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Ferrante Pallavicino Il corriero svaligiato IntraText CT - Lettura del testo |
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Carissimo Amico. Lo studio mi traportò l'altr'ieri al leggere l'opinione de' Pitagorici in materia della transmigrazione delle anime. Non puotei non ammirare la stolidità di que' saggi, che la fondarono, e insieme non piangere la misera condizione de' nostri secoli. In questi abbiamo la tramutazione d'uomini in bestie ordinaria, e ad uso corrente, là dove in tempo di que' Filosofi bisognò quasi sognarla per passaggio. Da quelli fu similmente assegnata per castigo della felicità, anche de' più grandi. Già vedesi traportata la umanità quasi universalmente in azzioni brutali, là dove non può che giudicarsi pratticato l'inserto delle anime umane in corpi di belve. Questo sia detto per una non so quale similitudine in rimprovero di chi opera male, e sepelisce il lume della ragione col vivere tra le tenebre de' vizi a suo capriccio. Guai a questa nostra etade, se avverandosi il sentimento di que' Filosofi, conforme il demerito o il merito dell'uomo, dovesse succedere il transito in animali di nobile, o d'ignobile specie. M'assicuro ben sì che scorgerebbonsi solamente cimici, pulici, pidocchi, tavani, e altre bestie d'infimo grado, e il porco fora il più nobile, a cui si participasse questa transmigrazione. Altrimente né Aquile, né Leoni, né Cavalli, né altre belve, le quali hanno non so che di generoso, e di grande, non pregiudicarebbero alla propria perfezzione con ricettare li viventi d'ora. Li Principi per certo non rinunziarebbero le cimici, e le pulici, per continuare di suggere l'altrui sangue, e dissipare le umane sostanze, unico impiego della loro potenza. Se ne pavoneggiarebbero anzi, apprezzando quasi felicità il non esser obligati al deporre con la vita la porpora, che tanto ambiscono; mentre in questi animali potrebbero ancora ritenerla, quasi sopraveste della loro fierezza. Li Cardinali massime stimarebbero di non decader punto, restando sotto coperta d'un cimice, né scorgerebbesi differenza per l'abito, come pure sarebbe egualità nel fetore, con cui ammorba la putredine del loro vizioso temperamento. Li Grandi, che servono nelle Corti, e amministrano li governi, imitando il principale regnante nello svenare li sudditi, ma con minore temerità non gloriandosi della fierezza in esterne pompe, passarebbero ad animare pedocchi, ch'insidiano particolarmente alla gola, e hanno sempre agguzzo il dente per mordere. Li giudici divverrebbero sanguisughe mentre nell'atto di purgare li colpevoli veggonsi ripieni di maligni umori, o per la corruzzione del giudicio, o per la copia delle altre particolari sceleratezze, onde finalmente fa di mestieri che scoppino. A gli Avvocati converrebbe il farsi tavani, come che sono indiscreti, e insaziabili in succhiare il sangue di quegli stolidi, li quali si fermano scopo alla loro vorace impertinenza. A' medici dovrebbesi in questa transmigrazione il corpo de' scarafaggi, che vanno formando ballotte in somiglianza delle loro pillole; e se ben hanno le ale, in pompa del loro vano sapere, non sanno rintracciarsi altro più degno posto che lo sterco, nauseando la rosa che loro è mortale, sì come a quelli riesce odioso il bene d'altri, per essere nocivo al loro interesse. Mai non finirei, se ad ogni grado di persone assegnar volessi la sua bestia, imitata ne' costumi, poiché rassembrarei un Orfeo in trarre tutti gli uomini, e tutte le belve, a fine di fare tra loro aggiustato parallelo. Da' personaggi più riguardevoli accennati, a' quali pare dovuto il seggio delle fiere più nobili, congietturisi di quali specie si popolarebbe il mondo nella transmigrazione delle anime degl'inferiori, che non solo per la licenza del vivere dissoluto, ma ancora per la sciocchezza, e balordaggine particolare, non sanno che cosa sia l'essere ragionevole, né l'avere discorso. Anche li più dotti della nostra età, li quali in materia di giudicio rassembrano privilegiati di merito, avrebbero gran vantaggio se passassero sotto sembianze