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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
    • -37-
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Illustrissimo Signor mio.

Cedano le tanto decantate prodezze d'Ercole alla impresa con la quale io ho dato buon fine a gli amori di quella Dama, de' quali Vostra Signoria Illustrissima è consapevole, come partecipe de' più reconditi secreti del mio cuore. Già può rammentarsi la veemenza della passione, da cui tormentato esalavo con lei alle volte le mie pene, per disacerbare la doglia troppo acerba onde ero angustiato. Continuarono alcun tempo dopo la di lei partenza gli scherzi di quel pargoletto, che giuocando ferisce. L'amicizia col possessore di questa mia Diva aggiungevami nel godimento della di lei conversazione lacci sempre maggiori.

Quindi fatto nel cuore un nodo, quasi indissolubile, fu necessario il risolvere l'uso di quella spada, con cui simili groppi d'amore si sviluppano. Già l'appetito l'aveva arruolata, in modo che potevo assicurarmi d'un buon colpo, quando la fortuna mi avesse permessa la opportunità di porla a mano, e aggirarla a mio piacere contro l'amata nemica. Ero sforzato dalla veemenza della passione ad esercitarla da me solo con tutte quelle forme di scrimia amorosa che detta la natura, mentre s'ha il nemico medesmo a fronte. In contrappeso de' miei desideri, era la gelosa custodia del marito, onde erano tirate al basso le mie speranze, quanto più si sollevava la lance della bilancia, in cui hanno il lor peso le contentezze d'amore. Non potevo assicurarmi della corrispondenza dell'amata, poiché non avevo commodità di ricercarla, né fondamento per sperarla. Tanto essa era non sapevo se cauta o pudica, che però la domestichezza familiare tra noi non lasciava segno di fecondità, dalla quale potesse uscire alcun parto in mio compiaccimento. L'esperienza di questo, m'avvertì che gl'inganni soli poteano rendermi opportuno il porre in opera la verga, con cui dovevo levare l'incanto di tanti dolori che mi tormentavano.

Essendo la stagione estiva uno stimolo al maturare li miei pensieri, per accommunare con la messe, di cui godono anche li più vili, quella delle mie contentezze, presi l'aura dal tempo, per aver facile il varco a felice occasione. Invitai e il marito e la moglie unitamente ad una mia Villa poco distante dalla Città, a fine di dar loro con le delizie di questa alcun trattenimento. Nel palaggio avevo ordita la mia rete, per prendere questa Venere, e strettamente collegarla meco, senza temere il disturbo della malignità d'alcun Vulcano. D'una stanza molto ampia ne feci due, non con altra divisione che quella facevano le tapezzarie, le quali s'estendeano per abbigliamento anche del rimanente. Nello spazio di quattro palmi sopra terra, avevo fatto congiungere tavole incrostate con sembianze di muro, per trarre fuori d'ogni sospetto la gelosa circonspezzione del marito. Contigui al finto tramezo erano due letti, l'uno per parte; non con altro intervallo fuori di quello che comportava l'ornamento, il quale ammantava la frode. Nell'uno designai il riposo degl'invitati; l'altro, ch'a loro nascondeasi, feci posto d'insidie, d'onde io doveva star in aguato, per compirle in sodisfazzione de' miei desideri. Dopo la cena, in cui misto alcun sonnifero m'assicurava non molestato dalla vigilanza del consorte, si ritirarono al trattenimento della notte, ch'essermi doveva impiego di delizie. Tacitamente anch'io mi condussi al mio sito, con pensiero di travaglio, se ben dolce, non già di riposo. Attendevo ogni loro discorso, che valutava tanto maggiormente i miei futuri furti, mentre scuoprendo lei vantatrice di pudica fede, ed esso vantatore d'un geloso affetto, m'era suggerita dall'animo più gloriosa l'impresa di schernirgli ambedue. Principiava li suoi effetti nel marito, benché lentamente, il sonnifero; là onde prevenendo la moglie nel coricarsi, la precorse anche nel dormire. Non giovarono li vezzosi scherzi, co' quali esso era sollecitato a gli abbracciamenti, perché l'interna operazione di quello trionfava de' sensi a fine di non lasciargli liberi ad esterno impiego. M'auguravo nel suo luogo per sodisfare alle amorose instanze dell'amata, avendo io bisogno di freno, là dove quello aveva necessità di speroni per scorrere quella carriera, in cui si brama senza fine, ma non senza meta il viaggio. L'uno per sottrarsi all'importunità noiosa, si ridusse all'estremità del letto, l'altra per veder disprezzati li suoi inviti, fingendo un grazioso sdegno, si trasse in disparte su l'altro canto. Quindi nel letto, che per collocarvi i miei disegni avevo a bella posta fatto porre assai capace, rimase un vacuo bastante al ricevere la mia felicità.

Levata dunque la cortina, che formava la tapezzaria, uscii in scena, dove non ambivo avere spettatori, poiché bastavanmi gli applausi de' miei appagati desideri. Fu di molto mio gusto la comedia ristretta in due atti, accioché il voler giungere al terzo, non cagionasse il fine tragico nel discioglimento de' miei insidiosi inganni. Mi collocai nel mezo tra'l marito, e la moglie, e con questa usando libertà di consorte, quale potevo essere creduto in quel posto, entrai senza opposizione, e senza foriere di ceremonie diedi a vedere che conoscevo l'alloggiamento come proprio. Quella mostrò né meno d'essere risvegliata. Con tanta quiete mi ricevette, come stimato familiare, là dove non fosse necessario il tumultuare per il mio ingresso. All'interrotto sonno, succedette sì tosto in lei l'amorosa languidezza, che non diede segno d'aver liberi li sensi se non quando sepelì entro le mie fauci la lingua, per significare che mancava la favella; e per mostrarmi qualmente moriva, con un profondo sospiro esalò l'anima, e spirò il cuore nel mio seno. Ripassai dopo il guado stesso, e mi ritirai nel lido del mio letto, considerando essere precetto di prudenza il non abusarmi di così longa tranquillità, che concedevami amore, contro l'ordinario costume di perturbare gli altrui diletti con la inconstanza de' suoi favori. Giudicai impresa di singolar gloria il godere una dama nel letto medesmo indivisa dal marito, ad onta della gelosa custodia di questo, e in scherno della da lei professata pudicizia.

Uscii il giorno seguente co'l marito risvegliato per mio ordine di buon mattino, a fine di trattenerci unitamente nella caccia. Da questa ricordavamisi la felicità con cui io avevo uccellato la notte, e come bene avevo colpito nello scopo, anche tra le tenebre. Narrommi questi ridendo il contrasto seguito tra lui e la moglie, allor che sorse dalle piume, poiché essa accennava le dolcezze gustate nella notte, delle quali però egli protestavasi innocente quale era, avendone le mie frodi la colpa. «Credomi — disse — che abbia sognato, non avendomi mai concesso la profondità del sonno di sollevarsi i sensi ad amorose contentezze». Auttenticai anch'io questo credito d'amorosa apprensione lasciata da' fantasmi del sogno, ancorché ben sapessi qualmente non aveva dormito, chi con gli spiriti più vivaci aveva animate le mie delizie.

Non seppi fermar il corso a' miei desideri, o fosse per insaziabilità dell'appetito, o perché secondo il mio credere fossero imperfetti li passati diletti, mancando il principale condimento, cioè a dire l'aperta corrispondenza di quella ch'amorosamente si gode. Tentai di nuovo la mia sorte nella Città, beffandomi della gelosia del marito, per cui non potevo prommettermi di riuscire in questa impresa con altro mezo che d'occulte insidie. Abboccatomi seco un giorno con prevenzione d'affettuosi tratti, ricordandomele sviscerato servitore, gli diedi un bugiardo testimonio di fedele amicizia, manifestando l'intenzione d'alcuni Cavalieri spiata da me in modo sicuro di venire alla sua casa di notte, e rapirgli sin dal seno con violenze la moglie, tanto più invaghiti delle di lei bellezze, quanto più s'offendevano dal guardarla egli con tanto rigore. La seguente notte dissi essere la destinata all'impresa, con tale scompiglio dell'animo di quel buon uomo, ch'io lo rimirai nel tempo stesso confuso, stolido, e quasi tramortito. Trattavasi la perdita di quel tesoro, ch'era il suo cuore medesmo, per cui conduceva una stentata vita, nel timore che fosse participato da altri.

