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Ferrante Pallavicino Il corriero svaligiato IntraText CT - Lettura del testo |
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Molto Reverendo Padron mio. V.S. che per la somma virtù è onorata da' primi luoghi di Parnaso, sarà informata a mio credere degli affari di quella corte. Ho però stimato di non poter incontrare miglior mezo, per accertarmi d'un successo riferito da alcuni, li quali giurano d'essere testimoni di vista. Ma pure conoscendo io costoro, più superbi che virtuosi, in modo che non posso giudicargli introdotti in quel sacro luogo, non ho potuto appagar l'animo con una ferma certezza. La curiosità mi spinge ad importunarla, a fine di poter impetrare su li di lei attestati questa sodisfazzione d'animo. L'avviso dunque è giunto in tale forma. Raccontano che a' giorni passati un mercatante da caviale, e altri salumi, addimandò audienza appresso S.M., concessagli prontamente come che d'indi è sbandita la tirannide, e alteriggia propria de' Principi, li quali nauseano la presenza, non che le parole de' più vili. I suoi trattati furono un'amara condoglienza contro del suo Cameriere, il quale aveva applicati al necessario alcuni libri, che come buoni da nulla si rigettavano, e per uso ordinario a quegli consegnavansi, accioché servissero a l'invoglio delle sue merci. Il mancamento di questa solita provisione riuscivagli di molto discapito, come che obligavasi a maggiore spesa in carta bianca. Furono osservate le sue querele, con determinazione d'adunare alcuni virtuosi, li quali facendo l'elezzione de' libri occupati dal Cameriere, accusassero in esso una maligna intenzione per averne usurpata all'altro la parte che se gli s'aspettava. Fu eseguito l'ordine, e furono riportati sopra d'una grande tavola tutti que' fogli, che aveano meritato un tale disprezzo. Ora nell'esercizio di questo impiego, ritruovarono molte delle proprie composizioni quelli che già erano stati destinati al rivederle. Le fiamme nel viso, gli occhi torvi, li gesti sconcii, sono contrasegni di sdegno insufficienti all'esprimere la grande rabbia di coloro, che altrimente presumendo di loro stessi sopra d'ogni altro, scorgevano la sentenza da cui publicavasi la viltà de' loro scritti. Non contenti delle minaccie, vollero trascorrere alle battiture, e alle ferite contro del Cameriere, come che aveva esposte all'essere fregiate di sterco (degno ricamo di que' caratteri) carte ch'eglino apprezzavano meritevoli d'ornamento di gloria. Lo strepito chiamò Appollo, all'ingresso di cui arrossirono i litiganti a' rimorsi della coscienza, per la colpa commessa, fatti irriverenti a quel sacro luogo. Procurarono di sepelire con l'ardimento la confusione, e dell'animo, e della lingua, là onde esclamarono contro il Cameriere, attestando qualmente tutti que' libri erano da sardelle, e da caviale, malignamente però impiegati ad altro, con danno del mercatante. Giusta sentenza in cui, essendo avidi di condannar quello, diedero alle proprie composizioni quel posto, che converrà loro tenere, posciaché il giudicio dell'interessato medesmo, quando condanna, è irretrattabile. Avvidesi S.M. del predominio della passione, che rendeva parziale questo scindicato, là onde presesi diletto di fare nuova rassegna di quelle cartaccie, alcune delle quali aveano ricevuto onore non meritato, sotto il tetto d'una bottega, convenendosi loro per riserva un coperchio di necessario. Altre corrose da tarli, affumicate, o di materia tanto grossa, e roza, che offendevano il tatto, non che gli occhi, furono destinate al fuoco. Tanto ha narrato un ciarlatore moderno, conchiudendo una grande mortificazione in que' letteratucci, che su gli occhi propri vedeano le loro scritture valutate così altamente, correre o al necessario, o al fuoco, incaminate a tal meta da quella suprema volontà, che non poteva contrastarsi. Così è succeduto che taluno, il quale si spacciava come vitello gentile, per dar a credere di proporre dilicato pasto a gl'ingegni ne' suoi libri, s'è scuoperto un Bue. Chi credeva di vendere l'oro di molto pregio, è stato riconosciuto abbondante solo d'oro cantarino, strepitoso sì, ma di niun valsente. M'assicuro che avrà veduto il fuoco ne' suoi fogli, e degnamente, chi nello stesso cognome porta congiunti gli ardori, per non rendere diverso il merito de' libri da quello de' costumi. Chi non ha buoni vezzi, non avrà saputo lusingare la fortuna in questa occasione, né le sarà riuscito, come nell'adulare l'uno de' due Diavoli d'Europa, nel procurare di rimuovere somigliante rigore d'Appollo contro de' suoi scritti. Son certo che il sale, con grandi stridori, si sarà vendicato della condannazione alle fiamme, e avrà procurato di saltar fuori, come che sempre abbondando in presunzione, ha giudicato di meritare migliori trattamenti; tutto però indarno, essendo inviolabile la osservanza d'inevitabile decreto. Di chi ha molta lingua è superfluo il chimerizar il posto, come che buona al forbire, deve credersi che sarà andato al necessario. Chi gloriavasi d'avere fabricato su pochi fogli uno strato maestoso alla virtù, per celare all'ombra di questo le ignominie proprie della nascita, e della professione, avrà veduto un rogo acceso, per esporre in tal guisa alla luce le condizioni del suo merito. La vicinanza di Pallade non avrà giovato né meno a chi la vanta nel cognome, perché senza scudo di sapere la protezzione di questa Dea è vana, e cedono le di lei difese all'infallibile giudicio di quel Nume tutto splendori, per porre in chiaro somigliante verità. Lascio altra canaglia di molti, che uscendo nuovamente su la scena del mondo per far numero tra' letterati, non appariscono che quasi Scimie, provedute della semplice, e schietta imitazione d'alcuno de' migliori. Li scritti di costoro non furono degni d'entrare in tal contesa, impiegati per ordinario in accendere il fuoco di cucina, e a servizio de' più vili di corte. V.S. molto Reverenda mi favorisca d'un puntuale ragguaglio, per aver fortuna d'accertarmi di questi particolari. Il conoscerla pronta al far grazie mi fa ardito per ricercarle. Il desiderio di servirla mi fa importuno, accioché la mia confidenza dia moto all'auttorità, ch'ella tiene di commandarmi con assoluta disposizione di me stesso, in conformità di che me le offro di tutto cuore; e per fine, etc.
Fu arida questa lettera per gli Cavalieri, onde non puotero esprimerne materia di scherzosi motteggi; tanto più che, come disse il Conte, fora stato di mestieri il fermarsi sopra il necessario, luogo che non doveva occuparsi a chi aveva composto il ragguaglio, mentre egli appariva ambizioso di trattenerlo per suo posto. «Oltre che — soggiunse il Marchese —, l'accumulare biasimi contro li letterati è un voler esporre faci al Sole, e transgredire le leggi dell'umanità, aggiungendo afflizzioni a quelli che pur troppo, con maldicenze, e pessimi trattamenti, sono perseguitati e afflitti». Passò alle loro mani altra lettera, che così diceva:
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