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Silvio Pellico Le mie prigioni IntraText CT - Lettura del testo |
Volgendo tai pensieri, giunsi a San Michele, e fui chiuso in una stanza che avea la vista d'un cortile, della laguna e della belle isola di Murano. Chiesi di Maroncelli al custode, alla moglie sua, a quattro secondini. Ma mi faceano visite brevi e piene di diffidenza, e non voleano dirmi niente
Nondimeno, dove son cinque o sei persone egli è difficile che non se ne trovi una vogliosa di compatire e di parlare. Io trovai tal persona, e seppi quanto segue:
Maroncelli, dopo essere stato lungamente solo, era stato messo col conte Camillo Laderchi: quest'ultimo era uscito di carcere, da pochi giorni, come innocente, ed il primo tornava ad esser solo. De' nostri compagni erano anche usciti, come innocenti, il professor Gian-Domenico Romagnosi, ed il conte Giovanni Arrivabene. Il capitano Rezia ed il signor Canova erano insieme. Il professor Ressi giacea moribondo, in un carcere vicino a quello di questi due.
«Di quelli che non sono usciti» diss'io «le condanne son dunque venute. E che s'aspetta a palesarcele? Forse che il povero Ressi muoia, o sia in grado d'udire la sentenza, non è vero?»
«Credo di sì.»
Tutti i giorni io dimandava dell'infelice.
«Ha perduto la parola; - l'ha riacquistata, ma vaneggia e non capisce; - dà pochi segni di vita; - sputa sovente sangue, e vaneggia ancora; - sta peggio; - sta meglio; - è in agonia.»
Tali risposte mi si diedero per più settimane. Finalmente una mattina mi si disse: «È morto!».
Versai una lagrima per lui, e mi consolai pensando ch'egli aveva ignorata la sua condanna!
Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l'inquisitore e i due giudici assistenti.
Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l'Imperatore l'aveva mitigato.
L'inquisitore mi lesse la sentenza: «Condannato a morte». Poi lesse il rescritto imperiale: «La pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg».
Risposi: «Sia fatta là volontà di Dio!».
E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia.
Il presidente lodò la mia tranquillità, e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che da questa tranquillità potea dipendere l'essere forse, fra due o tre anni, creduto meritevole di maggior grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.)
Anche gli altri giudici mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che nel processo m'era ognora sembrato molto ostile, mi disse alcun che di cortese che pur pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita dagli sguardi, ne' quali avrei giurato essere un riso di gioia e d'insulto.
Or non giurerei più che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. Ma il sangue allora mi si rimescolò, e stentai a non prorompere in furore. Dissimulai, e mentre ancora mi lodavano della mia cristiana pazienza, io già l'aveva in segreto perduta.
«Dimani» disse l'inquisitore «ci rincresce di doverle annunciare la sentenza in pubblico; ma è formalità impreteribile.»
«Da quest'istante le concediamo» soggiunse «la compagnia del suo amico.»
E chiamato il custode, mi consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli.