Molto Illustre Signor mio.
Frequenta V.S. le sue instanze per avere da me avviso
d'alcuna novità. Io non ho modo di compiacerla, come che i successi delle
guerre precorrono costà, e finalmente non mi porgerebbero occasione che
d'accumulare menzogne, le quali può ciascuno machinarsi a suo grado. Riferirò
accidente, non più da lei udito, di cui non sono molti giorni fu teatro
Parnaso. L'ha riportato da quel paese Esculapio, Medico della Maestà d'Appollo.
Venne questi nella nostra Città per sanare uno Spagnuolo il quale, da vilissima
nascita traportato a dignità benché di poco rilievo, pativa strettezza di
petto, non potendo suppiare quanto comportava la gonfiezza della sua ambizione,
cresciuta all'aura di questi nuovi onori.
Narrò dunque qualmente volle a' giorni passati S. Maestà applaudere con la
solennità d'un sontuoso convito all'arrivo d'alcuni Principi giunti di fresco
nella sua Corte. Intesa più volte l'eccellenza de' letterati moderni, che sono
i cuochi di Parnaso, volle accertarsi della verità, in questa occasione. Quindi
publicò ordine che ciascuno con vivanda particolare dovesse far l'imbandiggione
di questa mensa. Incontrò volentieri ciascuno questa commodità di far conoscere
la propria virtù, in cui presumeva ogni benché minimo scrittore gloria
vantaggiosa sopra gli altri. Risolse S. Maestà di voler vedere l'apparato prima
del convito, per non rimanere con iscorno appresso que' Grandi. Figuravasi
molti balordi, i quali ambiziosamente si pongono nel ruolo de' virtuosi, onde
imaginavasi alcuno istravagante sproposito, il che appunto fora succeduto non
prevedendosi da lui il verisimile e non provedendosi all'inconveniente.
Fu condotto dal suo cameriere in un'ampia Sala, dove su molte tavole era
disposto tutto ciò che doveva servire a questa mensa. Su'l frontispicio a prima
vista s'offerivano due bacili di ravanelli. «So — disse subito sorridendo Appollo
— di chi è questo regalo, e quando non me ne avvedessi alla qualità della
vivanda, ciò mi dimostrarebbe il posto in cui chi l'ha presentata, con la
solita superbia, vuole che preceda ogn'altra. Mi stupisco — soggiunse — che
usando gli Spagnuoli questo cibo per ultima confezzione, l'annoverino ora tra
gli antipasti».
«Sappia V.M. — rispose l'assistente — che questo è il
loro pasto, il quale serve al tempo d'ogni imbandiggione. Ve ne sono altri
bacili presentati dalla stessa nazione, per inserire in ogni mutazione di
vivande. Questi sono i libri Spagnuoli, molti in numero, ma pochi in sostanza.
Hanno, come questi ravani, una gran chioma di foglie in una copia di parole mal
composte, ma sotto quella, v'è un capo di romolazzo senza cervello. E se alcuno
ha vivacità spiritose che pizzicano, riescono ad ogni modo sciapite, là dove
hanno bisogno di sale». «Pongansi — disse Appollo — sopra un lettamaro, non in
una mensa, la quale sia coronata da Principi».
Seguiva nell'ordine, per non admettere pregiudicio nella precedenza,
un'Ollea potrida di libri che vengono di Spagna, degni di molta stima. La
confusione però di dottrina e di chiacchiare, in un indistinto miscuglio,
sepelisce la buona sostanza, e pone nausea talvolta, prima d'essere gustata. «È
buona vivanda questa — disse Appollo —, ma non è degna di comparire in una
tavola di delicatezze».
Succedevano alcune soppe Francesi delicate per certo, ma soperchiava il
brodo di parole vane, e pescavasi finalmente pane d'ordinarii concetti, né era
lecito il navigare in quel mare predando sostanze di pregio. Non furono però
ributtate da S.M. come che ad alcuno aggradiscono, ed èvvi
chi, sapendo pescare a fondo, prende a suo gusto alcuna cosa, non avvertita
dagli altri.