A me ch'ero l'oracolo si rivolse, accioché fossi il Nume propizio, e se avevo dimostrato il male, offerissi anche il medicamento. Raccommandai una esatta secretezza, in guisa che alcuno di casa, anzi la moglie né meno fosse consapevole di questi interessi. Per non insospettir questa, ch'a me molto più d'ogni altro premeva, gl'imposi di coricarsi al solito con lei, e dopo addormentata che fosse sottrarsi a lei, pervenire dove io l'attenderei, con ordinato il rimedio per ogni pericolo. Sono nella casa due porte, la principale l'una, e l'altra in capo a un giardino cinto di mura in parte più rimota. Condussi meco su l'imbrunire della sera alcuni uomini armati, con parte de' quali posi colà il marito di guardia, rimanendo io cogli altri nell'altro posto, a fine d'assicurare con le nostre persone ambedue li passi. Il concerto fu fatto di non muoversi scambievolmente, accioché quando il bisogno richiedesse d'unirsi, non si dasse campo a' nemici nella parte abbandonata, onde accorressero all'altra. Li miei soldati consegnati a quello, aveano ordine secreto di trattenerlo fin a mio avviso per propria sicurezza. Disposto il tutto conforme il disegno, giunse l'ora felice per me, poiché lasciata preda del sonno la Dama, scese il buon uomo in farsetto, ma però carico d'arme per contrapesare alla gravezza, con cui atterravalo la timidità. Ubbidì a' miei ordini, collocandosi nel luogo stabilito, e dividendosi da me con prommessa di non partirsi dalla disposizione de' miei cenni.

Ascesi con la prattica che avevo le scale, portando meco un lume coperto in lanterna doppia. Entrai nella stanza, e d'indi me ne passai al letto, dove giacendo la Dama m'introdussi ne' più angusti recessi, ne' quali si ricovera la povertà delle dolcezze terrene. Penetrai nell'archivio della riputazione del marito, e depredando tutto ciò che poteva arricchirmi di contentezze, non mi curai se la fedeltà fosse offesa, o violata l'amicizia. Nel sommo de' godimenti, rapito fuori di me stesso trascorsi in un ahimè, nota espressiva d'estraordinario piacere, da cui fui scuoperto ladro. Riconnobbe l'amata la differenza della voce, occultata fin a quel punto, o col tacere, o con falsificarne in brevissimi accenti il suono. Rilasciata questa allora al suo naturale, palesò qualmente io ero altri che il suo consorte. Avvalorò il sospetto con altre inequisizioni, sì che con più diligente esame scorgendomi diverso, tramutò in certezza il dubbio. Principiò ad esclamare, come tradita, sollevando le grida secondo il costume del sesso, inabile al sostenere li suoi sdegni, o le sue vendette con la forza.

Sbalzai dal letto, e postomi in chiaro qual io fossi col lume, m'offersi di morire per appagare li di lei furori. Nell'una mano avevo la lanterna, nell'altra afferrai un pugnale, rivolgendone la punta al petto e mostrandola dirizzata a ferirmi, quando ella non si risolvesse di compatirmi. «Ucciderommi — le dissi — quando io stimi voi più sodisfatta della mia morte, che del mio amore. Usate però prudenza, o Signora, né siavi a gloria il publicare anche nelle vendette contro di me li vostri falli. La casa è piena di miei soldati. Seguiranno le stragi di chiunque contrastarammi lo scampo, il quale però io non curo, contento di cader vittima svenata alla vostra Divinità, se la stimate offesa da chi v'adora».

Così dicendo mostrai di rinforzar il colpo, onde essa, allungata la mano, trattenne il corso del braccio. «Fermatevi — disse — o amico, poiché non fa di mestieri che trascorra a tanta fierezza la dissimulazione, con cui noi donne rassembriamo irate contro chi furtivamente ci gode. Furti a noi dolci, che ci arrichiscono di piaceri, rubbando all'incontro la sola vanità di quell'onore ch'è un bene tormentoso, e per altro imaginario. Ci riescono gradite le delizie gustate con nuovi amanti, poiché un solo marito, sempre lo stesso, troppo ci annoia. Amate pure, godete, e tacete, che ogni avventuroso sortimento de' vostri affetti sarà per me un Paradiso di felicità».

