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Francesco Petrarca
Trionfi

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-2-

 

Stanco già di mirar, non sazio ancora,
or quinci or quindi mi volgea guardando
cose ch'a ricordarle è breve l'ora.

Giva 'l cor di pensiero in pensier, quando
tutto a sé il trasser due ch'a mano a mano
passavan dolcemente lagrimando.

Mossemi 'l lor leggiadro abito e strano
e 'l parlar pellegrin, che m'era oscuro,
ma l'interprete mio mel facea piano.

Poi che seppi chi eran, più securo
m'accostai a lor, ché l'un spirito amico
al nostro nome, l'altro era empio e duro.

Fecimi al primo: – O Massinissa antico,
per lo tuo Scipïone e per costei –
cominciai – non t'incresca quel ch'i' dico. –

Mirommi, e disse: – Volentier saprei
chi tu se' innanzi, da poi che sì bene
hai spiato ambeduo gli affetti miei. –
– L'esser mio – gli risposi – non sostene
tanto conoscitor, ché così lunge
di poca fiamma gran luce non vene;

ma tua fama real per tutto aggiunge,
e tal che mai non ti vedràvide,
con bel nodo d'amor teco congiunge.

Or dimmi, se colui in pace vi guide, –
e mostrai 'l duca lor – che coppia è questa
che mi par delle cose rade e fide? –

– La lingua tua al mio nomepresta,
provadiss'ei – che 'l sappi per te stesso;
ma dirò per sfogar l'anima mesta.

Avend'io in quel sommo uom tutto 'l cor messo,
tanto ch'a Lelio ne vanto a pena,
ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.

A lui Fortuna fu sempre serena,
ma non già quanto degno era il valore,
del qual più d'altro mai l'alma ebbe piena.

Poi che l'arme romane a grande onore
per l'estremo occidente furo sparse,
ivi n'aggiunse e ne congiunse Amore;

né mai più dolce fiamma in duo cori arse,
né farà, credo. Omè, ma poche notti
fur a tanti desirbrevi e scarse,

indarno a marital giogo condotti,
ché del nostro furor scuse non false,
e i legittimi nodi furon rotti.

Quel che sol più che tutto 'l mondo valse
ne dipartì con sue sante parole,
ché di nostri sospir nulla gli calse;

e benché fosse onde mi dolse e dole,
pur vidi in lui chiara virtute accesa,
ché 'n tutto è orbo chi non vede il sole.

Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
però di tanto amico un tal consiglio
fu quasi un scoglio a l'amorosa impresa.

Padre m'era in onore, in amor figlio,
fratel negli anni; onde obedir convenne,
ma col cor tristo e con turbato ciglio.

Così questa mia cara a morte venne,
che vedendosi giunta in forza altrui,
morir in prima che servir sostenne:

et io del dolor mio ministro fui,
ché 'l pregator e i preghi eran sì ardenti
ch'offesi me per non offender lui,

e manda' le 'l velen con sì dolenti
pensier, com'io so bene, et ella il crede,
e tu, se tanto o quanto d'amor senti.

Pianto fu 'l mio di tanta sposa erede:
lei, et ogni mio bene, ogni speranza
perder elessi per non perder fede.

Ma cerca omai se trovi in questa danza
notabil cosa, perché 'l tempo è leve,
e più de l'opra che del giorno avanza. –

Pien di pietate, e ripensando 'l breve
spazio al gran foco di duo tali amanti,
pareami al sol aver un cor di neve;

quand'io udi' dir su nel passar avanti:
– Costui certo per sé già non mi spiace,
ma ferma son d'odiarli tutti quanti. –

Pondiss'io – il core, o Sofonisba, in pace,
ché Cartagine tua per le man nostre
tre volte cadde, et a la terza giace. –

Et ella: – Altro vogl'io che tu mi mostre:
s'Africa pianse, Italia non ne rise:
dimandatene pur l'istorie vostre. –

A tanto, il nostro e suo amico si mise,
sorridendo, con lei nella gran calca
e fur da lor le mie luci divise.

Come uom che per terren dubio cavalca,
che va restando ad ogni passo, e guarda,
e 'l pensier de l'andar molto difalca,

così l'andata mia dubiosa e tarda
facean gli amanti, di che ancor m'aggrada
saver quanto ciascun e in qual foco arda.

