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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Carissima Signora.

Oh Dio quali pene ho tolerate, dopo che la vostra presenza non più dà spirito a' contenti del mio cuore. Se sapessi, o cara, quali angustie opprimano la mia anima, che, viva sola per voi, è in obligo di mendicare la sua vita dall'imagine, di cui, gelosi, gli affetti non permettono il totalmente consolarsi, anche col vagheggiarla: se credessi gli eccessi di que' dolori, co' quali pruovo il discapito de' miei godimenti, tramutato il corpo reale di veri piaceri in ombre figurate dall'imaginazione, m'assicuro che risolveresti di compatirmi, se non d'amarmi. Deh cara, quanto differente io scorgo l'esser lambito da' vostri vezzi, vezzeggiato dalle vostra labbra, accarezzato da' vostri abbracciamenti, imparadisato nel vostro seno; e il fingermi con vane chimere il vostro volto, che mi lusinghi con uno sguardo cortese, m'inviti con una bocca ridente, m'alletti con un soghigno lusinghiero. Mi riesce di tormento maggiore il compiacermi della vostra effigie, ch'io porto nel petto; stando che, mentre da sì belle sembianze rapito sono in necessità di secondare queste violenze, corro a stringer un'ombra, ad abbracciar un niente. Oh Dio, dico talora, perché non posso io con rapido volo condurmi in un momento all'amata mia Elena? Avessi almeno la fortuna d'Icaro, concedendomisi il prender ale, che portandomi a voi, se bene dileguassero, non potrebbero precipitarmi quando io fossi fermo nel Cielo del vostro seno. Potessi almeno negli amorosi entusiasmi aver una di quelle candide mani, che porgerebbe refrigerio a' miei ardori con la sua neve. In quella almeno depositarci i miei baci: ristringerei gli annodamenti e consegnarei le mie contentezze, che se bene abbreviate in un pugno, estenderebbero la mia felicità ad una compita sodisfazzione delle cupiditadi. Ecco in quale stato io sono sforzato al compendiare in così picciola parte que' godimenti, ch'aveano libero campo nell'ampiezza del vostro corpo. Qual disavvantaggioso transito è questo de' miei piaceri, dal vedersi ogni giorno nella culla del letto, tra le fascie delle lenzuola, alimentati dal latte delle vostre bianchissime carni, al vedersi ora così famelici che valutarebbero come singolar contento il poter lambirvi una mano. Deh Elena, nome il quale, come andò mai sempre accoppiato con estraordinarie bellezze, così portò sempre intolerabili incendi. Se i tempi di Paride avessero potuto goder i vanti di possedervi, altra Elena che voi, non s'avrebbe usurpata Venere, per regalo degno d'una Deità avida di donar bellezze; quando pure non fosse stata preoccupata dalle rapine di Giove. Al mio povero cuore è toccato in sorte il contrapesare co' suoi ardori a gl'incendi d'un Regno intero, sacrificato a quella Greca beltà, stando che tributi non minori si devono a' volti delle Elene. Volentieri mi struggo, o cara, certo che le mie ceneri ricuperaranno felice vita sotto i raggi di voi, mio bellissimo Sole. Sollecitarò il mio ritorno per rivedervi, e ripatriare in quel grembo ove tra le bellissime poppe gustavo rivi di dolcezze, allora più correnti, quando duro argine pare che le fermi. Ripeterò la lezzione de' soliti gusti in quel bel libro, di cui volgendo e rivolgendo i fogli, leggendo e rileggendo i caratteri, non ho saputo mai scorger altro che Beatitudine. Non più, o mia diletta, voglio trattenermi tra queste imaginarie chimere, che mi fanno inlanguidire, non accompagnate dalla realtà degli effetti. Non più posso trattenere la penna, che brama esser portata dalla mano dove meglio possa scrivere in bianco nella vicinanza de' vostri candori. Mi fa di mestieri seguire i di lei impulsi, tratto d'improviso fuori di me, quasi estatico nella contemplazione delle vostre bellezze; là onde finisco con abbracciarvi, e baciarvi caramente. A Dio.

 

«Sa il Cielo — disse il Marchese — qual penna avea costui tra le mani nello scrivere. Quest'uno a mio credere è di quelli incauti, i quali lasciano loro stessi in preda degli inganni delle cortigiane».

«E chi non vi rimarrebbe deluso dalle loro frodi? — soggiunse il Conte —, mentre lusingano con una faccia che spira Divinità nella bellezza, mostrano un Paradiso nella grazia, e quando poi altri loro s'avvicina volgono le spalle: vezzo il quale maggiormente tiranneggia gli amanti, ma insieme pur anche più fortemente rapisce».

«Non è maraviglia — disse il Cavaliere — ch'i loro artificii prendano questa piega, perché la forza della Magia si ristringe principalmente ne' circoli; elleno però presentano questi a chi desiderano incantato, per predominare più facilmente con le proprie violenze».

«Per gl'incanti — replicò il Barone — si richiede e la verga e la sfera, per compire però l'incanto d'amore, già che l'uomo porge quella, fa di mestieri che con questa concorrano le donne».

«Oh come — ripigliò il Conte — avete pronta la lingua, dove è proclive l'appetito». Ciò detto, senza dar tempo a' compagni di ribattere il motto, si diede a leggere su nuova carta in cui così era scritto:

 




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