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Molto Magnanimo Signore.
Per la condotta di Sebastiano Piccinellii mando una cassa di minestri, o
vogliamo dire cazzuoli. Dal Signore Mastro di casa ricevo ordine d'inviargli a
V.S. In esecuzione però di quello sono indrizzati a lei, e
devono servire a cotesta corte del Principe suo Signore; né essendo questa mia
per altro faccio fine, e le bacio le mani.
«Quanto è sciocco costui — disse chi leggeva —, in vece di scrivere per la
cucina, ei scrive per la corte. E a che devono servire nelle corti cazzuoli, o
minestri?».
«Non ha scritto male — soggiunse il Conte — perché la corte altro non è che
una cucina, in cui chi serve è stagionato tra mille patimenti, conforme a'
voleri del Padrone».
«A fé — replicò il Barone — che da questa cucina de' Grandi non escono che
ossa spolpate, le quali rompono i denti, o per il meno fanno stillar sangue
dalle gengive di chi le rode».
«Appruovo — disse il Marchese — questa proporzione di cucina e di corte,
poiché i poveri cortigiani s'arrostiscono, si consumano, o su'l fine, andando
il tutto su la mensa del Grande, non rimane per loro altro che il fumo, il
quale serve al fargli lagrimare».
«Quando ciò sia — ripigliò il Cavaliere — sono molto necessarie in una corte
queste misure, per distribuire egualmente le minestre delle dignitadi, e de' favori,
non riempendone uno, in modo che gli altri partano digiuni, se non famelici.
Con questa misura pur anche, apprenderebbero i grandi il debito di non superare
ne' premii la capacità del merito, di maniera che si rimeriti un servitore di
due anni, più d'un altro invecchiato, e quasi decrepito nel servizio. In
mancamento di questa regola succede che un fanciullo, e quasi infante nella
virtù, e nel valore, è trattato egualmente ad altri di maturo senno, e d'una
incanutita prudenza».
«È impossibile — replicò il Conte — il prescrivere somiglianti leggi
all'indiscretezza de' Principi, abituati di soverchio in mal trattare il
merito, e favorire gli scelerati».
«Troppo siete precorso, o Conte — ripigliò il Barone —, là onde non occorre
fermarsi più longamente in questa verità, che ci necessitarebbe al proseguire i
biasimi de' Principi, i quali pure conviene lusingare con l'adulazione».
Rappresentossi alla commune curiosità una lettera latina. La propose il
Cavaliere, ma la rigettavano i compagni, là onde egli disse:
«Sète forse nel ruolo di quelli ignoranti che, troppo amici del volgare,
hanno in abborrimento l'idioma latino?».
«Dite pure — soggiunse il Conte — nel numero di molti de' letterati moderni,
tanto contrari alla latinità, che non si curano di sapere se amo amas è
impersonale, o neutro».
«Meritano scusa questi — ripigliò il Marchese — poiché correrebbero rischio
d'imbastardire il linguaggio Toscano con idiotismi latini, acquistando titolo
di Pedanti, più che di scrittori. Tanto si scorge negli scritti d'alcun
moderno, il quale essendo condannato in questo particolare, serve di documento
a gli altri».
Conchiusero d'udire questa lettera al vedere ch'era d'un Padre Giesuita.
«Conterrà in sé — disse il Barone — alcun interesse de' Principi, spiato da
questo buon Padre nell'anticamera d'alcun Grande».
«E perché non nel suo proprio gabinetto? — soggiunse il Cavaliere —.
Rassembra bene che siate poco esperto de' costumi di questi tali, e massime
dell'ordinaria proprietà d'ambire la privanza de' Principi, più forse che
quella di Christo. S'apprendono a quel detto Non [enim] erubesco Evangelium,
e all'altro Littera non erubescit là dove, e come Religiosi, e come
dotti, con buona fronte si spingono avanti in ogni luogo». Ciò detto, per
acquistarsi quasi con esordio l'attenzione degli altri, così principiò a
leggere:
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