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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Illustrissimo Signor mio.

Ho mutata stanza, che però ne do avviso a V.S. Illustrissima per assicurarla qualmente non è variata la mia servitù, e sempre sto fermo nel desiderare li suoi commandi. Amai in Lucca, dove ero come ella sa, una Dama maritata, la quale corrispose a' miei amori, e col premio de' godimenti rimunerò l'applicazione de' miei affetti. Il marito era di poco spirito, onde avevamo unitamente maggior lena per farlo becco. Osservò egli un giorno in Villa in possesso della moglie li miei abiti, de' quali essa avvalevasi talvolta per trattenimento, come bizarra. Congietturò ch'io fossi addomesticato, dove lasciavo le vestimenta, e che dasse adito alla persona, quella che tratteneva le vesti. Figurossi in questi le spoglie ch'io riportavo da' trionfi del suo onore. Disperato di scorgersi quale non poteva negare d'essere, partì per Roma; non avendo viso esente da' rossori dovuti a tanta infamia, non avendo però né meno corraggio per abolire col ferro le sue vergogne. Tanto più liberamente proseguirono le mie delizie; e quasi fiume nel proprio letto non più pruovavo argine, che vietasse il condurmi sin al mare più profondo di più copiose dolcezze. Mi tradì la fortuna nel sommo de' miei contenti, mentre interessò il fratello dell'amata in mantenere la riputazione della famiglia.

Essendo però della patria stessa che l'altro, non aveva cuore risoluto ad onorate vendette. Accusommi appresso li secretarii, con protesta di non voler precipitare li propri interessi, onde pregavagli di porvi rimedio, per esimere lui medesmo dalla necessità di fare alcuno sproposito. A suo compiaccimento ebbi ordine di sfrattare, e di partirmi di Lucca; il che esequii, vantandomi di portare una sì gloriosa memoria della generosità de' Signori Lucchesi. Andai alla villa della Dama, ove in effettuazione del publico castigo m'ho presa più volte una volontaria morte, da cui però risorgendo secondo l'ordinario degli amanti, riducevomi prigioniero nel di lei seno, per assoggettirmi di nuovo a quella mortale sentenza. Ora mi trattengo quivi, dove l'onore de' commandamenti di V.S. Illustrissima è la maggiore felicità ch'io auguri a me stesso; con che per fine, etc.

 

«Sono corraggiosi, e prudenti — disse il Conte — li Signori Lucchesi, onde senza proprio pregiudicio, sanno in tal modo facilitarsi le loro vendette».

«A me ancora — soggiunse il Barone — è occorso che mentre in Lucca appunto godevo una Vedova mia vicina, da' di lei parenti furono mandati li sbirri a fine di rimuovermi con simile bravura da quegli amori; ma portò il caso che non mi colsero, e io feci loro le fiche con le dita, in loro scorno».

«E che volete? — ripigliò il Marchese —: una così picciola Republica ha poche teste, in conseguenza pochi cuori, onde per suo mantenimento fa di mestieri che procurino di conservarsi la vita».

«Sono loro necessari buoni capi da governo — parlò il Cavaliere —, quindi conviene loro l'avere giudicio grave, per ben pesate risoluzioni, non però ricusano la gravezza delle corna».

«Non c'intrichiamo con questi Signori — replicò il Conte —, perché ora sono scommunicati, e in disgrazia di S. Santità. Oltre che con la riputazione, quale acquistano in questo negozio, sepeliscono ogni altro loro disonore». Prese quindi altra lettera, e così lesse:

 




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