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Ingrata.
Non mi bastano i rimproveri, i quali ti lasciai per ultimi saluti nel mio
partire, perché uno giusto furore non così facilmente s'appaga. Inviai contra
te la lingua, foriera de' miei affetti, che t'annunziavano i sentimenti del
cuore sdegnato. Ero inquieto in me stesso, se alle proprie vendette non
permettevo il concorso anche delle mani. E perché è viltà l'impiegarle in
ferire o offendere una donna, è stato di mestieri compiacere a me stesso
coll'usarle in lacerarti con la penna; se pure sei capace di scissura, fatta
tutta cenci d'infamie e dissipate reliquie di vituperio. So che ti beffi di
questo mio sdegno: come che la femina mai non si duole se non piange con stille
di sangue, e già le ordinarie lagrime sono liquore d'inganno e trattenimento
della simulazione. Godrò nondimeno di publicarti sola cagione onde, fatto
appresso di me abominevole il tuo sesso, m'ha necessitato al decantare una
palinodia d'ignominie, quale vedrai descritta in questo foglio, quando tu non
sia insensata come sei irragionevole. Dalla tua ingratitudine, fatta ultimo
limite di pessimi costumi, ho appreso che la donna altro non ha d'umano che il
volto, per mentire anche non parlando, e per avvertire qualmente non devono
attendersi che frodi da chi inganna a primo aspetto. Communica nel genere con
l'uomo, appropriandosi anzi tutta la bestialità che può seguire l'esser
animale. Ma in ragione di differenza essa non ha punto di ragione, perché,
senza senno, opera quasi bruto, non quasi ragionevole. Non conviene in somma
con l'uomo che nella declinazione dell'hic et haec, in contrasegno che voi
femine siete a noi congiunte solo per avvilire le nostre grandezze, e far
declinare la nostra felicità.
Altrimente, se si ricercano Sfingi, Pantere, Tigri e altre fiere o mostri,
basta una donna per offerirci, unite in un supposto, le più crude belve e le
più bestiali nature. Nel tuo sesso non ritruovasi per ordinario altra potenza
ragionevole che la volontà, dominata talmente dalle passioni ch'è fatto
infallibile asioma il dire la donna essere senza giudicio. Quindi o sfrenata
nella libidine, o sregolata ne' furori, non ha mezo termine, in vigore di cui
segua conclusione d'umanità. Allor quando con miti sembianze, con teneri vezzi,
con gentili maniere, dà a credere d'aver furato alcun saggio d'essere umano, dicasi
pure che, rapite alla Sirena le lusinghe, usurpate d'altra fiera le frodi,
veste abiti d'inganni per compire tradimenti. Qual Polpo che si cangia in
iscoglio per facilitarsi la preda, si tramuta quella con apparenze d'uomo per
agevolarsi il mentire.
E quale è la ragione per cui gli amanti, nelle loro operazioni, hanno
imposta necessità di circonscrivere il proprio essere con termini che dinotano
privazione d'intelletto? D'onde procede in essi il vivere senza legge, perché
sono senza ragione, fatti però meritevoli di vedersi condonato ogni fallo, come
a' mentecatti e privi di senno? Non altronde, al sicuro, che dall'aver inserti
ne' loro petti, per forza d'amorosa trasformazione, i cuori delle donne amate.
E in qual modo, avendo cuori non collegati con vita intellettuale, potranno
vivere in atti ragionevoli? Misero quell'uomo che, facendo sua anima una
femina, fa sua essenza affetti di bestialità, ed effetti di pazzia. Deve
credersi ch'ella, sin dal nascimento pratticando la proprietà d'appigliarsi al
peggio, delle due urne poste al soglio di Giove, nell'uscire dalle sue mani,
prenda quella del male, e tutto l'assorba. Quindi con l'ostinazione variando la
dipendenza dell'intelletto e della volontà, mentre questa, dominante per i suoi
disordinati costumi, s'apprende al male, fa di mestieri che quello pure
appruovi ciò solo ch'è contro ragione.
I semi della prudenza infusi nelle umane menti, come diceva quel saggio,
quando s'inseriscono nella donna, sono investiti d'una natura tanto corrotta,
che producono frutti molto dissomiglianti dall'origine. Che se il vero uomo,
cioè a dire il perfetto sapiente, ha per trono una pietra quadrata a fine
d'accennare i pregi d'una immutabile constanza, invariabile base dell'eternità
dovuta al suo merito, non potranno queste glorie aver seggio nel tuo sesso,
tanto volubile e inconstante che la fortuna, unico vento da cui si sconvolge il
Mondo morale, per sembianze d'inequietudine, fu vestita di spoglie feminili.
