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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Amatissimo Tirone.

Uscito dal laborioso esercizio de' continui studii, o mio caro garzone, per allentare col passatempo della villa l'animo, che quasi arco, secondo la Ciceroniana sentenza, nel fermarsi troppo lungamente teso, scorre pericolo d'infrangersi, escrucciati li miei desideri, che non possono comportarvi lontano. Posso chiamarvi incendiario amoroso che m'abbrugiate il cuore, essendo io poco meno che invaghito del vostro buon talento, e della vostra pieghevole natura. Più d'una volta la vostra persona mi solleva alle sfere, nella contemplazione di quella potenza, d'onde siete uscito così perfetto, che ben posso ammirare in voi la figura circolare, come quella ch'eccede ogni altra in merito di perfezzione. Sarete un mappamondo di scienze, quando io possa in tempo diuturno lavorare l'inculto terreno del vostro giudicio col mio astrolabio, e tener fermo nel mezo il compasso, per aggirarmi poscia all'intorno della vostra circulazione. E se bene rassembrarete Firmamento nella sodezza, e fermezza, con cui riceverete la mia dottrina, io con tutto ciò sarò intelligenza motrice della vostra sfera. Ho gran diletto, quando posso spinger avanti in voi quella forma, ch'imprimono li miei insegnamenti, per levare que' rudi principii li quali rendono miserabile l'intelletto, e allargare il foro all'ingresso delle più recondite scienze. Non vorrei che questo poco sollevamento dalle studiose lucubrazioni cagionasse la dimenticanza di sì bell'uso, diventando inscio degli precetti dàtivi fin ad ora, per buon inviamento ad altre dottrine. Avvertite di non perdere la facilità, con cui sapevate truovare buona concordanza, allor quando io vi proponevo un caso retto; come pure l'attitudine al far i latini per gli passivi, al che hovvi avvezzato, come che rendono l'orazione molto più elegante. Non usate troppo gli attivi, a fine di non imbevervi di contrario costume; e se pure talvolta v'occorre l'esercitare in questi le regole da me insegnatevi, rivolgetevi subito al fargli in passivo, per assicurare una buona consuetudine. Altrimente diventando voi immemore di sì bell'uso, al vostro ritorno io sarei in necessità di maneggiare la mia sferza, che ora si va indurando, e farà di mestieri che me l'aggiri per le mani, quando non incontri in voi la solita capacità per apprendere quanto dono in pasto al vostro intelletto. Non permettete alla interposizione di questo tempo l'insinuarvi terrore con la difficoltà, che va congiunta alla durezza delle scienze, la quale può ammollirsi dal vostro esercizio, e dal fervore dello studio, con cui ruminando li documenti che vi si danno, su'l fine toccarete con mano esser poco, e quasi nulla, ciò che da principio, e in durezza, e in grandezza, rassembrava un monte. Ripetendo nella memoria ciò che v'è riuscito sotto la mia disciplina, potrete accertarvi di questa verità, confessandovi più d'una fiata stupido allo scorgere fatto in poco d'ora Pigmeo senza sussitenza, e senza forze, chi pareva inanti un colosso ingigantito. Tanto può e vale un giovine quando coopera alla bontà dell'insegnamento, che raffiguro per appunto nella cera, ch'indurata, e intirizzata dal freddo, concorrendo il calore d'estrinseco ogetto, s'intenerisce, dilegua, anzi si consuma. Alla macina della intelligenza si richiede un moto rapido, e veemente; che allora ben presto vi si fa trito ogni grano, benché duro come un osso. Non vi credo già oblivioso della difficoltà che prima avevate in congiungere l'aspirativa oh col dattivo mihi, nel che facesti tale prattica, che quasi ad ogni ora sentivo ripetersi quel verso Oh mihi quam dulcis, etc. Similmente pareva strano l'obligo di porre sempre l'o inanti al vocativo, il che nondimeno tanto v'inculcai nella mente, che si tramutò in consuetudine il rispondermi, ogni qual volta vi chiamavo, con l'o Magister ecce adsum. Ciò vi riduco a memoria, accioché nell'ozio presente inselvatichito l'ingegno, e ritornato al primo stato di strettezza, con cui l'ignoranza chiude l'adito al sapere, non vi riduciate a termine di non lasciare penetrare con la solita prontezza li miei documenti; o pure sentendo qualche nuova passione, per il mancamento dell'uso, v'assicuriate ciò non procedere da maggiore durezza della materia, ma dall'esservi disavvezzato, là onde risolverete di soffrire ogni patimento per ripigliare la ordinaria consuetudine, che vi rende agevole il sodisfare al precettore. Osservate finalmente di non ricevere le regole d'alcun altro, mentre siete da me lontano, posciaché essendo diverse dalle mie, come che la sostanza della dottrina è la stessa, ma diversa la quantità, e la qualità, confondereste voi stesso, e a me usurpareste il contento che pruovo al vedervi proclive all'apprensione delle mie, come più ordinarie, e meno istravaganti. Che se da altri quasi a viva forza permetteste inserta nella vostra mente una dottrina esorbitante, non più sareste atto al trattener la mia, la quale vacillarebbe, non appresa con la solita corrispondenza, in cui ho pruovata mai sempre la capacità della forma, aggiustata alla materia, ch'io proponevo. Non ho altro di che avvisarvi, posciaché la scienza, di cui sono avvezzo di far voi a parte, abbonda solo in vostra presenza. Al ritorno, che attendo in breve, frequentarò gl'insegnamenti per risarcire li danni del tempo decorso. In questo mentre non vogliate dimenticarvi del vostro diletto precettore, il quale per fine vi si raccommanda.

 

«Chi scrive — disse il Cavaliere — è un Pedante, cioè a dire la feccia della umanità, e il fiore, anzi una quinta essenza de' peggiori».

«Con una dottrina di quattro h — soggiunse il Barone —, come suol dirsi per proverbio, hanno una scienza d'aspirazioni, che si risolve in aria, o anche in nulla».

«E pure èvvi la speranza in alcuno — seguì il Conte — di veder sollevato il merito della propria virtù alle glorie de' primi letterati».

«La superbia — ripigliò il Marchese — è qualità connaturale a questa canaglia, ben raffigurata in un Asino, il quale con maestoso sussiego assiso in una catedra, pone gli occhiali, e fissandosi nel Cielo si dà a credere applicato alla contemplazione».

«È proprio de' porci — replicò il Barone — il tralasciare di rugnire, quando tengono sollevato il capo. Quindi forse l'inalzano queste bestie in atto d'eccelsa speculazione, accioché non appariscano segni della loro bestialità».

«Non ci ammorbiamo più in grazia — conchiuse il Cavaliere — nel lezzo delle infamie di costoro, abominevoli anche in atto di vituperarle». Per cangiare discorso mutò foglio, in cui variate le note de' caratteri poteano dilettarsi con diverso tenore. Così era scritto:

 




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