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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Illustrissimo Signor mio.

Ero in gran confusione all'intendere che V.S. Illustrissima non aveva ricevute le ultime mie lettere, le quali speravo dover riuscire di sua somma sodisfazzione. Sapevo qualmente il Corriere svaligiato, a cui furono consegnate, non era stato sollevato che dagl'invogli pesanti di gemme, danari, e altre merci di pregio, perché li professori di tali atti di carità hanno mai sempre riguardo al maggior peso, per liberarne dall'aggravio li viandanti. Non sapevo però conoscere d'onde procedesse l'esser andato fallito il ricapito de' miei dispacci, li quali non poteano servire all'avarizia di questi mercatanti.

Ora m'ha tratto fuori di sospetto l'avviso d'un amico, che mi ragguaglia qualmente il medesmo Corriero, spogliato prima da' malandrini, altrove poi era stato necessitato da nuova sorpresa al lasciare vuote le valigi anche di lettere. Si presentò la querela al Magistrato del luogo, dove erasi commesso il secondo delitto, il quale co' termini della solita giustizia, facendo inequisizione del delinquente, disegnava severo castigo per delitto così spropositato, da non iscusarsi né meno con l'attrattiva d'alcun giovamento, quando però non fosse stato preteso il compiacimento d'una perversa intenzione. La sola fama di simile ordine publicato da' giudici, tolse ogni fatica a chi aveva l'incarco di ritruovare il reo, poiché egli stesso comparve volontariamente al loro tribunale. Questi era un vecchio di picciola statura, ch'incurvati gli omeri sotto una somma di malizia, era quasi necessitato a tener il capo basso verso terra, per imitare le bestie nella positura del corpo, come le rassomiglia ne' costumi. Intendo essere di buon cognome, non so se così di buona nascita. Precorse ogni interrogazione in publicare la colpa, come quello che sempre ha stimato gloria l'operar male. Nominò zelo il motivo da cui erasi condotto al trattenere queste lettere, presentendo già molto tempo avanti che con soverchia libertà si scrivevano gl'interessi de' Principi, e altri particolari indegni d'avere libero lo scorrere su l'ale de' fogli. Propose di far apparire questa verità, favellando con tal arte che già quasi trionfava nella mente de' giudici la palliata ipocrisia di costui. Ma essendovi tra quelli chi aveva notizia della di lui vita, assicurò qualmente non doveva credersi intenzione sì retta, in chi aveva mai sempre dati saggi di sinistro volere. La più giusta causa, con cui potesse coonestarsi questa sua temeraria azzione, era il timore di veder publicate lettere contro di sé; come che la fama, se non de' suoi vituperi delle sue pazzie, somministra penne per scrivere, come egli dubita. Trattone questo pretesto, non totalmente spropositato, fu detto non poter attribuirsi ad altro che a malignità atto così indecente. Il giudicio non poteva essere fallace, essendo quello convinto reo in simil genere di colpa da una consuetudine già familiare, e quasi connaturale. Con tutto ciò la benignità de' giudici, compassionando il poco senno della vecchiezza, in chi massime non sapeva che cosa fosse cervello, se non forse alcuno di bue arrostito, l'assolse, licenziandolo come pazzo, e in oltre proveduto d'una qualità, fatta poco meno ch'essenziale, onde è suo proprio il non dar gusto ad alcuno. Sin con la presenza offende, che però non è maraviglia se, per non far mentire le sembianze, egli conciti contro di sé l'odio di tutti co' trattamenti. La sentenza fu confermata, sì perché queste due veritadi erano irretrattabili, sì pure perché giovò l'amicizia di molti de' giudici, li quali erano suoi parziali. Veda dunque V. Signoria Illustrissima onde proceda il mancamento del non avere ricevute le lettere, ch'essa attendeva con somma curiosità. Fa di mestieri aver pazienza, quando porta la fortuna d'aver briga con maligni, o con mentecati. Sarà mia nuova fatica il ricomporre quelle scritture, nelle quali colpirò lo scopo di prima nella curiosità della materia, se non nella dettatura. L'intraprenderò di buona voglia per servire a V.S. Illustrissima, pronto ad ogni altro impiego, in cui con mio maggiore incommodo, io possa dimostrare maggiormente la mia servitù, la quale offro a V.S. di tutto cuore; e per fine, etc.

 

«Bizarro capriccio — disse il Cavaliere — di questo vecchio, degno d'esser conservato appeso con una gran fune, quasi memoriale d'un atto di tanto zelo».

«Anzi egli stesso — aggiunse il Conte — dovrebbe pender a vuoto sotto un arco trionfale, per formare un festone in pompa di gloria acquistatasi con impresa memorabile».

«Deve per il meno argomentarsi — ridisse il Conte — ch'egli non porti alcun in groppa, come suol dirsi, usando egualmente li suoi termini incivili nel dar disgusti a ciascuno, come testifica chi scrive».

«Questo non portar in groppa io non admetto — ripigliò il Marchese — poiché ribambito questo vecchio, come nel cervello così negli atti puerili, ha per unico trattenimento il portar in groppa, tanto più godendo quanto più se gli calca addosso».

«Forse ciò deve succedere — disse il Barone — per desiderio di vedersi appianato il dorso, posto quasi in soppressa da chi l'opprime, e in tal modo levare il mancamento della gobba».

«A fè — replicò il Conte — che questa difficilmente si toglie da' vecchi, essendo un naturale contrasegno che il cervello, il quale si parte dal capo, discende alle calcagna; che però nel vigore del suo primo moto, ingrossa di tal maniera gli omeri».

Il Cavaliere, che già invecchiava, negò d'udire maggiori biasimi della vecchiezza, quali forse avrebbe portati il proseguire questo discorso. Quindi l'interruppe con la proposta d'altra lettera, che così diceva:

 




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