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Illustrissima, etc.
Sono fuori della patria, ma non sottratto alla protezzione delle Signorie
loro Illustrissime. Il bisogno di proccacciarmi il vitto m'ha condotto fuori,
dopo d'avere servito alla mia Republica nelle cariche più stimate. Godo almeno
di questa sodisfazzione mentre, riconosciuto non totalmente inutile, sperarò
d'aver alcun merito all'occorrenza. Saravvi forse tra le Signorie loro
Illustrissime chi sarà stato mio collega nell'ordine senatorio, che però
ricordandosi della mia fedeltà, e diligenza, dovrà procurare che io sia
gratificato, o per il meno non male rimeritato. Intendo qualmente a' mesi
passati Bernardino mio fratello, abitante costà, comperò su'l mercato un
boccale. Portò la disgrazia ch'in questo eravi un mascherrone rappresentante
l'effigie di Nicolo Pandolfino calzolaio, uno de' primi sogetti di cotesta
Republica. Giudicossi in ciò affrontato con molto sdegno, machinando le
vendette contro il suddetto mio fratello. Non cessa di perseguitarlo, fin all'aver
operato ch'egli sia posto prigione, quanto ingiustamente lo sa il Cielo; mentre
mai non dissegnò d'offendere alcuno, ed è di lignaggio fedele, e di ceppo i cui
germogli hanno sempre inchinati i nostri maggiori. Ho risolto di rimemorare la
mia servitù, e gl'impieghi co' quali la nostra famiglia ha sempre affaticata la
mano e l'ingegno in beneficio della sua patria. Supplico le Signorie loro
Illustrissime di giustizia in causa che facilmente può rissolversi. E per
l'esperienza ch'io tengo nel governo, stimo che la strada ch'io accennarò loro
sia quella per cui potranno incaminarsi alla decisione del litigio. Dovrà
portarsi in giudicio il boccale, fondamento dell'accusa, e confrontarsi
l'effigie, occasione della rissa, con il vivo originale che si reputa offeso.
Quando non siavi la somiglianza di cui egli si duole, dovrà procedersi alla
liberazione di mio fratello. Quando il Diavolo volesse ch'al confronto
apparisse la verità della querela, non può condannarsi a maggior castigo che a
romper il suddetto boccale; il che, quando debba succedere, pazienza. Ricordo
però anche in questa occasione la clemenza, avendo riguardo al non fomentare le
mine della nostra povera casa. Se in sodisfazzione dell'offeso potesse
contrapesarsi la rottura del boccale con alcun altro castigo, il quale non sia
di pregiudicio al nostro avere, le Signorie loro in grazia abbiano a cuore la
pietà, in cui confidando, come pure nella loro prudenza, consolare me stesso
coll'augurare fortunato esito a queste mie suppliche; con che per fine, etc.
«E che dite — esclamò il Barone — di questi gravi interessi che si trattano
in quella Republica?».
«Sono pur troppo rilevanti — disse il Cavaliere —, se forse il giudice in
quella è un ciavattino, là onde essendo la materia di questo giudicio una pittura,
potrebbe ragionevolmente contradirsi col volgato detto di Appelle».
«Nel particolare di proferir sentenze — soggiunse il Marchese —, sono saggi
perché le pronunziano entro le tine, calcando le uve, emulatori del gran
Diogene, che fu sapientissimo entro una botte».
«Ed ecco — disse il Conte — nuovo argomento della grandezza di que' Signori
che fanno parallelo con quel gran Filosofo, il quale nella sua botte, benché
ristretto da angusto giro, gloriavasi maggiore d'Alessandro, non contento
dell'ampiezza del Mondo».
Aperse in questo dire nuova lettera, e fissando gli occhi nella
sottoscrizzione, fece attenti i compagni, rendendogli maggiormente curiosi,
mentre dopo averla studiata alcun tempo: «Si richiede — disse — un Edippo per
risolvere l'enigma di questi caratteri».
«Saranno d'alcun Grande — soggiunse il Marchese —, perché i Principi per non
esser intesi, come parlano con cenni, così scrivono con cifre».
«Oh che bella prospettiva — ripigliò il Barone — farebbero questi letteroni
sopra una scatola di Speciaria ».
«Forse a chi doveva ricevere questa carta ella fora stata una speziaria, in
cui avrebbe ritruovati aromati per condire i suoi ambiziosi disegni».
«A fé — disse il Cavaliere — che dalle Speziarie de' Grandi non esce che
pepe e zenzaro, aromati i quali mordono e fanno piangere».
«Non ritocchiamo le nostre piaghe — replicò il Barone —. Studiamoci di
ritruovare la contracifra a questi imbrogli. Parmi che dica: «Affamatissimo per
scorticarla».
«Non è mala interpretazione la vostra — soggiunse il Conte —, perché i
Grandi, più de' lupi ingordi al divorare le sostanze altrui, rassembrano sempre
famelici. Oltre che hanno la mano sì pesante e indiscreta, che all'intenzione
ancora di radere gentilmente, segue l'effetto di scorticare. Io però l'intendo:
"Affaticatissimo per strapazzarla"».
«E questa dichiarazione pure — soggiunse l'altro — va bene, perché il
sussiego de' Grandi studia mai sempre nella scola de' dispreggi; in guisa che
fa di mestieri a' cortegiani il riconoscere un soghigno, un motto ancorché mordace,
un batter la mano su la spalla, per singolari grazie; e pure sono atti più di
strapazzo che d'onore. Mercé ch'essendo professione de' Principi il vilipendere
gl'inferiori, allora favoriscono quando meno offendono. A me nondimeno
rassembra che questa sottoscrizzione dica: "Affettuosissimo per
stroppiarla"».
«Questa né meno — disse il Cavaliere — è mal fondata esposizione, perché
l'affetto e desiderio de' Grandi inclina mai sempre al far zoppicare chi per
merito e per virtù può ascendere a quei gradi di gloria ch'eglino stimano loro
propri. Anche nel sollevare, talvolta, hanno la mira a' precipizii, da' quali,
come ordinarii nelle grandi altezze, sperano potersi stroppiare coloro ch'essi
abborriscono. Non saprei che aggiungere a queste vostre interpretazioni, se non
dichiarassi questo "Affezzionatissimo per servirla" confusamente
espresso, con pensiero di scrivere: "Affezzionatissimo per
sepelirla"».
«Tutto va bene — disse il Marchese —, perché il servire de' Grandi è
indrizzato sempre al sepolcro, e la schiavitudine anche de' più fedeli non ha
bene spesso altro riscontro che l'esequie d'un apparente dolore, o brevissimi
encomi del loro merito, co' quali gli accompagnano fin alla tomba».
«Non perdiamo in grazia — disse il Barone — altro tempo in risolvere questa
confusione, poiché colpiremo mai sempre in peggiori sentimenti». Posta però a
parte quella lettera, n'incontrarono altra di maggior gusto, e del seguente
tenore:
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