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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Illustrissimo Signor mio.

A fé, Illustrissimo Signor Francesco, ch'io sono uscito da un laberinto molto ravviluppato, ancorché non sia un Teseo, né godessi l'amicizia d'una Arianna, la quale sapesse legare la mia libertà con un filo. È gran tempo che V.S. non ha ricevuti attestati della nostra amicizia in mie lettere. Intenderà nella presente l'occasione di questo mancamento, fatta partecipe de' successi delle mie fortune.

Mi sottrassi fuggitivo al dominio di mio Padre già alcuni mesi, promosso a tale risoluzione da una bizarra gioventù, che ricusava di tolerare il freno dell'autorità paterna. Pensiero nato senza allevatrice di giudicio, non poteva che essere un parto sconcio, accompagnato da poco buoni eventi. Partii proveduto di denari, non già per il bisogno, ma solo quanto bastava per darmi ale, onde secondassi il volo di questo mio capriccio. Presi la strada verso Roma, come che avevo udito più volte quella esser Città fortunata per li pazzi, e per chi non ha pensiero di far bene. Io, già aruolato sotto queste insegne, mi figurai colà il Campidoglio, dove presumevo vedermi trionfante. Avendo pur anche inteso che colà si va in giro professandosi particolarmente la figura sferica, m'imbevetti di speranza, la quale mi persuadeva che sotto quel clima avrei ritruovata la ruota della mia fortuna. Non m'ingannai per una parte, ma sinistra interpretazione falsificava il sentimento di questi concetti.

Tanto dimostrò l'esperienza. M'incaminai verso Firenze, dove giunto, avvertii che gli giovani sbarbati di non ingrata presenza, sono salvaticine molto apprezzate, per le quali non v'è caccia riservata poiché ciascuno ha libero il procurarsi boccone sì delicato. Altrimente seguirebbe gran disordine, vietandosi que' gusti maggiori che portano gl'influssi di quel Cielo. Appena fui veduto che molti somiglianti cacciatori mi presero di mira, e mostravano d'aver in pronto l'archibugio per uccellarmi. Osservarono alcuni dove io fermavo il corso per riposare. Figuravansi forse di prendermi a Cavaliere, non credendo ch'io già eromi avveduto qualmente bisognava ch'io mi trattassi come lepre, dormendo cogli occhi aperti. Concorrevano molti all'osteria, in cui avevo preso l'alloggio, in guisa che mi si ricordava per appunto il concorso de' Sodomiti alla casa di Loth, allor quando albergò gli Angeli, sotto sembianze di vaghissimi giovani. Venivano, come cani all'usma, e incontravano chiuso il passo, mentre mai non volli uscire dalla mia stanza, per non abbattermi ne' loro assalti. Un certo barbone, veltro molto esercitato in far queste prede, entrò nella camera, per invitarmi a nome d'un Signore, ch'egli nominò suo Padrone. Dissemi che questo, obligato alle pompe di nobiltà quale vantava il mio sembiante, e alle graziose maniere d'una apparenza gentile, aveva risolto di servirmi nel tempo in cui fossi dimorato colà. Applausi a questi termini d'interessata gentilezza con affettati ringraziamenti, protestando ragionevoli scuse, per ricusare un onore tanto più apprezzabile quanto meno meritato. Continuò colui importuno le instanze, risoluto cred'io d'afferrarmi, per compiacere a chi l'avea mandato. Ma non meno ostinato io stesso corrisposi alla sua indiscretezza, in modo che partì disperato, avvertendo qualmente in altro nido che il mio bisognava collocare i disegni del Padrone. Non sì tosto liberommi il Cielo da costui, che fui assalito dal pretendente, ch'in persona venne al predarmi, stimando il servitore manchevole ne' requisiti dell'arte. S'occupò in molte ceremonie, insinuandosi con occasione di queste al toccarmi la mano, allo stringerla, e all'accennarmi il suo appetito. Dopo le inequisizioni del mio stato, della mia patria, e d'altri particolari, ne' quali tratteneva i suoi ragionamenti a fine d'avanzare la familiarità della conversazione, procurò di condurmi alla sua casa, accertandomi d'ogni cortese trattamento. Abbreviarò in somma il racconto, trasportandolo all'ultima meta in cui quegli, fervente nella caccia, si spinse alle buone prese, che potevano farmi suo. Lo risospinsi con un maestoso rigore, da cui era avvertito che sentimenti di riputazione non gli avrebbero permesso l'assoggettirmi alle sue voglie. In somma lo lasciai con un palmo di naso, da troncarsi con altre forbici che le mie, quando avesse ricusato di vedere quella monstruosità avanti di sé. Connobbi allora che lo o, frequentato dagli abitanti di quella Città nel favellare, è un tributo il quale offeriscono anche parlando al prurito del Genio. Partii il giorno seguente, prevenendo l'aurora, precorso con tutto ciò da alcuni, i quali, con accoglienze se bene spropositate, s'agevolavano il palparmi le mani, e affissandosi in me procuravano almeno fermarmi scopo nella loro imaginazione, per scaricare l'archibugio a segno.

