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Francesco Petrarca Canzoniere IntraText CT - Lettura del testo |
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-360-Quel'antiquo mio dolce empio signore fatto citar dinanzi a la reina tien di natura nostra e 'n cima sede, ivi, com'oro che nel foco affina, mi rappresento cerco di dolore, quasi huom che teme morte et ragion chiede; e 'ncomincio: - Madonna, il manco piede giovenetto pos'io nel costui regno, non ebbi mai; et tanti et sì diversi ch'alfine vinta fu quell'infinita mia patïentia, e 'n odio ebbi la vita.
Così 'l mio tempo infin qui trapassato è in fiamma e 'n pene: et quante utili honeste per servir questo lusinghier crudele! Et qual ingegno à sì parole preste, che stringer possa 'l mio infelice stato, et le mie d'esto ingrato tanto et sì gravi e sì giuste querele? O poco mèl, molto aloè con fele! In quanto amaro à la mia vita avezza la qual m'atrasse a l'amorosa schiera! disposto a sollevarmi alto da terra: e' mi tolse di pace et pose in guerra.
Questi m'à fatto men amare Dio ch'i' non deveva, et men curar me stesso: egualmente in non cale ogni pensero. Di ciò m'è stato consiglier sol esso, sempr'aguzzando il giovenil desio sperai riposo al suo giogo aspro et fero. Misero, a che quel chiaro ingegno altero, et l'altre doti a me date dal cielo? né cangiar posso l'ostinata voglia: così in tutto mi spoglia di libertà questo crudel ch'i' accuso, ch'amaro viver m'à vòlto in dolce uso.
Cercar m'à fatto deserti paesi, fiere et ladri rapaci, hispidi dumi, et ogni error che' pellegrini intrica, monti, valli, paludi et mari et fiumi, mille lacciuoli in ogni parte tesi; con pericol presente et con fatica: né costui né quell'altra mia nemica ch'i' fuggìa, mi lasciavan sol un punto; onde, s'i' non son giunto anzi tempo da morte acerba et dura, di mia salute non questo tiranno che del mio duol si pasce, et del mio danno.
Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla, né spero aver, et le mie notti il sonno per herbe o per incanti a sé ritrarlo. Per inganni et per forza è fatto donno sovra miei spirti; et no sonò poi squilla, ch'i' non l'udisse. Ei sa che 'l vero parlo: ché legno vecchio mai non róse tarlo come questi 'l mio core, in che s'annida, Quinci nascon le lagrime e i martiri, di ch'io mi vo stancando, et forse altrui. Giudica tu, che me conosci et lui. -
Il mio adversario con agre rampogne comincia: - O donna, intendi l'altra parte, quest'ingrato, dirà senza defecto. Questi in sua prima età fu dato a l'arte da vender parolette, anzi menzogne; tolto da quella noia al mio dilecto, lamentarsi di me, che puro et netto, contra 'l desio, che spesso il suo mal vòle, in dolce vita, ch'ei miseria chiama: solo per me, che 'l suo intellecto alzai ov'alzato per sé non fôra mai.
Ei sa che 'l grande Atride et l'alto Achille, et Hanibàl al terren vostro amaro, et di tutti il più chiaro un altro et di vertute et di fortuna, com'a ciascun le sue stelle ordinaro, lasciai cader in vil amor d'ancille: et a costui di mille donne electe, excellenti, n'elessi una, qual non si vedrà mai sotto la luna, benché Lucretia ritornasse a Roma; le diedi, et un cantar tanto soave, non poté mai durar dinanzi a lei. Questi fur con costui li 'nganni mei.
Questo fu il fel, questi li sdegni et l'ire, più dolci assai che di null'altra il tutto. mieto; et tal merito à chi 'ngrato serve. Sì l'avea sotto l'ali mie condutto, ch'a donne et cavalier piacea il suo dire; i''l feci, che tra' caldi ingegni ferve il suo nome et de' suoi detti conserve si fanno con diletto in alcun loco; mormorador di corti, un huom del vulgo: per quel ch'elli 'mparò ne la mia scola, et da colei che fu nel mondo sola.
Et per dir a l'extremo il gran servigio, da mille acti inhonesti l'ò ritratto, ché mai per alcun pacto a lui piacer non poteo cosa vile: giovene schivo et vergognoso in acto et in penser, poi che fatto era huom ligio li 'mpresse al core, et fecel suo simìle. Quanto à del pellegrino et del gentile, da lei tene, et da me, di cui si biasma. d'error non fu sì pien com'ei vèr' noi: ch'è in gratia, da poi che ne conobbe, a Dio et a la gente. Di ciò il superbo si lamenta et pente.
Ancor, et questo è quel che tutto avanza, da volar sopra 'l ciel li avea dat'ali che son scala al fattor, chi ben l'estima; ché mirando ei ben fiso quante et quali eran vertuti in quella sua speranza, d'una in altra sembianza potea levarsi a l'alta cagion prima; et ei l'à detto alcuna volta in rima, or m'à posto in oblio con quella donna de la sua frale vita. - A questo un strido - Ben me la die', ma tosto la ritolse. - Responde: - Io no, ma Chi per sé la volse. -
Alfin ambo conversi al giusto seggio, i' con tremanti, ei con voci alte et crude, ciascun per sé conchiude: - Nobile donna, tua sententia attendo. - Ella allor sorridendo: - Piacemi aver vostre questioni udite, ma più tempo bisogna a tanta lite. -
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