In un tavolino a parte, eravi dietro a questi un Tedesco, il quale aveva
imbandito una numerosa quantità di minestre, là onde quasi con isdegno disse
Appollo: «Pensa forse costui che siamo in un Convento di Zoccolanti?». «Scusi
V.M. — disse l'assistente — questa nazione, che non sa fare
cosa alcuna di buono, avendo per unica sua professione l'ubbriacarsi». «Vada
costui cogli guattari di cucina — disse S.M. — che per essi
sarà buon cuoco».
Ciò dicendo passò al vedere una gran tavola, piena di varii pasticci.
Avvertendo l'altro che stupivasi di tanta quantità: «Questi — parlò — sono
Romanzi de' letterati Italiani, che sotto coperta di semplice pasta,
racchiudono sostanza soda d'intelligenze occulte, sotto apparato favoloso. Così
almeno presumono, e questa forma di scrivere s'è talmente avanzata di credito,
che già è fatta scopo d'ogni scrittore Toscano». Curioso Appollo di penetrare
la qualità di questi pasticci per incaminare con la ragione la sentenza de'
suoi encomi o de' suoi biasimi, ne fece scuoprire alcuni. Uno principalmente fu
aperto, il quale nell'esterno aveva qualche apparenza, ma il suo credito
riceveva principalmente dalle lodi di chi l'aveva presentato, e lo consignò
distintamente come regalo singolare, esaltandolo sopra d'ogn'altro.
S.M. figuravasi di ritruovare un ingrediente dilicatissimo,
non ancora conoscendo costui, tanto più ignorante quanto più è vantatore. Era
il contenuto di quello un pezzo di manzo, ch'al tocco appariva sì duro che ben
poteva credersi di bue. Irritò Appollo l'arroganza di costui, e subito facendo
gettare quel piatto, ordinò che fosse castigato quel cuoco di tanta
presunzione. «Èvvi — disse l'altro — un pezzo di manzo della stessa razza, che
deve servire a questo convito». «Vadano — replicò S.M. —
costoro a far pasto a' porci».
Fu curioso di veder le viscere d'un altro, che mostrando al di fuori capo,
coda e ale di pernice, dava a credere d'aver per anima un buon boccone. Fu
ingannato, posciaché racchiudeva dentro di sé un pesce. «E come — dice Appollo
— prommette costui un uccello, e poi presenta un pesce?». «Questi — rispose
l'altro — sono certi tali, che prommettono ne' Romanzi sensi istorici e veri
per gloriarsi d'esser uomini di grande spirito. Si scorgono finalmente pieni di
favole e d'imbrogli, ne' quali, se v'è alcun particolare vero, cangia sostanza
e natura».
Un altro similmente ne vidde di grande apparenza, ma con coperte e
sopracoperte d'episodi, di chiacchiare, se mai non poteva giungersi al
comprendere il contenuto, almeno con gran fatica scuoprivasi, essendo
necessaria per l'intelligenza una replicata lettura.
Scorreva già Appollo annoiato da tanti pasticci, la bontà de' quali
finalmente risolvevasi in pasta, quando uno se gli presentò a gli occhi di
forma più vaga d'ogn'altro, avendo abbellimento e contrasegni di buon
condimento, indicii di gentilissimo lavoro. Ordinò che fosse scoperto, e
ritruovovvi adentro midolla e non so che di cervella. «Questi — disse
S.M. — sono bocconi dilicati, ma che occorreva sepelirgli
in sì gran chaos, in riguardo della loro picciolezza. Ma non mi stupisco che,
avendo posto dentro il cervello, non abbia saputo usarlo al di fuori». In
questa tavola in somma non elesse per la sua mensa altro che alcuni piccioli
pasticci brodosi ne' quali, compendiata la varietà de' condimenti, epilogava un
buon sapore.
S'avanzò al visitare l'apparecchio delle carnaggioni, dove pure ebbe puoca
sodisfazzione, perché le carni allessate erano insipide, vestite a bruno forse
per condoglienza della morta virtù di chi le aveva cucinate. Avevano una
schiettezza così semplice, che parevano stagionate per un mendico, tutto cenci
d'ignoranza, non già per i Grandi di Parnaso. Eravi principalmente un bel
cappone in tal modo acconcio, sopra di cui mentre ristringevasi Appollo nelle
spalle, quasi stupido della sciapitezza di chi l'aveva cucinato: «Questo —
disse l'assistente — è un libro d'istorie, le quali secondo le regole d'un
nuovo riformatore tengono obligo di far pompa di così pura nudità, in modo che
non vi si permette né meno il sale, per non pregiudicare alla schietezza».