Ma pure il concedere nelle donne quell'intelletto, che non può negarsi, per
avere elleno ancora anima individua della nostra specie, ci obliga al credere,
secondo la dottrina di Pittagora, che l'intelletto sia il nostro Genio; sì che
chiamar potremo la donna il Genio reo, in contraposizione del buono. E se il
titolo di Genio reo s'appropria a' Demoni, destinati a rimuovere ogni nostro
bene, fattici guida ma a' precipizii, non sarà che ben detto delle femine, per
le quali, precipitando ogni ora, l'umanità rimira disperse le sue grandezze
negli abbissi ne' quali terminano le sue cadute. E per non lasciare che
traballi il discorso su fondamenti non assodati, dimmi, in qual tempo già mai,
o in quale stato, non sono le femine un mobile Inferno, giurisdizzione pur
troppo stabile delle disgrazie, per continuare contra l'uomo i tormenti e le
pene?
Nella gioventù, se sono amabili tormentano, se odiose annoiano, se amano
tiranneggiano, se non amano uccidono. Se vivono da noi lontane angustiano i
nostri desideri, se vicine si fanno sensibili con molti affanni. Ciò che le
rende aggradite le fa altiere; se non hanno onde insuperbiscano, sono
sprezzabili. Quando sono belle sono crudeli, quando diformi lascive; là onde
chi le brama languisce, chi esse desiderano geme travagliato dall'importunità
delle loro persecuzioni. Se mancano d'esser inumane, non lasciano già d'essere
superbe e avare; e se non smungono le vene, svenano borse; e quando anche
ricusino di vedersi a' piedi cadaveri giacenti, si gloriano d'avere prostrati
supplichevoli.
Nella vecchiezza poi, con molto maggiore discapito della ragione, concertano
la perversità de' costumi co' progressi del tempo, che nelle rughe va
ristringendo a bell'agio que' lusinghieri apparati ch'ad alcuno incauto le
persuasero un teatro della nostra felicità, e un campo fertile delle umane
contentezze. Al crescere degli anni, o avanzando l'infamie della loro
professione, o infamando d'avvantaggio i propri desideri, mostrano che s'è
increscapata la deformità del volto, a fine di rinforzarsi in questa unione,
onde s'impedisca un mentito riflesso delle qualitadi dell'animo nelle menzogne
d'un vano e artificioso lustro. Fatte ambasciatrici d'amore, danno a vedere
qual fosse il loro giudicio, che maturato dal tempo ha meritato così principale
impiego nel Regno delle dissolutezze. Si scorge da qual abito invecchiato
abbiano in quella età comperato l'argento della canizie, per ispenderlo in
tributo delle disonestadi, come pure andarono dispergendo l'oro di bionda
chioma. Ne' prestigii pur anche e nelle superstizioni, fatte ministre più
intrinseche nel Regno de' Demonii, fanno apparire il merito ch'appresso tal
regnante ha potuto avanzare tant'oltre cogli anni la loro condizione.
Quando con le bellezze degli anni giovenili hanno perduta l'autorità
d'essere Fiere nel lacerare i cuori, divengono aderenti delle Furie, per
concorrere con maggior forza a gli altrui danni. È pur vero che le Circi, le
Medee, le Meduse, e le Megere, furono, se non vere femine, veri simolacri di
quelle sembianze che seco porta la donna. Ciò ben connobbe la prudenza degli
antichi Romani, i quali vedendo comparir nelle publiche piazze avanti i
tribunali una femina s'atterrirono, quasi a vista d'infausto prodigio, e
ricorsero per rimedio d'un tanto terrore all'Oracolo. Mercé ch'in pregiudicio
dell'umanità, essendo pessime le donne più che i corvi, augurano non altro che
affanni, e sciagure.
Ho lodato mai sempre il paragone della femina con la vite, come che
quest'albero anch'egli è apprezzabile nel solo punto della fecondità, oltre di
cui non ha altro privilegio che l'essere riserbato alle fiamme. Quindi,
vivendo, non sa che piangere, forse in quelle acque preparando diluvi da' quali
s'estinguano gli ardori che sa di meritare. Ed ecco l'attitudine del tuo sesso
al lagrimare a fine di truovar varco alla simulazione, onde o naufraghi
l'altrui durezza, o giungano in porto i suoi desideri. E in allusione cred'io a
questa somiglianza, punivansi da' Romani i loro Cittadini con verghe di vite,
seguendo forse i documenti del Cielo, ch'a gli uomini, Cittadini di questo
Mondo, non si rappresenta in atto di castigo con più crudi flagelli che di
questa vite animata; non avendo noi maggiore tormento che la congiunzione o
simpatia con la donna. Né può negar costei d'essere vite, mentre come questa
appunto avvitticchiandosi fatta tutta lacci e tutta funi, serve solo al legar
l'uomo e ad imprigionarlo. È però compatibile in questi legami, mentre viene
commandata dalla necessità di procurarsi sostegno, per non rimaner orfana
d'ogni pregio e grandezza. Infelici donne se, non sostenute dall'uomo, non
avessero questo appoggio alla propria fiacchezza, per non traboccare ad ogni
momento, come cieche o pazze, in mille precipizii. Ciò intesero le donne
Tartare, le quali usavano di non riconoscere su'l loro capo maggior addobbo, né
più prezioso ornamento, che la forma d'un piede umano, per significare che la
femina, essendo senza cervello, e priva d'ingegno, non ha gloria maggiore che
la sogezzione all'uomo. Con segni di questa, in figura d'essere calpestate,
onoravano la più nobile parte di loro stesse, non così sciocche come le altre,
che la fregiano co' tesori d'un sepolcro depredato o l'aggravano con
intrecciate catene, popolate di gemme.