di grilli, che con alcun salto mostrano d'essere qualche cosa, e cantando su'l tre, publicano fatti più vantatori che saggi della propria perfezzione, la quale consiste nel numero ternario. Lascio quelli che vedrebbero inserte le loro penne in ale d'Occa, mentre fastosamente le allargano, quasi che presumono un alto volo; e pure non possono sollevarsi da terra, non dotati d'altro che d'un noioso gracchiare. Da' musici riempirebbesi il mondo di que' mosconi, li quali con molesto sussurro si rendono maggiormente odiosi, e hanno questa qualità di più, di offendere tutti li sensi, e non lasciare all'udito né meno il riposo, già che questo tormentarsi non può dalle loro immondezze, e dalla molesta importunità; non altrimente essendo li Musici per ogni capo abominevoli. Questi sono concetti imaginarii, occasionati da questa transmigrazione d'anime; ma per discorrerne più fondamente, io aggiungo con pace della fede Christiana che ritruovasi avverata questa opinione de' Pitagorici. Se mi è addimandato il quando, dirò quando alcuni passano allo stato Religioso, facendosi Preti, o Frati: poiché se vero è che muorono al mondo, mentre pure continuano in vivere nel mondo, deve dirsi che sono morti quali erano sotto umane sembianze, ma che vive la stessa anima sotto altra forma. Ed ecco la transmigrazione appruovata dalla Chiesa. Che poi passi l'anima ad un corpo di bestia, guardinsi li Religiosi, e non saravvi punto di dubbio. Lasciamo che secondo il detto di Davide eglino siano Asini senza discrezione, e senza termine, lasciamo che siano quasi bovi ignoranti, ne' quali il più che s'ammiri è il mugito nel coro, o su pergami; lasciamo che siano porci, dati solo alla crapula, e che s'ingrassano solo di minestre, e di broda; il peggio è che appariscono con paragone de' più licenziosi bruti, delle più sfrenate belve, o delle più spietate fiere. Ove regnano principalmente le bruttezze della nefanda lassivia, li morsi d'una feroce invidia, li sbrani de' più maligni tradimenti, meglio che negli chiostri? Questi possono dirsi li serragli dove tiene Iddio le fiere più monstruose in questo gran palaggio del mondo, come li altri luoghi delle più ben regolate adunanze di Religiosi possono dirsi le sue stalle. Dove dominano li Preti, o hanno giurisdizzione gli Ecclesiastici ben appare questa verità, poiché concepirsi non possono Lupi più ingordi, Tigri più crudeli, animali più irragionevoli di coloro che non hanno mira ad altro che a rapire, o a svenare. Non sarà dunque ben fondato il mio parere, che questa mutazione di stato sia la transmigrazione Pitagorica delle anime? Scusatemi, o amico, del tedio di questa lezzione, che per essere in proposita materia non è spropositata, e perché contiene veritadi non è necessitosa d'altre pruove. Lasciarò d'infastidirvi maggiormente con affettate ceremonie. Assicuratevi che sono tutto vostro, e vogliatemi bene.
«Disegnavo quasi — disse il Marchese — d'interrogare qual bestia riserbasse a sé chi ha scritto, per la sua transmigrazione. Ma parmi ch'egli discorra sì fondatamente che sia ingiustizia il condannarlo tra' bruti irragionevoli». «Ciò dite forse — parlò il Conte — perché con tanto giudicio egli tratta li Frati, e Preti secondo il loro merito? E chi non descriverebbe li loro publici vituperi, mentre bastano al ridirgli anche gl'insensati?». «E pure — ripigliò il Cavaliere — s'esercitano li Religiosi nelle sceleratezze più secrete, come nella Sodomia, ne' furti ammantati d'altri pretesti, e nella malignità de' tradimenti, là dove non dovrebbero essere tanto palesi le loro ignominie». «Aderite voi forse ancora ad essi — soggiunse il Barone — non credendo nella dottrina di Christo il quale disse Nihil occultum quod non reveletur, là dove vanamente confidano di tenere celata la moltiplicità de' loro nefandi eccessi?». «La frequente conversazione degenera in disprezzo — replicò il Conte —, là dove non è maraviglia se addomesticandosi le persone sacre con Christo, abitando in casa sua, e maneggiandolo ne' Sacramenti, convertono la Religione in strapazzo». «Quindi è — conchiuse il Marchese — che li Padri