«Vadano — disse S.M. — questi pedanti, publicatori di nuove
riforme, e per non sapere essi aggiustare proporzionato condimento a' propri
scritti, non prescrivano un disordine tale in danno commune. Dunque alla mensa
di soggetto grande, d'ingegno elevato, dovrà presentarsi un cibo di niun
sapore, proprio delle cene più vili, di chi poco sa, e meno intende? Quel tale
che m'accennate, in altro senso deve forse aggradire la nudità ne' libri vivi
su' quali legge, come so per altra parte bene spesso avendo per trattenimento
il fare squarzafogli di queste carte gentili».
Eravi pure un'anatra sotto un monte di cardi abbissata, non che sepolta, e
al sicuro aveva bisogno del nativo suo gridare qua qua per accennare dove
ritruovavasi, altrimente riusciva impossibile il vederla, ancorché fosse avanti
gli occhi. Tali sono le scritture di chi moltiplicando digressioni, replicando
discorsi, frequentando oscure sentenze, forma una catastrofe di confusioni, non
che di periodi, onde sepolto quanto èvvi di buono in quelle, perdono il merito
ch'altrimenti potrebbero vantare.
Nelle carni arrostite ebbe Appollo l'incontro medesmo di poco gusto, come
che alcune ancora insanguinavano; cagione di ciò era l'aver presa troppo ampia
materia, ponendo ad un tratto tanta carne a fuoco, che non s'era stagionata
quanto comportava il bisogno. Altre erano arse, in guisa che non era abile al
ferirle il cortello, non che il dente. Mescolavansi con questa imbandiggione
alcuni intingoli, due de' quali principalmente forano stati degni di stima, se
l'uno col fetore del fumo non si fosse anche da lungi reso abborrito, l'altro
al primo saggio non fosse apparso indiscretamente pieno di sale, che
S.M. fu necessitata al dire: «Costui per certo ha un gusto
di becco, e condisce le vivande a suo talento. Non deve avere sale in zucca,
posciaché tutto l'ha quivi disperso». Mentre attende al continuare questa
visita, vidde un grande fumo, che svaporando da un piatto impediva il vederne
il contenuto. «Non s'invogli V.M. — disse l'altro — di
voler chiarirsi, perché questa vivanda è fattura d'un buon ingegno, ma tanto
pieno d'ambizione ch'alcuno tolerar non può di vederlo, anche nelle sue opere.
Quindi col fumo di questa superbia, ottenebra gli splendori, ch'altrimente
converrebbero al merito della sua virtù». Anche questa vivanda volle che fosse
bandita, non imbandita in questa mensa, nauseando tanto orgoglio per quattro
cuius, ne' quali ha acquistato buon valsente il talento d'una felice memoria.
Presentossi ad Appollo nel tempo stesso un cuoco, che tutto sbracciato e
anelante mostrava d'aver per le mani grandi facende. Questo per disgrazia era
riuscito bene una fiata in alcune frittole, che gli meritarono molta lode. Si
giudica che le avesse involate ad alcun altro, che però non mai egli ha sortito
il fine medesmo in altri somiglianti lavori. Quando lo vide
S.M. di picciola statura, diforme di volto, e ricco non
d'altro che d'ambizione: «Parmi uno sbirro costui — dice egli —, non un
letterato». «Ha errato in poco — soggiunse chi l'accompagnava —
S.M., posciaché egli è publica spia». Portava seco un
pasticcio, non ancora cotto, perché diceva d'aver intesi tardi gli commandi
d'Appollo, là onde non gli era stato concesso maggior tempo che per comporlo.