Da questi sensi così gentili fattami molto più cara di prima quella Dama, l'abbracciai con eccesso di tenerezza. Per sodisfare alla sua curiosità, raccontai la forma delle mie frodi, avvisandola anche dell'inganno usato in villa né da lei penetrato già mai. Per la notizia di questo strinsemi essa più dolcemente, e annodandomi strettamente, mostrò di farmi total dono della sua grazia, anzi di se medesima, premiandomi come scaltro amante.

Interruppe il nostro trattenimento lo strepito ch'udii, cagionato dal moto dell'armi. Alla porta picciola del giardino vennero alcuni, deve credersi ladri, che procurando d'aprirsi l'adito posero in scompiglio la guardia. Ciò diede credito alle mie menzogne, onde il marito degno per appunto custode degli orti, sollevò tutti al mantenimento del posto. Lasciai anch'io la mia beatitudine per accorrere alla difesa, non però necessaria, mentre atterriti quelli dal solo rumore, abbandonarono l'impresa, e procuraronsi salvezza con la fuga. Così terminò la Comedia, con questo vantaggio per me: d'aver sempre in pronto la scena, ogni qual volta volevo rinnovare gli atti delle mie contentezze. Come fatto assai più confidente del buon uomo, avevo esentata da ogni sospetto la mia conversazione. Dall'altro canto la moglie accorta, mendicava con mille arti moltiplicate occasioni per felicitarmi nel suo seno. Tale è stato l'esito de' miei amori, de' quali ho voluto ragguagliare V.S. per sodisfare con quello in cui più confido a quel tale prurito degli amanti, che meno si compiacciono de' loro furti, quando sono meno palesi. Condoni a questa passione il tedio del racconto, e contracambi la mia confidenza col pratticare verso me la sua gentilezza nell'onore de' suoi commandi, a' quali m'offro di tutto cuore; e per fine le bacio le mani.

 

«Ecco — disse il Cavaliere — quale è il termine dell'amicizia de' nostri secoli, ne' quali li più domestici sono que' soli che maggiormente insidiano la riputazione».

«Chi pose per pruova d'amicizia — soggiunse il Marchese — la necessità di mangiare unitamente un moggio di sale, insegnò qualmente conveniva l'esser becco, a chi voleva mantenere veri amici, là onde era di mestieri gustar il cibo più gradito a quelli animali, per avvezzarvi il palato».

«Non mi stupisco dunque — ripigliò il Barone — ch'in alcune Cittadi principali d'Italia siavi l'uso d'accommunare vicendevolmente le mogli, poiché forse si vantano di professare le leggi di vero amico, avendo appruovata l'amistà con la pruova del sale, onde hanno fatto buono stomaco per goderne l'appetito».

«Osservo — parlò il Conte — come simbolo di vera amicizia il Cervo, mentre gli animali di questa specie nel transito de' fiumi scambievolmente soccorronsi l'un l'altro, nel che s'esprime la necessaria condizione di veri amici, che obliga al porgersi vicendevole aiuto ne' maggiori pericoli. Quindi per ragione di somiglianza, conchiudo doversi a gli amici un grande apparato di corna».

«Lasciamo in grazia — ripigliò il Marchese — questi apparati alle case della Germania, ove singolarmente si apprezzano, essendo altrimente nella nostra Italia pompe d'ignominia».

«Sì — aggiunse il Barone —, appresso alcuni pochi, da' quali non si riveriscono li sensi de' maggiori, onde in conformità degli antichi non annoverano tra' voti di singolare solennità l'offerta d'un Bue con le corna d'oro, quasi che il valsente di queste ne scemi il vitupero».

«S'accostuma ciò — ridisse il Cavaliere — ne' sacrificii per li Principi. Universalmente però stimo che una gran parte di quelli, che non hanno corna in capo, le abbia nel seno. Comunque ciò sia nulla giovaci lo scuoprire ciò che può aprire le nostre piaghe». Espose alla curiosità de' compagni altro foglio vergato co' seguenti caratteri:

 




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