I' vidi ir a man manca un fuor di strada,
a guisa di chi brami e trovi cosa
onde poi vergognoso e lieto vada.

Donar altrui la sua diletta sposa,
o sommo amore e nova cortesia!
tal ch'ella stessa lieta e vergognosa

parea del cambio; e givansi per via
parlando insieme de' lor dolci affetti,
e sospirando il regno di Soria.

Trassimi a que' tre spirti che ristretti
eran già per seguire altro cammino,
e dissi al primo: – I' prego che t'aspetti. –

Et egli al suon del ragionar latino,
turbato in vista, si rattenne un poco;
e poi, del mio voler quasi indivino,

disse: – Io Seleuco son, questi è Antïoco
mio figlio, che gran guerra ebbe con voi;
ma ragion contra forza non ha loco.

Questa, mia in prima, sua donna fu poi,
ché per scamparlo d'amorosa morte
gliel diedi, e 'l don fu lecito tra noi.

Stratonica è 'l suo nome, e nostra sorte,
come vedi, indivisa; e per tal segno
si vede il nostro amor tenace e forte,

ch'è contenta costei lasciarme il regno,
io il mio diletto, e questi la sua vita,
per far, vie più che sé, l'un l'altro degno.

E se non fosse la discreta aita
del fisico gentil, che ben s'accorse,
l'età sua in sul fiorir era finita.

Tacendo, amando, quasi a morte corse,
e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute;
la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. –

Così disse; e come uom che voler mute,
col fin de le parole i passi volse,
ch'a pena gli potei render salute.

Poi che dagli occhi miei l'ombra si tolse,
rimasi grave e sospirando andai,
ché 'l mio cor dal suo dir non si disciolse

infin che mi fu detto: – Troppo stai
in un penser a le cose diverse;
e 'l tempo ch'è brevissimo ben sai. –

Non menò tanti armati in Grecia Serse
quant'ivi erano amanti ignudi e presi,
tal che l'occhio la vista non sofferse,

vari di lingue e vari di paesi,
tanto che di mille un non seppi 'l nome,
e fanno istoria que' pochi ch'intesi.

Perseo era l'uno, e volsi saper come
Andromeda gli piacque in Etiopia,
vergine bruna i begli occhi e le chiome;

ivi 'l vano amador che la sua propia
bellezza desiando fu distrutto,
povero sol per troppo averne copia,

che divenne un bel fior senz'alcun frutto;
e quella che, lui amando, ignuda voce
fecesi e 'l corpo un duro sasso asciutto;

ivi quell'altro al suo malveloce,
Ifi, ch'amando altrui in odio s'ebbe,
con più altri dannati a simil croce,

gente cui per amar viver increbbe,
ove raffigurai alcun moderni
ch'a nominar perduta opra sarebbe.

Que' duo che fece Amor compagni eterni,
Alcïone e Ceìce, in riva al mare
far i lor nidi a' più soavi verni;

lungo costor pensoso Esaco stare
cercando Esperia, or sopra un sasso assiso,
et or sotto acqua, et or alto volare;

e vidi la crudel figlia di Niso
fuggir volando, e correr Atalanta,
da tre palle d'or vinta e d'un bel viso;

e seco Ipomenès che fra cotanta
turba d'amanti miseri cursori
sol di vittoria si rallegra e vanta.

Fra questi fabulosi e vani amori
vidi Aci e Galatea, che 'n grembo gli era,
e Polifemo farne gran romori;

Glauco ondeggiar per entro quella schiera,
senza colei cui sola par che pregi,
nomando un'altr'amante acerba e fera;

Canente e Pico, un già de' nostri regi,
or vago augello, e chi di stato il mosse
lasciògli 'l nome e 'l real manto e i fregi.

Vidi 'l pianto d'Egeria; invece d'osse
Scilla indurarsi in petra aspra et alpestra,
che del mar ciciliano infamia fosse;

e quella che la penna da man destra,
come dogliosa e desperata scriva,
e 'l ferro ignudo tien da la sinestra;

Pigmalïon con la sua donna viva;
e mille che Castalia et Aganippe
udir cantar per la sua verde riva;

e d'un pomo beffata al fin Cidippe.


 




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