Disse di essere precorso in farlo vedere a S.M. a fine
d'assicurarla che poteva annoverare un piatto regolato. Quivi egli principiò
una serie d'encomi, che davano occasione di schernire la presunzione, più che
d'ammirare la virtù. Appollo volle disingannare ogni falso credito con la
cognizione della verità. Scoperto che fu di suo ordine il pasticcio, videsi
pieno di robba che aveva del rancio, essendo composizione compaginata
d'accidenti d'istoria antica, sviscerata con aggiunta di poco del suo, e nulla
di bene. Un calcio fu l'onore ch'egli ricevette, udendosi in oltre imposto
ch'egli dovesse consegnarlo al fuoco per abbruggiarlo, non già per stagionarlo.
Partì mortificato, là onde può dirsi che S.M. sostenesse le
parti di donna, nel mandar costui con la testa bassa.
Trascorse all'imbandiggione delle frutta preparate, le quali tutte erano
state offerte da' Poeti. Non avevano presentato altro di meglio, o perché la
vanità della Poesia tutta si riduca a frascherie di poco momento, o perché la
miseria ordinaria di questo mestiere non avrà loro permesso il sodisfare al
debito con maggiore dispendio; o finalmente, perché i Poeti de' nostri tempi
non hanno eccellenza per comparire con offerte di pregio. Sceleni, cardi,
finnocchi, e altro erbame, in cui il meno è quello che si gode, raffigurano le
fatture di questi, la sostanza delle quali in poco, e anche in nulla, si
risolve. Alcuni sparagi e carchiofoli, per essere fuori di stagione, potevano
stimarsi il meglio di questa imbandiggione, ed erano per appunto regali
d'alcuni pochi, singolari nella professione.
Mentre partiva Appollo, fatta già l'elezzione delle vivande, ch'egli doveva
admettere nel convito, comparve l'Orbo Britti con un poco di coppetta,
donatagli per elemosina da uno speziale in Venezia, in contracambio d'una
canzone fatta per una sua puttana. Scusò la sua tardanza, incolpandone il non
aver truovata guida più a tempo. Disse ch'inteso il bando, che aggravava tutti
gli virtuosi, aveva voluto sodisfare al debito anch'egli, venendo a ruolo con i
Poeti. Rise S.M., ancorché non senza sdegno, rimproverando
severamente la temerità di costui, ardito d'aruolarsi tra' letterati. Replicò
l'Orbo Britti ch'egli da ciò era persuaso al vedere qualmente da' Principi
erano trattati sotto titolo di virtuoso i Musici, Comedianti, Buffoni, e altra
simile canaglia, di cui non giudicavasi punto inferiore. Aggiunse che
s'annoveravano tra' virtuosi alcuni i quali non potevano fondare valsente di
merito, se non sopra alcuni scartafacci, ripieni solo di quanto hanno rubbato
ad altri libri, là dove nelle sue canzoni affermava d'esser Poeta per se
stesso, non per ornamenti rapiti ad altri. Non puoté Appollo contradire a
questa verità, ma pure ricusò d'applaudere all'ardimento di colui, commandando
anzi che fosse scacciato di Parnaso. Si ricondusse poscia dove l'attendevano i
convitati.
Non aggiunse Esculapio altro particolare, bastandogli l'avere compito questo
racconto del saggio, che aveano dato di loro stessi i virtuosi del nostro
secolo. Scusimi V.S. se io l'ho attediata troppo
longamente, e prenda il disturbo per penitenza dell'importunità, con cui mi fa
continue instanze di nuovi avvisi. Tramuti questa nella frequenza de' suoi
commandi, che così pregandola faccio fine, e affettuosamente le baccio le mani.
«È antica — disse il Conte — l'invenzione di questo ragguaglio di Parnaso,
non però mal accommodata a' letterati, che ne' trattamenti de' Grandi, sono
riconosciuti per appunto come cuochi, i quali in premio d'una stentata servitù,
hanno il pascersi di fumo».
«Aggiungete pure — disse il Marchese — che questi ingegni vivaci si
trattengono, quasi cuochi, volentieri tra le pentole, e gustano dar di naso
negl'intingoli più dilicati».
Mentre questo così parlava: «Ecco — gridò il Barone — una lettera amorosa!»,
avendo già rotto il sigillo, e scuoperti i secreti di quel foglio, che aveva
nelle mani. Prepararono tutti una volontaria attenzione esercitata con diletto,
allor che egli così lesse:
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