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Francesco Petrarca Trionfi IntraText CT - Lettura del testo |
5 - TRIUMPHUS TEMPORIS (Trionfo del Tempo)
De l'aureo albergo
co l'aurora inanzi
sì ratto usciva 'l sol cinto di raggi,
che detto avresti: – e' si corcò pur dianzi. –
Alzato un poco,
come fanno i saggi
guardoss'intorno, et a se stesso disse:
– Che pensi? omai convien che più cura aggi.
Ecco, s'un che
famoso in terra visse,
de la sua fama per morir non esce,
che sarà de la legge che 'l Ciel fisse?
E se fama mortal
morendo cresce,
che spegner si devea in breve, veggio
nostra eccellenzia al fine; onde m'incresce.
Che più s'aspetta?
o che puote esser peggio?
che più nel ciel ho io che 'n terra un uomo,
a cui esser egual per grazia cheggio?
Quattro cavai con
quanto studio como,
pasco nell'oceano e sprono e sferzo,
e pur la fama d'un mortal non domo!
Ingiuria da
corruccio e non da scherzo,
avenir questo a me, s' i' fossi in cielo
non dirò primo, ma secondo, o terzo!
Or conven che
s'accenda ogni mio zelo,
sì ch'al mio volo l'ira addoppi i vanni,
ch'io porto invidia agli uomini, e nol celo;
de' quali io veggio
alcun dopo mille anni
e mille e mille, più chiari che 'n vita,
et io m'avanzo di perpetui affanni.
Tal son qual era
anzi che stabilita
fusse la terra, dì e notte rotando
per la strada ritonda ch'è infinita. –
Poi che questo ebbe
detto, disdegnando
riprese il corso più veloce assai
che falcon d'alto a sua preda volando:
più, dico; né
pensier poria già mai
seguir suo volo, non che lingua o stile,
tal che con gran paura il rimirai.
Allor tenn'io il
viver nostro a vile
per la mirabil sua velocitate
vie più che inanzi nol tenea gentile;
e parvemi terribil
vanitate
fermare in cose il cor che 'l Tempo preme,
che, mentre più le stringi, son passate.
Però chi di suo
stato cura o teme,
proveggia ben, mentr'è l'arbitrio intero,
fondare in loco stabile sua speme;
ché quant'io vidi
il Tempo andar leggero
dopo la guida sua che mai non posa,
io nol dirò, perché poter non spero.
I' vidi il
ghiaccio, e lì stesso la rosa,
quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo,
che pur udendo par mirabil cosa.
Ma chi ben mira col
giudizio saldo,
vedrà esser così; ché nol vid' io?
di che contra me stesso or mi riscaldo.
Segui' già le
speranze e 'l van desio;
or ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio
ov'io veggio me stesso e 'l fallir mio;
e quanto posso al
fine m'apparecchio,
pensando al breve viver mio, nel quale
stamani era un fanciullo et or son vecchio.
Che più d'un giorno
è la vita mortale?
Nubil'e brev' e freddo e pien di noia,
che pò bella parer ma nulla vale.
Qui l'umana
speranza e qui la gioia,
qui' miseri mortali alzan la testa
e nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga
del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del sole
la ruina del mondo manifesta.
Or vi riconfortate
in vostre fole,
gioveni, e misurate il tempo largo!
Ma piaga antiveduta assai men dole.
Forse che 'ndarno
mie parole spargo;
ma io v'annunzio che voi sete offesi
da un grave e mortifero letargo,
ché volan l'ore, e'
giorni, e gli anni, e' mesi;
insieme, con brevissimo intervallo,
tutti avemo a cercar altri paesi.
Non fate contra 'l
vero al core un callo,
come sete usi, anzi volgete gli occhi
mentre emendar si pote il vostro fallo;
non aspettate che
la morte scocchi,
come fa la più parte, ché per certo
infinita è la schiera degli sciocchi.
Poi ch' i' ebbi
veduto e veggio aperto
il volar e 'l fuggir del gran pianeta,
ond'io ho danni et inganni assai sofferto,
vidi una gente
andarsen queta queta,
senza temer di Tempo o di sua rabbia,
ché gli avea in guardia istorico o poeta.
Di lor par che più
d'altri invidia s'abbia,
che per se stessi son levati a volo
uscendo for della comune gabbia.
Contra costor colui
che splende solo
s'apparecchiava con maggiore sforzo
e riprendeva un più spedito volo;
a' suoi corsier
radoppiato era l'orzo;
e la reina di ch'io sopra dissi
d'alcun de' suoi già volea far divorzo.
Udi' dir, non so a
chi, ma 'l detto scrissi:
– In questi umani, a dir proprio, ligustri,
di cieca oblivïon che 'scuri abissi!
Volgerà il sol non
pure anni ma lustri
e secoli, vittor d'ogni cerebro,
e vedrà il vaneggiar di questi illustri.
Quanti fur chiari
tra Peneo ed Ebro
che son venuti e verran tosto meno!
quanti sul Xanto e quanti in val di Tebro!
Un dubbio, iberno,
instabile sereno,
è vostra fama, e poca nebbia il rompe;
e 'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno.
Passan vostre
grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni;
ogni cosa mortal Tempo interrompe,
e ritolta a' men
buon, non dà a' più degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie e' vostri ingegni.
Così fuggendo il
mondo seco volve,
né mai si posa né s'arresta o torna,
finché v'ha ricondotti in poca polve.
Or, perché umana
gloria ha tante corna,
non è mirabil cosa s'a fiaccarle
alquanto oltra l'usanza si soggiorna;
ma quantunque si
pensi il vulgo o parle,
se 'l viver vostro non fusse sì breve,
tosto vedresti in fumo ritornarle. –
Udito questo,
perché al ver si deve
non contrastar ma dar perfetta fede,
vidi ogni nostra gloria al sol di neve;
e vidi il Tempo
rimenar tal prede
de' nostri nomi, ch'io gli ebbi per nulla,
benché la gente ciò non sa né crede:
cieca, che sempre
al vento si trastulla
e pur di false opinïon si pasce,
lodando più il morir vecchio che 'n culla.
Quanti son già felici
morti in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: – Beato chi non nasce. –
Ma per la turba a'
grandi errori avezza
dopo la lunga età sia 'l nome chiaro:
che è questo però che sì s'apprezza?
Tutto vince e
ritoglie il Tempo avaro;
chiamasi Fama, et è morir secondo;
né più che contra 'l primo è alcun riparo.
Così 'l Tempo triunfa i nomi e 'l mondo.