Continuai il mio viaggio, senz'altro accidente di considerazione, fuori di quello che portò finalmente il mancamento di denari. In questo solo punto cominciò il pentimento della risoluzione, che non più poteva ritrattarsi, levandone gl'inconvenienti. Ero distante due giornate da Roma, sproveduto per continuare il camino, e peggio in ordine per ritornare adietro. Mentre una sera, sovrapreso da questi pensieri, ero confuso nelle angustie di questo mio stato, là onde scorgevomi in necessità d'impegnar me stesso nell'albergo in cui mi ritruovavo, giunse nel medesmo luogo per causa d'alloggio una compagnia di calcanti. Tali gli ravvisai dopo, con debito di ringraziare la fortuna per il loro incontro. Alcuni d'essi compassionando gli affanni che dimostrava l'esterna apparenza, spiarono i miei mali con cortese intenzione di sollevarmi da qualunque affanno. Scuopersi loro il tutto, avvertendo qualmente nell'usare la lingua in rimedio de' propri tormenti, dobbiamo imitare i cani, che con quella sanano ogni loro piaga. M'accolsero gentilmente, con assicurarmi abbondante provisione del tutto, quando avessi risolto di correre con essi la sorte medesma. Imaginisi V.S. se questa offerta di pane poteva rifiutarsi da un affamato, quale io ero. Sottoscrissi ad ogni condizione, perché la necessità pattuiva. Oltre che potevano allettarmi i buoni trattamenti d'una vita ch'eccedeva nel lusso, come è proprio di simile canaglia. M'aggiunsi a loro, e unitamente con essi mi condussi a Roma, sempre maggiormente contento d'essere capitato in adunanza di galantuomini, il viver de' quali è felicità, ancorché sia infamia la professione. Fui introdotto la prima sera nel loro Capitolo, dove i miracoli di stroppiati che si radrizzano, di ciechi i quali ricuperano la vista, di membra mutilate che ritornano intere, sono così copiosi ch'arrecano stupore, sapendosi non concorrervi forza di Santità. Offerto che ebbe ciascuno il suo guadagno, si fece nuova scena: e spogliata la pallidezza del viso, deposti i cenci stracciosi, formarono un atto di comedia, estesa in periodi d'allegrezza tra suoni, danze, e il compimento d'una lauta cena.

