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Molto Illustre Signor mio.
E pur è necessario l'aver un amico, a cui si manifestino le proprie
passioni, per disacerbarne il dolore, tanto più grave quanto è più celato.
Quindi fa di mestieri l'importunare V.S. con questa
lettera, per svaporare gli umori di quella piaga, in cui sono riconcentrate le
mie pene, facendone racconto a chi almeno mi favorirà di compatirle. Sono in
corte. Tanto basti per darle ad intendere l'Inferno che mi trattiene, li
diavoli che mi tormentano. Sono in questo ricinto d'angustie, nel quale
trionfano gli affanni più dolorosi, protetti dall'autorità de' Grandi, ch'ivi
gli mantengono a spese degl'infelici che lor servono. Oh Dio, quando penso
d'essere in un luogo in cui anche l'oro, per altro desiderabile, pendendo da'
superbi tetti minaccia morte con la sua caduta, ben m'avveggo qualmente le grandezze
maggiori sono segni di miserabili precipizii! Lo splendore, di cui altri vago
crede di ritruovar un Sole, è un lampo che atterrisce, dinotando la vicinanza
de' fulmini. Tutto ciò in somma, ch'altrove concorre alle pompe d'una
estraordinaria felicità, incantato entro questo circolo di figurata Maestà, si
trasforma in una essenzial cagione di tutte le sciagure. Misero colui, che si
conduce a far numero in un consorzio d'uomini li quali hanno per necessario
impiego le sceleratezze, imbevuti d'ogni più maligna qualità per corrompere chi
lor vive vicino. Può dirsi ch'entri in una scola di frodi, e tradimenti, li
quali s'imparano per vedergli, a parte a parte, più dolorosamente pratticati
nelle proprie fortune. Perfida obligazione, che troppo stranamente tiranneggia
un animo ragionevole, necessitato ad operare contra l'umanità, s'egli non vuol
essere peggio trattato de' bruti. Verità pur troppo deplorabile, che per la
frequenza degli esempi non può condannarsi, quasi falsa, mentre sogetti sublimi
in virtù, o in merito si veggono famelici, e malmenati nelle corti, là dove le
bestie hanno copioso il cibo, e abbondanti i servi. I buffoni per certo, gli
adulatori, e altri viziosi peggiori delle belve, sono trattati in guisa che
genera invidia la loro prosperità, dovendo altrimente cagionar terrore li loro
tormenti. Oh come bene è rassomigliato lo stato della corte al sito d'un monte
erto, e scosceso, alla cui sommità non può giungersi che per vie indirette,
quali sono per appunto le sceleratezze: unico sentiero per truovare il posto
desiderato della grazia de' Grandi. Con tortuosi raggiri di varii
sconvolgimenti, appianati dalla simulazione, fa di mestieri secondare l'altrui
volere, se deve fondarsi pensiero di lasciar le bassezze che si fuggono da chi
con soverchio disprezzo si vede mai sempre calpestato. Offende maggiormente tal
volta la necessità d'avanzar posto nell'affezzione d'un privato, il quale
essendo il favorito appresso il Principe, con una superba alterezza sta così
ritto, che più facile sarebbe il toccar il Cielo con le dita, di quello riesca
il poter sollevarsi fin all'esser cortesemente rimirato da un di costoro. E
pure senza lambire li piedi di questi, è impossibile lo sfuggire d'essere sotto
li piedi anche de' più vili. Pensi il Cortigiano che la sua ascesa può
succedere solo in sembianze di fumo, facile al dispergersi, e per altra parte
accompagnato da necessaria conseguenza di fuoco, che arde e consuma. Quanti
patimenti fa di mestieri tolerare ad un infelice, il quale risolva di tentare
il paraggio delle sue fortune a quello d'un ciurmatore, d'un musico, d'un
pazzo, e talor anche d'una Simia o d'un cane? È necessario essere una statua
tutto giorno in un'anticamera; servire al corteggio, caminando quasi bue sotto
giogo che strascina il carro in cui va sussiegata l'alterezza del Grande;
l'essere bersaglio delle persecuzioni di chi deprime, o degli scherzi di chi
pretende dar motivo di ridere al suo Signore cogli altrui dileggiamenti. La
vita in somma di chi serve in corte richiede un'anima senza spiriti ragionevoli,
un cuore privo di senso, fingendosi almeno insensato alle punture de' maledici,
ai detti mordaci de' buffoni, e al maccello che fanno della riputazione, se non
d'altro, gl'invidiosi, e i maligni. Quando non meritasse biasimo l'applicazione