Giesuiti, li quali hanno voluto addomesticarselo anche nel nome, sono peggiori degli altri, e rendono opprobrioso il nome, e insieme gl'insegnamenti». Mentre così discorrevasi, aperta aveva il Cavaliere nuova lettera, e fuori dell'ordinario affissava gli occhi nella sottoscrizzione, la quale era di Ferrante Palavicino. «Parmi — disse — che la mente mi rappresenti chi sia costui, non solo nel cognome della famiglia, nota in queste parti, ma ancora nello stesso nome». «A proposito di Frati, e Preti scelerati — soggiunse il Marchese — capita a tempo questo soggetto, poiché imita li peggiori con le sue dissolutezze». «Egli s'annovera tra' letterati — parlò il Conte —, non può però non essere vizioso». «Presume ben sì — replicò l'altro — d'essere virtuoso, forse per dare questa licenza a' suoi costumi, ma la presunzione è temeraria, ed è falsa la fama». «Qual notizia avete di questo soggetto?», interrogò gli altri due il Barone. «E chi èvvi — rispose il Conte — che sappia leggere e non lo conosca, mentre ha già quasi riempite le Biblioteche di sue opere, e va consumando tutte le stampe sempre con nuovi libri?». «Sarà facile — ripigliò il Cavaliere — conchiudere di qual valsente siano, mentre con la moltiplicità ne dimostra il pregio, non mai essendo riguardevole ciò ch'è copioso». «Il maggior credito — disse il Marchese — che abbiano le opere di questo autore è l'essere mal vedute, anzi bandite in Roma, dove in tutti li particolari si perseguitano mai sempre li migliori». «E da quello — soggiunse il Conte — deve ciò aggradirsi, come che egli si pavoneggia d'ogni gloria indegnamente acquistata». «Altro avanzo non può pretendere — replicò il Cavaliere — con un ingegno servile, e con una virtù mendica, sempre più miserabile, quanto più ne disperge il povero talento; ma vediamo che cosa ei scriva». In conformità di ciò così lesse:
Illustrissimo Signor Fratello. Con molto mio disgusto intendo le querele presentate a V.S. per parte non solo di S.A. ma della Città Piacenza, contro il mio libro de' successi del mondo dell'anno 1636. Ho maledetta mille volte l'ora nella quale determinai di comporlo, a compiaccimento di chi me ne pregò. Ho sempre supposto d'avere in questa opera minor gloria, che nelle altre, ma non ne aspettai già maggiori disturbi; né mi diedi a credere che l'avanzo dovesse essere le mormorazioni di tanti, e lo sdegno del mio Principe. Opposi però uno scudo contro questi colpi, che già mi presagiva l'animo, nella lettera a' Lettori, che stampai a capo del libro medesmo. Se per mia disgrazia questa non si trascurasse da chi legge, non sarei in necessità di prendermi briga ad ogni ora per nuova difesa, e di ripetere ciò ch'in essa ho scritto. Protestai d'essere traduttore, non scrittore, sì che non avendo avuta altra obligazione che d'imitare l'originale, cioè gli annali latini stampati in Francfort sotto titolo di Mercurii Gallobelgici etc., non è mio debito il difendere ciò che colà è stampato. A chi mi dice ch'io delle cose d'Italia dovevo prendere informazione particolare per ruggire le falsitadi, rispondo che a chi fa copia d'un ritratto, o d'una scrittura, non lice traviare dall'esemplare, permessa quella sola diversità, che può cagionare il colorire del pennello, o lo scrivere della penna, non il concerto della Idea, o l'operare dell'ingegno. Non professai d'esser istoriografo per me solo, che allora con la considerazione a singolar debito, avrei procurato d'impiegarmi conforme conviene. Ho ben sì moderati que' sensi di poca stima co' quali l'altro auttore trattava il Signor Duca, prendendomi tale libertà per la riverenza che gli professo. Né stimai che fosse biasimo un atto di prudenza, quale fora stato il ritirarsi in luogo sicuro supposto il pericolo della sollevazione della plebe. Dovevo supporlo, così rappresentandomi l'istoria; non avendo certezza in contrario, né essendo mio obligo il pervertire quella composizione, che dovevo tradurre. Né si dolgano di ciò tanto gravemente li Signori Piacentini, poiché nelle sollevazioni non si descrive la infedeltà de' Cavalieri, ma la volubilità della plebe interessata