Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

IntraText CT - Lettura del testo

  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
    • -28-
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

-28-

 

Molto Illustre Signor mio.

E pur è necessario l'aver un amico, a cui si manifestino le proprie passioni, per disacerbarne il dolore, tanto più grave quanto è più celato. Quindi fa di mestieri l'importunare V.S. con questa lettera, per svaporare gli umori di quella piaga, in cui sono riconcentrate le mie pene, facendone racconto a chi almeno mi favorirà di compatirle. Sono in corte. Tanto basti per darle ad intendere l'Inferno che mi trattiene, li diavoli che mi tormentano. Sono in questo ricinto d'angustie, nel quale trionfano gli affanni più dolorosi, protetti dall'autorità de' Grandi, ch'ivi gli mantengono a spese degl'infelici che lor servono. Oh Dio, quando penso d'essere in un luogo in cui anche l'oro, per altro desiderabile, pendendo da' superbi tetti minaccia morte con la sua caduta, ben m'avveggo qualmente le grandezze maggiori sono segni di miserabili precipizii! Lo splendore, di cui altri vago crede di ritruovar un Sole, è un lampo che atterrisce, dinotando la vicinanza de' fulmini. Tutto ciò in somma, ch'altrove concorre alle pompe d'una estraordinaria felicità, incantato entro questo circolo di figurata Maestà, si trasforma in una essenzial cagione di tutte le sciagure. Misero colui, che si conduce a far numero in un consorzio d'uomini li quali hanno per necessario impiego le sceleratezze, imbevuti d'ogni più maligna qualità per corrompere chi lor vive vicino. Può dirsi ch'entri in una scola di frodi, e tradimenti, li quali s'imparano per vedergli, a parte a parte, più dolorosamente pratticati nelle proprie fortune. Perfida obligazione, che troppo stranamente tiranneggia un animo ragionevole, necessitato ad operare contra l'umanità, s'egli non vuol essere peggio trattato de' bruti. Verità pur troppo deplorabile, che per la frequenza degli esempi non può condannarsi, quasi falsa, mentre sogetti sublimi in virtù, o in merito si veggono famelici, e malmenati nelle corti, dove le bestie hanno copioso il cibo, e abbondanti i servi. I buffoni per certo, gli adulatori, e altri viziosi peggiori delle belve, sono trattati in guisa che genera invidia la loro prosperità, dovendo altrimente cagionar terrore li loro tormenti. Oh come bene è rassomigliato lo stato della corte al sito d'un monte erto, e scosceso, alla cui sommità non può giungersi che per vie indirette, quali sono per appunto le sceleratezze: unico sentiero per truovare il posto desiderato della grazia de' Grandi. Con tortuosi raggiri di varii sconvolgimenti, appianati dalla simulazione, fa di mestieri secondare l'altrui volere, se deve fondarsi pensiero di lasciar le bassezze che si fuggono da chi con soverchio disprezzo si vede mai sempre calpestato. Offende maggiormente tal volta la necessità d'avanzar posto nell'affezzione d'un privato, il quale essendo il favorito appresso il Principe, con una superba alterezza sta così ritto, che più facile sarebbe il toccar il Cielo con le dita, di quello riesca il poter sollevarsi fin all'esser cortesemente rimirato da un di costoro. E pure senza lambire li piedi di questi, è impossibile lo sfuggire d'essere sotto li piedi anche de' più vili. Pensi il Cortigiano che la sua ascesa può succedere solo in sembianze di fumo, facile al dispergersi, e per altra parte accompagnato da necessaria conseguenza di fuoco, che arde e consuma. Quanti patimenti fa di mestieri tolerare ad un infelice, il quale risolva di tentare il paraggio delle sue fortune a quello d'un ciurmatore, d'un musico, d'un pazzo, e talor anche d'una Simia o d'un cane? È necessario essere una statua tutto giorno in un'anticamera; servire al corteggio, caminando quasi bue sotto giogo che strascina il carro in cui va sussiegata l'alterezza del Grande; l'essere bersaglio delle persecuzioni di chi deprime, o degli scherzi di chi pretende dar motivo di ridere al suo Signore cogli altrui dileggiamenti. La vita in somma di chi serve in corte richiede un'anima senza spiriti ragionevoli, un cuore privo di senso, fingendosi almeno insensato alle punture de' maledici, ai detti mordaci de' buffoni, e al maccello che fanno della riputazione, se non d'altro, gl'invidiosi, e i maligni. Quando non meritasse biasimo l'applicazione a tal esercizio, avrebbe merito di gran lode la constanza nel non risentirsi un uomo, mentre pure per tante parti è afflitto, e quasi lacerato. È nondimeno vero il dire necessaria questa schiavitudine in chi dalla nascita sotto il dominio d'un Principe privato, si destinò trofeo di sorte così crudele; o pure dal primo ingresso in questa rete, scorge prescritta la pena d'impossibile scampo al fallo della sua inavvedutezza. Chi lascia la corte, a credere alcuna colpa, il cui timore lo scacci, o diffidenza nel Grande, onde dubiti non rinumerata la sua servitù. Concetti l'uno abborrito da animo nobile, e generoso, pregiudiciale l'altro per il rigore di chi ricusa vedere condannare le sue ingiustizie, anche da sospetti. Questa è la catena da cui inceppati li più saggi fanno contradire la prattica del vivere alla teorica degl'insegnamenti. Così con le fila della speranza rimangono sospesi in tale stato, fin che tra diversi ravvolgimenti quelle variamente ritorte formano una fune, da cui essendo strozzati, rimangono miserabilmente estinti. Tal fine attendo anch'io del mio servire, disperato di sortir esito migliore, mentre molti anni di stenti in questa corte non m'hanno acquistata che l'opportunità d'avvertir altri di que' mali, ch'io stesso non posso fuggire. In somma liberi il Cielo da tale stato chi forse non ha nelle pene che lo seguono il cambio d'un perpetuo Inferno. Compatite, o amico, la mia condizione, e condanate il tedio di queste mie, forse troppo longhe querele, a questa ultima sciagura, ma forse maggior delle altre, propria delle corti: di non aver cioè alcuno a cui possano confidarsi li secreti dell'animo, con cui s'esali il cordoglio, che rode le viscere, quando non si tramandi alla lingua. Ricordatevi della nostra amicizia, ancorché non siate in istato di gustarne li frutti, mentre sono tanto miserabile che sono né meno di me stesso. Mi vi offro però, e per fine vi bacio le mani.

