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Carissimus in Christi Frater, salutem.
Ultimis tuis litteris certior sum factus, quod periclitantem Congregationem
nostram nemo est qui sublevet, nisi omnipotens Dei manus suum nobis praestet
auxilium. Ubi incendia nimis excrevere, diluvia lachrimarum minime prosunt, et
naufragium quod imminet, dulcedine portus difficile iam poterit rependi. Ecce
statua illa miserabilis Nabuchodonosor, cuius aureum caput quasi ad supremi
luminis aemulationem, coelestia principia praesignabat. Nec minus in argentea
puritate, ac in aeris et ferri fortitudine progressus nostrae virtutis
indicabantur. Sed ad pedes tandem declinans nostra sublimitas, fragilem
materiam occurrit, et unde speranda erat stabilitas, inde exorta est ruinarum
occasio. Eccine affectus nostri, qui in coeno terrenarum rerum volutati, non ut
fas erat in Coelo positi, plantas istas constituunt, cum quibus, nostra virtute
eradicata, iam propemodum diruta est tota foelicitas. Nimia lucrandi aviditas,
unde in Principum aulis locum habere curamus, ut loculos auro plenos possidere
possimus, insatiabilem quemdam appetitum demonstrant, Christi paupertati minime
consimilem. Iam apparet, quod
primates magnatum, non Iesu famuli censemur, et hinc est quod nosmetipsos
deprimimus, dum cupimus altiora conscendere. Sollicitudo nostra in erigendis
sublimibus aedificiis iam emicat, quae marmorea dignitate et divitiarum fulgore
nitentia, prostratae humilitatis trophaea Coelo approximant. Vae nobis, qui
magnificis aedibus superbi virtutem coarctamus, eo magis pauperes spiritu, quo
magis mundanas glorias extendimus. Saecularibus honores invidemus, bona
usurpamus, et profectus semper maiores cogitantes, quotidie magis ac magis
deficimus. Vana est hypocrisis, quae vel collum incurvat, oculos demittit, os
detinet sacra semper murmurans, manus non nisi corona implicatas ostendit, dum
opera sanctitatem abolent et affectus virtuti contrarios patefaciunt. Hinc
est, o mi frater, quod in universo iam contemptibiles sumus, non ut Apostolica
desideria decernunt, sed ut nostra vitia cogunt. Haec non est via Sanctorum,
nec, qui praecepta dederunt, haec nobis reliquere vestigia. Et quomodo
duraturam per saecula societatem nostram sperabimus, si uno paene saeculo completo
a vero itinere aberrantes, ad praecipitia pergimus? In Hispania, ubi et radices
et germina huius nostrae matris fuere, arefactus est vigor, et iam devastatae
gloriae in ipso utero unde sumus exorti, sepulchrum minantur, in quo iaceamus
extincti. Dominicana Religio, ibi nostrae praefertur; et merito nos, qui
caetera Religiosorum collegia contemnimus, prae omnibus ipsi contemnimur. In
Gallia, fortunam restauravimus, sed non recuperavimus. In Germania, si non
regredimur, nihil certe progredimur. Et inutiles iam sunt illae fraudes, quibus defuncti Imperatoris
benignitate nostri nimis audaces abusi sunt. In Italia, a Veneto statu
exules, in aliis partibus, si non eiecti, despecti, parvae aestimationis, si
non contemptus, proventibus fruimur. Isthic Romae, ut ipse fateris, quo magis
multiplicamus monasteria, eo minora theatra virtutis aperimus, ac aliorum
pietatis monimentis, sanctitatis monumenta superbis moribus et avaris
affectibus adiungimus. Quid igitur
remanet, nisi quod Indianis in oris, terminos gloriae nostrae constituamus, et
in illis desertis floreant, dum in hortis Europae non virescunt? Sed et ibi
decrescunt, et pristini decoris pompas deperdunt. Lachrimarum fluctibus
profecto funebria cogito, quia fas est proximam mortem expectare, dum ante
unicum saeculum corpus ita forte elanguit. Avertat Deus illa mala, quae ipsum
ad supplicia cogunt, et mentes eorum, qui propria damna fovent, ad suprema
erigens, imminentes calamitates repellat, ut fulmina quae iuste timentur,
misericorditer removeantur. Datum Coloniae Nonis Maii M.DC.XXXXI.
[Carissimo fratello in Cristo, salute.