Mi furono proposti diversi impieghi, co' quali potevo farmi non ozioso ministro della loro professione. Conosciuto di poca abilità al rubbare, e di minor attitudine al mentire, poco esperto nel loro linguaggio, fui applicato ad esercizio in cui anche alla muta avrei persuaso altri al promuovere i nostri interessi. Il giorno seguente era consecrato a solennità grande, che portava conseguenza di numeroso concorso di popolo. Mi destinarono alla prima impresa in quell'arringo, nel quale fingendomi infermo, dovevo farmi ladro. Di buon mattino i più vecchi dell'arte m'armarono con le proprie insegne, onorandomi con un abito, il quale era un lacerato stendardo, in pompa de' loro trofei. Piegandomi il braccio destro, lo collegarono raddoppiato verso la spalla, e con un non so qual imbroglio di pasta fabricata da loro stessi, m'affissero su'l gomito un tale impiastro, che faceva credere tagliato di fresco il rimanente del braccio. Non diversamente acconciandomi la gamba sinistra, le diedero sembianze d'una colonna, o piede stallo d'ulcere, e piaghe. Con fascie poi, e con laceri panni, formavano un composto in cui era compassionata la mendicità, se non commiserato il male. Con fumo di zolfo finalmente, disseminando i pallori nel volto, mi diedero sembianze le quali poteano farmi credere fuggito da una tomba. Rassembrava almeno che la morte mi perseguitasse, quasi preda fuggita dalle sue fauci, mentre avevo faccia più d'agonizante che d'uomo vivo. Rabbuffato similmente il crine, e confusamente nascosto sotto d'un panno lino annerito dal fumo di mille secoli, mi compirono in forma d'orridezza, fatto spettacolo il quale commoveva con le violenze del terrore più che con le forze della pietà. Fummi consegnato il mio posto su la porta della Chiesa accennata, in cui andò fallita la speranza de' compagni, e l'esito mi necessitò alla disperazione. I rossori della vergogna, al considerarmi fatto così sprezzabile per capriccio, superarono gli artificii di quella finta pallidezza, là onde nell'apparato delle guancie colorito da' rimorsi della nobiltà, vedeansi mentite le apparenze. Il viso per altro, con una aria leggiadra, e con brio giovenile negli occhi, accusava falsamente aggiunte sembianze di cadavero. Addocchiommi un Grande, il quale con pompa di numeroso corteggio entrava per udire la Messa. Sotto pretesto di simulata pietà, affissando in me gli sguardi, esaminò tutte le parti del volto. L'appetito appruovò condizioni desiderabili per suo compiacimento. Con una meza occhiata e con un soghigno m'accennò ad un suo privato, consapevole forse della qualità di simili piaceri, soliti di pratticarsi da lui. Racconciando poi la faccia con sembianze di maestoso rigore, fece credere effetto di compassione l'ordine ch'ei diede per farmi portare nel proprio palaggio, obligando i suoi ad una diligente custodia, e dimostrandosi ansioso di vedermi in istato di ricuperata salute. M'avvidi d'essere nella trapola, senza poter fuggire questa sorpresa d'un atto di carità troppo pronto. Furono eseguiti li commandi del Grande, il quale già mi disegnava al far digerire una durezza che sentiva su lo stomaco, da non smaltirsi che col fomento di carni giovenili. Fui posto sovra morbide piume, per maggiormente assicurarmi che non avrebbe il Padrone sdegnata la morbidezza di quel letto. Io non sapevo con qual rimedio far fronte a questi pericoli, se non coll'avvalorare i miei mali con grida, che avrebbero fatto concorrere i dannati, dando a credere il mio Inferno più doloroso del loro. Ogni qual volta, a tocco benché leggiero, davasi occasione di risentirmi, o per il braccio, o per la gamba, esclamavo come disperato. In tal modo speravo di riuscire almeno noioso, di modo che l'impertinenza della mia indiscretezza mi liberasse da questo impaccio. Ero in buon termine per godere l'evento di questo mio disegno, posciaché già annoiati li servitori procuravano di sottrarmi al proprio governo, dicendo ch'io ero il disordine di tutta la famiglia, e lo sconvolgimento della casa.

