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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Illustrissimo e Reverendissimo Signor mio, etc.

Nell'ultima di V.S. Illustrissima e Reverendissima ricevo il favore ch'ella mi fa per accrescimento delle mie obligazioni, onorandomi con segni di singolar confidenza, mentre va isfogando meco la sua passione nel particolare degl'interessi che passano al presente tra S.S. e la Republica di Lucca. Risponderò con tanto più libero sentimento, con quanto maggiore autorità ella si degna di farmi giudice de' suoi affetti. Parmi ch'ella sia troppo parziale de' Signori Lucchesi; massime che, come persona Ecclesiastica, tiene obligo maggiore d'aderire al Pontefice. V. Signoria Illustrissima replicarammi che vuole sostenere le parti della verità e della giustizia. Lodo il suo sentimento proprio d'animo nobile e sincero; non così però il mandarlo a publica notizia, posciaché le operazioni di Sua Santità, nelle quali vanta la dipendenza dallo Spirito Santo, fanno demeritare a chi le condanna. Non disprezzo i di lei protesti, ne' quali ella afferma ch'una azzione mala non può avere causa che permissiva nel sommo bene; che il Sommo Pontefice ha l'uso del libero arbitrio il quale, mal applicato, non meno d'ogni altr'uomo regolandosi a' capricci, fallisce. Questo pur è vero, ma non può né dirsi né scriversi, vietando ciò chi odia una verità fatta notoria pur troppo dall'esperienza. Avrà nondimeno scusa l'errore, appresso chi sa li termini co' quali si rappresentano i negozi a' Principi, prendendo quella piega che danno loro le parole di chi informa. Il Signor Cardinale Franciotti, predominato dallo sdegno, facilmente avrà ritruovato nella corte di Roma, tutta interesse, tele che avranno sì bene ricevuti i colori delle sue passioni, che il Pontefice non avrà potuto non vedere sembianze di fallo, da cui si giustifichino i suoi rigori. Altrimente non giudico che contra ogni ragione egli avesse intrapreso lo sconvolgere la pace, e la quiete di quella Republica.

Ben è vero che stimo questo Sommo Pontefice appreso tenacemente a quella proposizione di Christo: Non veni pacem mittere, sed gladium. E rassembra che credasi obligato all'osservarla, come suo Viceregente.

Quindi ben era di dovere che, dopo l'aver molestati tutti gli Principi d'Europa, si rivolgesse a travagliare questo dominio, per mostrarlo sogetto a Christo e nel grembo della sua Chiesa. Quando nel tempo stesso, non è molto, egli con particolari disgusti irritò ambedue gli Regi, e di Spagna e di Francia, un tale pose in campo quel detto: Melius est esse Herodis porcum, quam filium, proposizione di Giuseppe Ebreo per significare crudeltà di quel tiranno, dal cui ferro aveano scampo i bruti, erano poscia trucidati gli figliuoli. Così diss'egli: negli anni di questo Pontefice poteva giudicarsi più giovevole l'essere Turco che Christiano. A' Principi Cattolici, presentatesi con faccia di rigore, ha proposti molti disturbi, là dove, lasciando gl'inimici della Chiesa in una dolce quiete, ha conservata nel possesso d'un felice stato la loro tranquillità. Risposi a costui che questa era una forma d'imitazione, per conformarsi a' costumi di Dio, il quale con pompe di severità suole trattare i migliori, né in altro seno ch'in una fronte arrogata, indicio di sdegno, pare che riceva i suoi più diletti. Ben è vero che le creature non possono conformarsi a questa intenzione della suprema previdenza come causa primaria, ma solo instrumentale, là onde, nella particolare, perviene espressa la causalità che hanno gli uomini nelle persecuzioni de' giusti, da Santo Agostino, allor che disse: Omnis malus aut ideo vivit ut corrigatur, vel ut per eum iustus exerceatur. Sentenza ch'udii per appunto citarsi da un mal contento, all'incontro d'alcuni che stupivano della longa vita di questo Principe.