Dalle ultime tue lettere sono messo al corrente
che la nostra congregazione è minacciala dal pericolo, e non c'è nessuno che
possa sollevarla, se la mano onnipotente di Dio non ci presta il suo aiuto. Una
volta che gli incendi sono cresciuti troppo, diluvi di lacrime non servono a
nulla, e il naufragio ormai imminente diffìcilmente potrà essere riscattato
dalla dolcezza del porto. Come la famosa statua di quel disgraziato
Nabuccodonosor, l'aurea testa della quale, quasi ad emulazione del sole, era
supremo segno dei principi celesti, non meno si indicavano i progressi del
nostro potere nella purezza dell'argento e nella fortezza del bronzo e del
ferro. Ma da ultimo, declinando a terra, la nostra sublime altezza si imbatte
nella fragile materia, e donde era da sperare stabilità indi sorge l'occasione
della rovina. E vedi come i nostri affetti che, voltolati nelle lordure terrene
e non, come doveva essere, fissati in cielo,
costituiscono queste piante con le quali, sradicata la nostra virtù, già sta
per essere rasa al suolo ogni felicità. La troppa avidità di guadagno per cui
ci preoccupiamo di trovare un posto nelle corti dei principi per poter
possedere delle casse [e 'casse da morto', anche] ripiene d'oro,
mostra un appetito quasi insaziabile, per nulla simile alla povertà di Cristo.
Appare chiaro che siamo ritenuti primati dei ricchi, non compagni di Gesù, e di
qui accade che ci deprimiamo con le nostre mani mentre desideriamo salire più
in alto. Ormai è nota la nostra sollecitudine nell'erigere sublimi edifici che,
splendenti di marmorea dignità e di ricco fulgore, avvicinano al cielo i trofei
dell'umiltà abbattuta. Guai a noi, che superbi di queste magnifiche sedi
soffochiamo la virtù, tanto più poveri di spiritualità quanto più estendiamo le
nostre glorie mondane. Invidiamo gli onori ai laici, ne usurpiamo i beni, e
mentre pensiamo a guadagni sempre maggiori il nostro deficit cresce di giorno
in giorno. Vana è l'ipocrisia di quelli che ora torcono il collo, ora abbassano
gli occhi, ora tengono la bocca sempre occupata a mormorare giaculatorie,
mostrano le mani solo intrecciate di coroncine e intanto dimenticano la santità
e mostrano sentimenti contrari alla virtù. Per via di questo, fratello mio,
siamo ormai disprezzati da tutto il mondo, non come impongono i desideri degli
apostoli ma come obbligano a fare i nostri vizi. Questa non è la via dei santi,
e quelli che ci diedero i precetti non ci avevano lasciato queste orme da
seguire. E come spereremo che la nostra società possa durare nei secoli, se
passato appena un secolo già noi, abbandonata la retta via, corriamo al
precipizio? In Spagna, dove furono le radici e i germi di questa nostra madre,
il vigore è inaridito e, già devastate le glorie nello stesso utero donde siamo
nati, ci minacciamo il sepolcro nel quale giacere estinti? Perfino lì i
domenicani sono preferiti a noi, ed è giusto: noi che disprezziamo tutti gli
altri collegi religiosi siamo a nostra volta disprezzati avanti a tutti. In
Francia siamo riusciti a restaurare la nostra fortuna ma non a recuperarla, in
Germania, se non siamo andati indietro, di certo non siamo andati avanti. E
ormai inutili sono quelle frodi con le quali i nostri, troppo sfacciati,
abusarono della benignità del defunto imperatore. In Italia esuli dalla
Repubblica di Venezia, nelle altre parti se non scacciati disprezzati, godiamo
i proventi della poca stima per non dire del disprezzo. A Roma, come tu stesso
ammetti, dove di continuo moltiplichiamo i nostri monasteri, tanto minori
teatri di virtù apriamo e ai monumenti di santità altrui uniamo i nostri
superbi costumi e la nostra avarizia. Che ci rimane dunque se non costituire i
termini della nostra gloria sulle rive dell'India? Che fioriscano in quei
deserti quando non riescano più a verdeggiare nei giardini d'Europa. Solo che
anche lì decrescono e perdono le pompe dell'antico decoro. Di certo da questi
frutti di lacrime sono indotto a funebri riflessioni, perché è lecito aspettare
che sia vicina la morte quando, prima di compiere un solo secolo, il corpo [della
nostra congregazione] è di già così illanguidito. Che Dio tenga lontani quei
mali che lo costringono a ricorrere ai supplizi, e innalzando alle cose supreme
le menti di coloro che nutriscono i propri danni, respinga le imminenti
calamità affinchè i fulmini che a buon diritto si aspettano misericordiosamente
siano tenuti lontano da noi.]
«Ecco — disse chi leggeva — terminata la confessione di questo buon
Padre, il quale con una sincera verità ha esposto le communi colpe della sua
Religione».
«Sarebbe inconveniente — soggiunse il Marchese — che non esercitasse il modo
di ben confessarsi, chi l'insegna ad altri».
«Quasi che — ripigliò il Barone — eglino stessi non lascino di pratticare il
modo di ben vivere, che pure propongono co' loro insegnamenti».
«E parvi — disse il Cavaliere — che non vivano bene questi buoni Padri, li
quali nel mangiare e nel bere emulano il lusso de' più Grandi, e in altro
particolare godono delizie di Cardinali?».
«V'intendo — disse il Conte —, ma lasciamogli in grazia nella loro pace, e
investighiamo altra materia di trattenimento, per contrapesare la noia,
arreccata da questa leggenda latina». Apriva allora per appunto nuova lettera,
e steso il foglio, in tal tenore fece favellare que' caratteri :
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