Rimosse questa mia ventura il soverchio affetto del Grande, ch'al ritorno onorommi in persona della sua visita. Rinforzò gli ordini, ch'inculcavano un sollecito governo, a fine di provedere ad ogni mia necessità. Ebbe nuovo argomento per maggiormente invaghirsi, mentre l'opportunità dell'essere io nudo in letto, gli rappresentò in qualche parte del mio corpo un candore da cui congietturava un buon pasto, quando gli fosse riuscito d'assidersi alla mensa che desiderava. Vennero due chirurghi per veder le piaghe, e applicar loro i medicamenti convenevoli. Questo fu il maggior punto de' miei affanni, onde ero posto in necessità di scuoprire la frode, che mi confinava nelle reti di colui. Feci forte la voce per resistere a questo incontro, con spietate grida sforzandomi di vietare lo sfasciarmi la gamba. Con gagliarde violenze contrastavo la loro ostinazione, mentre essi predicandola giovevole a risanarmi, persuadevanmi al pazientemente tolerarla. Supplicavo d'esser condotto nell'ospitale, dove essendo consegnata la mia infermità, o alla natura, o alla fortuna, avrei provato meno dolorose condizioni. Affermavo qualmente il mio male, non avvezzo a' lenitivi de' medicamenti, esacerbavasi più tosto, nel privarlo di questa consuetudine. Spaventati gli chirurghi dallo strepito de' miei lamenti, deposero il pensiero di sviluppare quell'intricato ravvolgimento di menzogne, poste per appunto tra le fascie accioché crescessero alimentate dal latte della frode. Consultarono di tagliarmi tutta la parte offesa, la quale dal sentimento ch'io dimostravo, argomentavano putrefatta, e quindi certo preludio di vicina morte, quando col recidersi non si togliesse la communicazione di membro corrotto, ch'infetta il rimanente del corpo. Diferirono al giorno seguente la effettuazione di questo consulto, forse per dar tempo ad altra mia risoluzione, ch'il terrore di questo colpo avrebbe altrimente maturata. Non avevo pensiero per considerare, nonché per risolvere, angustiato da soverchia confusione, là onde facevomi talvolta ardito per imitare quello Spartano, il quale permise divorata una sua coscia, più tosto che scuoprire il furto della volpe rubbata. Così persuadevami il corraggio di tolerare questo maccello, per vietare gl'inganni della mia nuova professione.

