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Ferrante Pallavicino
Il corriero svaligiato

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  • 3 - IL CORRIERO SVALIGIATO
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Carissimo come fratello.

Questo non è più terreno per noi. Li ladri qui in Cremona hanno troppo frequenti rivali, e i germogli della nostra professione pullulano in tanta abbondanza che fa di mestieri star su le difese, per non essere rubbati, più che invigilare per incontrare commodità di rubbare. Se deve osservarsi il precetto già trito di ceder il luogo a' maggiori, ci converrà al sicuro di partire, posciaché siamo di gran longa inferiori in quest'arte a' medesmi Cittadini. Locuste prattiche del paese, non lasciano che divorare a' forestieri in questi prati, dove altre fiate, non so se la Primavera o noi ridevamo per gli nostri acquisti. Non m'assicuro di poter mantenere questo posto, consegnatomi da' compagni, perché soprabondano gli assedianti, ed essendo più di me presti nelle sorprese, danno il sacco a tutti i miei disegni. Ho determinato di partire, temendo che da costoro mi sia rubbato anche il capestro, il quale però volontariamente rinunziarò, a fine di lasciar loro libero quel premio, che sforzano di guadagnarsi con moltiplicati furti. Me ne verrò appresso a voi per tentare, unitamente al solito, incontri di maggior fortuna.

 

«Sono scusabili que' Cittadini — disse il Conte — nel rubbare, se pur è vero che nelle qualitadi, o passioni naturali, non ci si ascrive demerito alcuno».

«Aggiungete pure — ripigliò il Marchese — che sogetti ad un dominante il quale gli spela, sono in necessità d'esercitarsi in spogliar altri, a fine di risarcire il danno, o almeno per non soccombere sotto gli aggravi!».

«Osservato ho ben sì più fiate — soggiunse il Barone — qualmente nelle Cittadi commandate da questo regnante fiorisce con singolar pregio la professione de' ladri, e l'esercizio delle rapine, là onde ben può gloriarsi quel Re d'avere seguaci nella imitazione tutti li vassalli».

«Hanno vicini gli esempi del loro Signore, o almeno de' suoi ministri — ripigliò il Cavaliere —; e taluno anche gli vede in se medesmo, di modo che dovrebbesi loro singolar biasimo, quando per obligo di sogezzione non se gli conformassero».

Non ben ancora aveva terminati questi accenti il Cavaliere, quando un riso del Conte invitò la curiosità de' compagni. Aveva di già disciolti gli piegati invogli d'un foglio, per spiarvi adentro li racchiusi secreti. «Rido — disse egli stesso — per la novità de' titoli, li quali inventa questo balordo che scrive». Affacciandosi tutti al rimirare quella carta, videro per frontispicio di balordaggine un "Molto Illustrissimo". In atto di scherzo con viso severo parlò il Marchese:

«Non beffate costui, o Signori, posciaché inviando questa lettera a Roma, egli era in necessità d'inventare nuovi titoli, per sodisfare a' capricci che regnano colà in questo particolare».

«È vero — disse il Conte —, ma faceva di mestieri proporre un titolo non spropositato, come pure è questo di "Molto Illustrissimo"».

«Eh, quanti titoli spropositati — soggiunse il Barone — s'odono in Roma, appropriandosi attributi sublimi a taluno a cui converrebbero più tosto aggiunti d'infamia».

«Oltre questo — ripigliò il Cavaliere — è di bisogno dare negli spropositi, mentre s'obliga il cervello a sviscerare se medesmo per ritruovare titoli, che pareggino l'ambizione di chi gli pretende».

«È proprio — ripigliò il Conte — di procurarsi avanzo d'onore ne' titoli, in chi s'avvede di decadere davanti d'uomo, non che di Grande, nelle operazioni».

«Tralasciamo — ridisse il Marchese — questa miseria propria de' nostri secoli, ne' quali le azzioni poco buone, per non dire malvagie de' personaggi più riguardevoli, necessitano la grandezza umana al raffigurarsi in una speziaria fallita, in cui ciò che v'è di più bello sono gli soprascritti delle scatole, con inganno di chi legge un titolo eminente, e poi vede azzioni vilissime. Leggiamo questa lettera, da cui in sì goffo principio ci si prommette una lettura molto dilettevole». In conformità di questa sua proposta così lesse:

 




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