Ma pur è vero ch'ingrate e tiranne, se non altronde lice loro prendere lo
scettro sopra l'uomo, fondano un orgoglioso dominio su l'impero di fugace
bellezza, per travagliarlo sotto il giogo d'un indiscreto commando. Volubili
mai sempre, e inconstanti, strascinano dietro a' loro variabili voleri que'
cuori che da maligno influsso ricevono in pena l'obligo d'assoggettirsi a' loro
spietati rigori. Non è facile truovar meta a' rimproveri che merita la
perversità feminile, tanto più empia quanto più, palliata sotto lusinghiere
menzogne, con ipocrita sincerità tradisce gli affetti più fedeli. Dalla tua
conversazione ho appreso qualmente, anche nel sommo de' vituperi, fa di
mestieri confessare scarsezza di biasimi quando si condanna una donna. Non
m'estendo più oltre, non perché bastevolmente sia sodisfatto il mio sdegno, ma
perché non voglio più a longo mantenere ne' miei pensieri quel tumulto con cui
sconvolge ogni mia quiete la memoria de' tuoi tradimenti. Ho descritti que'
motivi da' quali può rendersi aborrito il tuo sesso, accioché t'assicuri d'una
volontà totalmente pervertita in odiarti. Rimanti con quella pace ch'a me ha
lasciata la tua ingratitudine, e siano perpetue le pene dalle quali ti si
rinfaccino i miei benché brevi tormenti.
«E pur una volta — disse il Conte — è compito questo processo, ripieno di
tante veritadi quante sono le accuse contra le femine».
«Tutti — disse il Cavaliere — accusano le donne, ma non ritruovasi chi le
condanni. Può dirsi che vadano universalmente al paragone dell'adultera del
Vangelo».
«La cagione di ciò è in pronto — soggiunse il Barone —. Hanno facile il far
corrompere gli uomini, là onde come giudici corrotti falsificano la sentenza,
favellando a proporzione di ciò che s'usa ne' tribunali».
«Questi tali — ripigliò il Marchese — rassomiglio a' gatti, che con tanta
diligenza nascondono le proprie immondezze, per sepelirne il fetore. Non
altrimente chi più ama le donne occulta, sotto sembianze di sdegno, il fallo di
questi amori».
«Quindi succede — replicò il Marchese — che gli uomini grandi e che si
vantano di maggiore autorità e sapere, a fine di sfuggire l'obligo di rigoroso
pentimento per simile errore, collocano gli affetti in altro sesso».
«Orsù — conchiuse il Cavaliere —, non entriamo in Roma, cioè a dire in amore
al roverscio».
In questo mentre trascorse cogli occhi ad una lettera diretta alla Republica
di San Marino. Fu commune l'applauso alla sodisfazzione che n'attendeva la loro
curiosità. Lesse nel sovrascritto: «All'Illustrissima».
«Può far il mondo! — disse il Barone —. Ha errato costui su'l bel principio,
dovendo scrivere: «Alla Serenissima», come a quella gran Principessa che si
nomina sorella della Republica di Venezia».
«E che pensate? — rispose il Barone —. Stimate forse quella Republica
superba al pari di quella di Genova? Forse que' Signori, interessati più
nell'agricultura che nell'ambizione, ricusano Serenità, desiderosi di pioggia».
«Non beffate — soggiunse il Marchese — que' grandi, i quali nelle insegne
pareggiano gli Dittatori de' Romani, da' quali si portavano le securi, che però
le portano anch'essi per tagliare legni e alberi, secondo la necessità e
l'occasione».
«E non vi ricordate — replicò il Conte — de' Regi di Babilonia, i quali
nella sommità dello scettro portavano un aratro? In conformità di che ciascuno
d'essi dovrà chiamarsi Re, guidando ogni giorno ne' campi l'aratro».
«Non posso tacere, in avanzamento delle grandezze di costoro — ripigliò il
Cavaliere —, che gl'Imperatori antichi passavano dalla zappa allo scettro, e
dall'agricoltura al commando, là dove tutti gli ministri di quella Republica
devono riconoscersi come Imperatori, mentre è ordinario questo loro passaggio
dalla zappa allo scettro».
Avrebbero longamente continuato questo discorso, se il fingersi trattato di
rilievo in quella lettera non gli avesse sollecitati al leggerla; truovarono
però che così diceva:
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