Mandò finalmente soccorso la sorte, dopo d'aversi preso bastevolmente trastullo in questi suoi scherzi. Scherzi però troppo dolorosi erano questi, ch'angustiavano l'anima con obligazione di piangere per dar varco a' loro troppo spietati trattamenti. Già era tempo per convertire le beffe di costei contra il Grande che m'aveva imbarazzato ne' suoi giochi. Intesero i compagni quanto m'era succeduto, con poco buono presagio per loro, quando il zoppicare delle mie bugie facesse precipitare il lor mestiere. Prendendo però partito, mandarono alla casa dove io ero uno, che fingendosi mio frattello mi rapisse dalle zanne di chi mi tratteneva per aver un boccone da ingoiare a requisizione dell'appetito, senza consumarlo. Venne con pompe di Cavaliere, in abito che lo publicava giunto di fresco in Roma. S'abboccò col Padrone, e narrò la mia fuga, l'infame ripiego a cui, per quanto diceva d'aver inteso, io m'ero appigliato, arruolandomi tra' calcanti, che però in quel finto stato d'infermità avevo dato impulso a gli affetti di una divota compassione. Accennò la nobiltà de' miei natali, aggiungendo instanza di riavermi per consolar il Padre addolorato dalla mia fuga. Stupì quel Grande, rispondendo con tratti molto gentili; lo condusse nella stanza, in che io giacevo, tormentato dalla disperazione. Al veder colui, risorse il mio animo, ricaduto però ben tosto, mentre l'udii rinfacciarmi l'infamia di questo nuovo esercizio, come che così vilmente fossi tralignato da' miei maggiori. «Deponete — dissemi — quelle finzioni, che vi dimostrano infermo, non dovendo lagnarvi d'altro male che di puoco cervello». A questi rimpruoveri di chi condannava una azzione di cui egli stesso era stato complice, e promotore, rimasi istordito. Al nominarsi finalmente mio fratello, specificando il disegno di ricondurmi al Padre, penetrai l'invenzione del furbo. Concertando però co' suoi detti, e coll'arrossirmi publicando il mio fallo, mi sforzavo di tasteggiare, in modo che non seguisse dissonanza alcuna. Ricuperai il braccio, feci leggiadra la gamba, disciolsi la confusa chioma, imbrogliando tanto maggiormente gli affetti di quel Grande, pentito del non avermi fatta la carità su'l bel principio, là onde potesse in quel punto vantare la sodisfazzione de' propri desideri. Allo scorgermi assai più vago in una vivace gioventù non corrotta da false apparenze, pruovava gli stimoli d'un grande rimordimento, per aver trascurata opportunità così felice di gustare li bramati piaceri su la mia mensa. Procurò di trattenermi, ma sempre indarno, posciaché il finto fratello sollecitava la partenza disegnata il giorno stesso. Adduceva per causa d'affrettarla il non voler prolongare maggiormente i dolori del Padre. Avvalendosi il furbo delle dimostrazioni d'affetto, che quegli professava verso di me, sforzossi d'accoppiare all'esito de' suoi disegni l'acquisto d'un bellissimo abito, di cui quel Grande mi fece dono, sotto pretesto del non aver io in quello stato con che rivestirmi. Affermando in oltre d'essere stato spogliato nel viaggio da persone di mal affare, ottenne denari soprabondantemente, per ricondurmi. Così il povero merlotto diede la giunta, senza poter spacciare la carne, che pure di vantaggio gli cresceva inanzi. Mi liberai dall'obligo di prenderla, esentandomi pur anche da ogni somigliante pericolo coll'uscire di Roma. Risolsi il ritorno alla patria, dove ora pure mi ritruovo ricuoverato sotto le ale paterne. Non s'offenda V.S. della prolissità di questo racconto, mentre fatta certa della mia continuata affezzione, e del mio bene stare, può vantarsi d'avere ricuperato un servitore. Sapendo almeno dove io sia, dovrà inviarmi i suoi commandi, i quali attenderò di tutto cuore come la prego ad onorarmene; e per fine, etc.

 

«E che vi pare — disse il Conte — di questi atti di gran carità, che s'usano in Roma, con grande pompa per certo della liberalità di que' Grandi?».

«Quando si rappresentano simili occasioni — soggiunse il Marchese —, prodighi oltre misura dispergono ogni loro avere, lasciando per altra parte miserabili, e famelici, li virtuosi e altri personaggi di molto merito».

«Rimmettiamo — disse il Cavaliere — l'obligo di favellare di somiglianti atti di carità a persone Ecclesiastiche, e Religiose, come d'esercizio lor proprio».

«E che osservaremo — ripigliò il Barone — in così longa lettera? Forse le furberie de' calcanti?».

«Non in grazia — replicò il Marchese —, stando che questi non possono mal trattarsi senza pungere li Prencipi, i quali sono capi di questa professione».

«Ciò forse accennate — disse il Conte — perché eglino prescrivono il modo di rubbare, senza che apparisca specie di furto. Hanno anch'essi il loro linguaggio, non inteso che da chi prattica gl'interessi di stato; hanno le loro arti, e particolari dogmi, tutti indrizzati al rapire l'altrui con leggiadria tale che s'obligano chi eziandio rimane da loro spogliato. Almeno fa di mestieri che così finga, per necessità d'incontrare il lor genio».

«E dove tralasciate — replicò il Barone — l'uso loro di vender il falso per vero, di fingere necessità, per giustificare le estorsioni, de' sudditi, applicate il più delle volte ad accrescere il lusso di superbe grandezze; il frequentare in somma invenzioni per moltiplicare gli acquisti, regole, per appunto, che s'insegnano nella scuola de' calcanti?».

«I Grandi — ridisse il Barone — hanno la catedra dove s'imparano le finzioni, e i latrocinii ammantati».

«Passiamo ad altro in grazia», replicò il Barone, che aveva nuova lettera nelle mani, in cui così lesse:

 




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