso qualmente, anche nel sommo de' vituperi, fa di mestieri confessare scarsezza di biasimi quando si condanna una donna. Non m'estendo più oltre, non perché bastevolmente sia sodisfatto il mio sdegno, ma perché non voglio più a longo mantenere ne' miei pensieri quel tumulto con cui sconvolge ogni mia quiete la memoria de' tuoi tradimenti. Ho descritti que' motivi da' quali può rendersi aborrito il tuo sesso, accioché t'assicuri d'una volontà totalmente pervertita in odiarti. Rimanti con quella pace ch'a me ha lasciata la tua ingratitudine, e siano perpetue le pene dalle quali ti si rinfaccino i miei benché brevi tormenti.

 

«E pur una voltadisse il Conte — è compito questo processo, ripieno di tante veritadi quante sono le accuse contra le femine».

«Tutti — disse il Cavaliereaccusano le donne, ma non ritruovasi chi le condanni. Può dirsi che vadano universalmente al paragone dell'adultera del Vangelo».

«La cagione di ciò è in prontosoggiunse il Barone —. Hanno facile il far corrompere gli uomini, onde come giudici corrotti falsificano la sentenza, favellando a proporzione di ciò che s'usa ne' tribunali».

«Questi tali — ripigliò il Marcheserassomiglio a' gatti, che con tanta diligenza nascondono le proprie immondezze, per sepelirne il fetore. Non altrimente chi più ama le donne occulta, sotto sembianze di sdegno, il fallo di questi amori».

«Quindi succedereplicò il Marchese — che gli uomini grandi e che si vantano di maggiore autorità e sapere, a fine di sfuggire l'obligo di rigoroso pentimento per simile errore, collocano gli affetti in altro sesso».

«Orsùconchiuse il Cavaliere —, non entriamo in Roma, cioè a dire in amore al roverscio».

In questo mentre trascorse cogli occhi ad una lettera diretta alla Republica di San Marino. Fu commune l'applauso alla sodisfazzione che n'attendeva la loro curiosità. Lesse nel sovrascritto: «All'Illustrissima».

«Può far il mondo! — disse il Barone —. Ha errato costui su'l bel principio, dovendo scrivere: «Alla Serenissima», come a quella gran Principessa che si nomina sorella della Republica di Venezia».

«E che pensate? — rispose il Barone —. Stimate forse quella Republica superba al pari di quella di Genova? Forse que' Signori, interessati più nell'agricultura che nell'ambizione, ricusano Serenità, desiderosi di pioggia».

«Non beffatesoggiunse il Marchese — que' grandi, i quali nelle insegne pareggiano gli Dittatori de' Romani, da' quali si portavano le securi, che però le portano anch'essi per tagliare legni e alberi, secondo la necessità e l'occasione».

«E non vi ricordatereplicò il Conte — de' Regi di Babilonia, i quali nella sommità dello scettro portavano un aratro? In conformità di che ciascuno d'essi dovrà chiamarsi Re, guidando ogni giorno ne' campi l'aratro».

«Non posso tacere, in avanzamento delle grandezze di costoro — ripigliò il Cavaliere —, che gl'Imperatori antichi passavano dalla zappa allo scettro, e dall'agricoltura al commando, dove tutti gli ministri di quella Republica devono riconoscersi come Imperatori, mentre è ordinario questo loro passaggio dalla zappa allo scettro».

Avrebbero longamente continuato questo discorso, se il fingersi trattato di rilievo in quella lettera non gli avesse sollecitati al leggerla; truovarono però che così diceva:

 




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