nel bene privato, là onde vedendo mancare ciò che serve al solito lusso, non che alla necessità, si rivolge sconsiderata al ricercare il suo commodo. Non s'è veduta la plebe di Milano a' nostri tempi congiurata contro il Governatore, solo per non avere a suo modo la desiderata abbondanza del pane? Non però si chiama Città infedele Milano, constante pur troppo nel conservarsi divota alla indiscretezza Spagnuola, ancorché travagliata, e sollecitata altrimente dagli esempi d'altri Regni, e Provincie, che scuotono il giogo per esser quegli insopportabile. Se similmente nella plebe di Piacenza, avvezza a vivere agiatamente per la fertilità del paese, la penuria, qualunque fosse, portata dall'assedio, avesse partorita alcuna rivoluzione, non perciò a' nobili fora seguito disonore, e all'universale della Città composto di questi, cattiva fama. S.A. similmente fuggendo il pericolo, ancorché solo imaginato, non prende alcun titolo, che servir possa di pretesto per condannarlo, o come timido, o come poco amato da' popoli. Il volgo ne' suoi furori non ha discorso, e non riconosce legge; là dove, come è poco prudente quel Principe che tutto a lui s'affida, così è temerario, se pretende di contrastare l'improvisa mossa di sregolata ferocia. Non mi fermo sopra gli altri errori di nomi falsi, o di racconti non veri, poiché rimando li miei accusatori all'originale, replicando ch'il mio libro è copia, là dove convenivami il ritrarre anche li nei. E poi somiglianti falli non sono insoliti anche nelle più stimate istorie, mentre o le informazioni appassionate, o la Cosmografia variata li producono frequenti. Oltre che talvolta sarà descritta la verità, e pure chi legge, o parziale del suo senso, o altrimente impresso, la crede menzogna. Siasi ciò come si voglia, in questo non mi prendo punto di briga, poiché come traduttore sono esente dal cercare o la verità, o la puntualità de' nomi. Mi occorre però d'osservare la ignoranza di chi mi biasima, mentre mi tacciano che avendo io scritto ciò che pare sia poco a favore del Duca, non abbia riferito ciò che seguì in suo vantaggio nel mese di Gennaio dell'anno 1637. Sono dunque tanto sciocchi costoro che non vedano il libro intitolato successi del 1636? Come dunque pretendono d'astringermi al continuare gli accidenti dell'anno che succedette, in cui non mi sono ingerito? Ho preteso di dar saggi d'uno stile isterico non sprezzabile, a fine di persuadere li Principi al darmi commodità di comporre più regolatamente, e fondatamente istorie. Se ciò fosse seguito, supposto che li Principi del nostro secolo avessero ogni pensiero, fuori che quello di promuovere li virtuosi, e li letterati, forano stati compiacciuti questi balordi; e m'avrebbero scuoperto tanto più copioso nel descrivere le glorie del mio Padrone, quanto più ristrettamente ne ho circonscritta la poca fortuna. Vengano pur dunque le invettive che V.S. minaccia, preparatemi contro da' grandi ingegni di costà. Saprò ben io ribattere li colpi, e forse li pungerò io sì al vivo, che non avranno spirito per più risentirsi. Questo è quanto m'occorre in risposta della sua, per sincerare li sospetti della mia poca affezzione verso S.A. Resto quivi suo al solito, e per fine le bacio le mani.
«Chi è facile al peccare — disse il Conte — è sempre pronto nelle scuse. Quindi questo autore, anche ne' suoi libri è prodigo di proteste e di discolpe». «Non però basta — soggiunse il Marchese — a smaltire la quantità de' suoi mancamenti, poiché la moltitudine di questi, e nella lingua, e nello stile, e nel modo di comporre, non può sortire lo spaccio anche sotto quel manto che gli ricuopre». «Lasciamolo in grazia — conchiuse il Cavaliere — nella sua pace, essendo egli pur troppo angustiato dalla necessità d'esimersi da tanti maldicenti, a' quali non può celare le sue vergogne; e molto maggiormente dall'obligo di sincerarsi appresso un Principe che difficilmente lascia l'impressione di sinistro concetto.» Aveva già altra lettera nelle mani il Barone, onde leggendola propose altra materia. Così diceva:
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