a tal esercizio, avrebbe merito di gran lode la constanza nel non risentirsi un
uomo, mentre pure per tante parti è afflitto, e quasi lacerato. È nondimeno
vero il dire necessaria questa schiavitudine in chi dalla nascita sotto il
dominio d'un Principe privato, si destinò trofeo di sorte così crudele; o pure
dal primo ingresso in questa rete, scorge prescritta la pena d'impossibile
scampo al fallo della sua inavvedutezza. Chi lascia la corte, dà a credere
alcuna colpa, il cui timore lo scacci, o diffidenza nel Grande, onde dubiti non
rinumerata la sua servitù. Concetti l'uno abborrito da animo nobile, e
generoso, pregiudiciale l'altro per il rigore di chi ricusa vedere condannare
le sue ingiustizie, anche da sospetti. Questa è la catena da cui inceppati li
più saggi fanno contradire la prattica del vivere alla teorica
degl'insegnamenti. Così con le fila della speranza rimangono sospesi in tale
stato, fin che tra diversi ravvolgimenti quelle variamente ritorte formano una
fune, da cui essendo strozzati, rimangono miserabilmente estinti. Tal fine
attendo anch'io del mio servire, disperato di sortir esito migliore, mentre
molti anni di stenti in questa corte non m'hanno acquistata che l'opportunità
d'avvertir altri di que' mali, ch'io stesso non posso fuggire. In somma liberi
il Cielo da tale stato chi forse non ha nelle pene che lo seguono il cambio
d'un perpetuo Inferno. Compatite, o amico, la mia condizione, e condanate il
tedio di queste mie, forse troppo longhe querele, a questa ultima sciagura, ma
forse maggior delle altre, propria delle corti: di non aver cioè alcuno a cui
possano confidarsi li secreti dell'animo, con cui s'esali il cordoglio, che
rode le viscere, quando non si tramandi alla lingua. Ricordatevi della nostra
amicizia, ancorché non siate in istato di gustarne li frutti, mentre sono tanto
miserabile che sono né meno di me stesso. Mi vi offro però, e per fine vi bacio
le mani.
«Questa è musica per noi — disse il Conte — conforme la quale può ciascuno
far concerto, su'l libro della sua vita».
«Sarà canto cromatico — soggiunse il Marchese — composto di note
lagrimevoli, quale s'usa in occasione d'esequie».
«Stimo — seguì il Barone — che con più proporzionata similitudine non possa
esprimersi il nostro stato, che circonscrivendosi con la Musica, la quale fa
disperger il fiato per altrui diletto, non altrimente consumando il cortegiano
la vita, e lo spirito per compiacere al Grande, a cui egli serve».
«Aggiungete pure — ripigliò il Cavaliere — necessaria l'imitazione de'
Musici nell'ascendere di grado in grado, osservandosi che come il fa finto è il
carattere più alto della Musica, così le finzioni, e la simulazione sono la più
alta nota con cui possa sollevarsi un cortegiano».
«E dove — replicò il Conte — tralasciate gli diesis, ne' quali fa di
mestieri falsificare la voce ordinaria, e questi pure nelle corti fanno buon
concerto a gli orecchi de' Principi».
«Già che — disse il Barone — siamo in questo discorso, non devono
tralasciarsi le ascese di quarta, di quinta, di settima, quando senza merito, e
ordine è sollevato taluno all'improviso, non per altri gradi che quelli ha
rappresentati la volontà del regnante, avvezza al favorire li meno meritevoli».
«Sono pur anche — soggiunse il Marchese — notabili le discese d'ottava, le
quali col rimbombo inorridiscono, per le sciagure de' miseri, ch'ad un tratto
precipitando, decadono da posto sublime senza lor colpa».
«Tutto va bene — ripigliò il Cavaliere — già che pause, e sospiri non
mancano in questa musica, a chi canta su'l libro che tiene inanti gli occhi de'
mali trattamenti de' Grandi, e delle communi miserie, le quali hanno campo
aperto nelle corti».
«La peggior condizione di questa dolorosa Musica — disse il Conte — è
l'obligo di regolarsi al mastro di capella, il quale è il regnante medesmo, che
con mano pesante ha una battuta così disordinata, e indiscreta, che astringe a
piangere, non a cantare».
Sospirò il Marchese, forse per avere piaga più nuova, la quale si risentiva,
ritoccata da queste punture di dolorosa rimembranza. A fine però di rimuovere
questa pena, volle che si cangiasse tenore, là onde egli stesso propose altra
lettera, la quale così diceva:
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