 

«Questa è musica per noi — disse il Conteconforme la quale può ciascuno far concerto, su'l libro della sua vita».

«Sarà canto cromaticosoggiunse il Marchesecomposto di note lagrimevoli, quale s'usa in occasione d'esequie».

«Stimoseguì il Barone — che con più proporzionata similitudine non possa esprimersi il nostro stato, che circonscrivendosi con la Musica, la quale fa disperger il fiato per altrui diletto, non altrimente consumando il cortegiano la vita, e lo spirito per compiacere al Grande, a cui egli serve».

«Aggiungete pureripigliò il Cavalierenecessaria l'imitazione de' Musici nell'ascendere di grado in grado, osservandosi che come il fa finto è il carattere più alto della Musica, così le finzioni, e la simulazione sono la più alta nota con cui possa sollevarsi un cortegiano».

«E dovereplicò il Contetralasciate gli diesis, ne' quali fa di mestieri falsificare la voce ordinaria, e questi pure nelle corti fanno buon concerto a gli orecchi de' Principi».

«Già che — disse il Barone — siamo in questo discorso, non devono tralasciarsi le ascese di quarta, di quinta, di settima, quando senza merito, e ordine è sollevato taluno all'improviso, non per altri gradi che quelli ha rappresentati la volontà del regnante, avvezza al favorire li meno meritevoli».

«Sono pur anche — soggiunse il Marchesenotabili le discese d'ottava, le quali col rimbombo inorridiscono, per le sciagure de' miseri, ch'ad un tratto precipitando, decadono da posto sublime senza lor colpa».

«Tutto va beneripigliò il Cavaliere — già che pause, e sospiri non mancano in questa musica, a chi canta su'l libro che tiene inanti gli occhi de' mali trattamenti de' Grandi, e delle communi miserie, le quali hanno campo aperto nelle corti».

«La peggior condizione di questa dolorosa Musicadisse il Conte — è l'obligo di regolarsi al mastro di capella, il quale è il regnante medesmo, che con mano pesante ha una battuta così disordinata, e indiscreta, che astringe a piangere, non a cantare».

Sospirò il Marchese, forse per avere piaga più nuova, la quale si risentiva, ritoccata da queste punture di dolorosa rimembranza. A fine però di rimuovere questa pena, volle che si cangiasse tenore, onde egli stesso propose altra lettera, la quale così diceva:

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License