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Illustrissimo Signor mio.
Ero in gran confusione all'intendere che V.S.
Illustrissima non aveva ricevute le ultime mie lettere, le quali speravo dover
riuscire di sua somma sodisfazzione. Sapevo qualmente il Corriere svaligiato, a
cui furono consegnate, non era stato sollevato che dagl'invogli pesanti di
gemme, danari, e altre merci di pregio, perché li professori di tali atti di
carità hanno mai sempre riguardo al maggior peso, per liberarne dall'aggravio
li viandanti. Non sapevo però conoscere d'onde procedesse l'esser andato
fallito il ricapito de' miei dispacci, li quali non poteano servire
all'avarizia di questi mercatanti.
Ora m'ha tratto fuori di sospetto l'avviso d'un amico, che mi ragguaglia
qualmente il medesmo Corriero, spogliato prima da' malandrini, altrove poi era
stato necessitato da nuova sorpresa al lasciare vuote le valigi anche di
lettere. Si presentò la querela al Magistrato del luogo, dove erasi commesso il
secondo delitto, il quale co' termini della solita giustizia, facendo
inequisizione del delinquente, disegnava severo castigo per delitto così
spropositato, da non iscusarsi né meno con l'attrattiva d'alcun giovamento,
quando però non fosse stato preteso il compiacimento d'una perversa intenzione.
La sola fama di simile ordine publicato da' giudici, tolse ogni fatica a chi
aveva l'incarco di ritruovare il reo, poiché egli stesso comparve volontariamente
al loro tribunale. Questi era un vecchio di picciola statura, ch'incurvati gli
omeri sotto una somma di malizia, era quasi necessitato a tener il capo basso
verso terra, per imitare le bestie nella positura del corpo, come le
rassomiglia ne' costumi. Intendo essere di buon cognome, non so se così di
buona nascita. Precorse ogni interrogazione in publicare la colpa, come quello
che sempre ha stimato gloria l'operar male. Nominò zelo il motivo da cui erasi
condotto al trattenere queste lettere, presentendo già molto tempo avanti che
con soverchia libertà si scrivevano gl'interessi de' Principi, e altri
particolari indegni d'avere libero lo scorrere su l'ale de' fogli. Propose di
far apparire questa verità, favellando con tal arte che già quasi trionfava
nella mente de' giudici la palliata ipocrisia di costui. Ma essendovi tra
quelli chi aveva notizia della di lui vita, assicurò qualmente non doveva
credersi intenzione sì retta, in chi aveva mai sempre dati saggi di sinistro
volere. La più giusta causa, con cui potesse coonestarsi questa sua temeraria
azzione, era il timore di veder publicate lettere contro di sé; come che la
fama, se non de' suoi vituperi delle sue pazzie, somministra penne per
scrivere, come egli dubita. Trattone questo pretesto, non totalmente
spropositato, fu detto non poter attribuirsi ad altro che a malignità atto così
indecente. Il giudicio non poteva essere fallace, essendo quello convinto reo
in simil genere di colpa da una consuetudine già familiare, e quasi
connaturale. Con tutto ciò la benignità de' giudici, compassionando il poco
senno della vecchiezza, in chi massime non sapeva che cosa fosse cervello, se
non forse alcuno di bue arrostito, l'assolse, licenziandolo come pazzo, e in
oltre proveduto d'una qualità, fatta poco meno ch'essenziale, onde è suo
proprio il non dar gusto ad alcuno. Sin con la presenza offende, che però non è
maraviglia se, per non far mentire le sembianze, egli conciti contro di sé
l'odio di tutti co' trattamenti. La sentenza fu confermata, sì perché queste
due veritadi erano irretrattabili, sì pure perché giovò l'amicizia di molti de'
giudici, li quali erano suoi parziali. Veda dunque V. Signoria Illustrissima
onde proceda il mancamento del non avere ricevute le lettere, ch'essa attendeva
con somma curiosità. Fa di mestieri aver pazienza, quando porta la fortuna
d'aver briga con maligni, o con mentecati. Sarà mia nuova fatica il ricomporre
quelle scritture, nelle quali colpirò lo scopo di prima nella curiosità della
materia, se non nella dettatura. L'intraprenderò di buona voglia per servire a
V.S. Illustrissima, pronto ad ogni altro impiego, in cui
con mio maggiore incommodo, io possa dimostrare maggiormente la mia servitù, la
quale offro a V.S. di tutto cuore; e per fine, etc.
«Bizarro capriccio — disse il Cavaliere — di questo vecchio, degno d'esser
conservato appeso con una gran fune, quasi memoriale d'un atto di tanto zelo».
«Anzi egli stesso — aggiunse il Conte — dovrebbe pender a vuoto sotto un
arco trionfale, per formare un festone in pompa di gloria acquistatasi con
impresa memorabile».
«Deve per il meno argomentarsi — ridisse il Conte — ch'egli non porti alcun
in groppa, come suol dirsi, usando egualmente li suoi termini incivili nel dar
disgusti a ciascuno, come testifica chi scrive».
«Questo non portar in groppa io non admetto — ripigliò il Marchese — poiché
ribambito questo vecchio, come nel cervello così negli atti puerili, ha per
unico trattenimento il portar in groppa, tanto più godendo quanto più se gli
calca addosso».
«Forse ciò deve succedere — disse il Barone — per desiderio di vedersi
appianato il dorso, posto quasi in soppressa da chi l'opprime, e in tal modo
levare il mancamento della gobba».
«A fè — replicò il Conte — che questa difficilmente si toglie da' vecchi,
essendo un naturale contrasegno che il cervello, il quale si parte dal capo,
discende alle calcagna; che però nel vigore del suo primo moto, ingrossa di tal
maniera gli omeri».
Il Cavaliere, che già invecchiava, negò d'udire maggiori biasimi della
vecchiezza, quali forse avrebbe portati il proseguire questo discorso. Quindi
l'interruppe con la proposta d'altra lettera, che così diceva:
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