Deve però gloriarsi la Republica di Lucca d'essere pareggiata, in questi, benché poco buoni, trattamenti, all'Imperatore, a' Regi di Francia e di Spagna, alla Republica di Venezia, al Gran Duca di Toscana e a gli altri Potentati, ch'universalmente stimo nella morte di S. Santità non piangeranno la perdita delle loro sodisfazzioni. Anzi che sarà in obligo di professare tratti di gratitudine, mentre l'ombra di questi travagli ha servito a far spiccare i colori del suo merito. Non poteva in altra occasione apparire più chiaramente la prudenza de' Senatori e il sapere di chi regge in essa lo scettro del commando. Non è gloria di poca stima il cozzare, senza disprezzo e offesa del capo, ch'è Christo rappresentato nell'autorità Pontificia di questo suo Vicario. Il trionfare nella depressione del primo promotore di questi sconvolgimenti, col truovare giusto pretesto per imprigionare il fratello, e privare della nobiltà la famiglia del Cardinale, è stato un colpo come di doppia ferita, così duplicato d'avvedutezza. Il saper anche schermirsi dal fulmine del Interdetto con proibirne gli effetti pretesi appruova que' concetti da' quali s'argomenta esser in quel Dominio Giovi di buon capo, che partoriscono Palladi di risoluzioni sì saggie.

Stimo ch'eleggerebbe il buon Pontefice di non esser imbarazzato in questo negozio, condottovi forse dall'importunità de' parziali del Franciotti, obligato ora al continuare negl'intrichi da quella necessità ch'astringe ogni Grande al precipitare nelle sue operazioni, per non confessare d'averle mal intraprese. Dubita che l'esito riesca di poca sua riputazione, come pure gli è succeduto con la Republica di Venezia, la quale l'ha fatto apparire più codardo di Pilato. Questi ostinatamente difese, contra il sentimento di tutti gli Ebrei, Quod scripsi, scripsi. Ma egli s'è condotto all'abolire il proprio epitafio posto nella Sala Regia, prima cagione che manifestò la poco buona intelligenza con quella Republica, non so se di lui stesso, o pure de' congiunti. Mi do a credere che, se ben tardi, risolverà di non più assentire, o al capriccio di questi, o alle chimere di chi gli va susurrando gli orrecchi, ciò che compie al proprio interesse, o alla passione, non ciò ch'è di dovere per beneficio della Chiesa, e per il suo ben regolato governo. Tanto conceda Iddio per pace della Christianità, e per il felice stato d'Italia. V.S. Illustrissima, in questo mentre, deponga quel rancore che l'affezzione alla Republica di Lucca valuta ne' suoi pensieri come giusto zelo, contro le risoluzioni del Pontefice. Credami che l'intenzione sua, come quella d'ogni altro Principe, non preterisce le leggi del giusto, essendo trasportati a contrari effetti da' ministri, ne' quali troppo confidano, mentre col governo consegnano loro anche la riputazione. Non altro so aggiungere in questo particolare, perché la delicatezza della materia richiede che si trattenga leggiermente la penna. Rinuovo i ringraziamenti per la memoria ch'essa tiene della mia, benché debole, servitù. Qualunque ella si sia, verrà avvalorata dall'esercizio che solo può concedermisi da' suoi commandi, de' quali pregando V.S. Illustrissima, riverente le baccio le mani.

Adì 15 Maggio 1640

 

 

Non fùvi tra' Cavalieri chi volesse motteggiare sopra questa lettera, per riverenza del sogetto di cui discorrevasi in quella. Condannò più tosto alcuno d'essi la contumacia della Republica, come che un Potentato Christiano deve soggiacere alla dottrina di Christo, più che ubbidire alla politica di stato. S'appresero ad altra lettera, per sortire motivo maggiore d'aggradimento; una però n'incontrarono in cui così era scritto:

 




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