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Agnolo Ambrogini, detto il Poliziano Favola di Orfeo IntraText CT - Lettura del testo |
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2 - Fabula di OrfeoMERCURIO annunziatore delle feste
Silenzio. Udite. E' fu già un pastore figliuol d'Apollo, chiamato Aristeo. Costui amò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu di Orfeo, che seguendola un giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo: perché, fuggendo lei vicina all'acque, una biscia la punse; e morta giacque.
Orfeo cantando all'Inferno la tolse, ma non poté servar la legge data, ché 'l poverel tra via dietro si volse sì che di nuovo ella gli fu rubata: però ma' più amar donna non volse, e dalle donne gli fu morte data.
State tenta, bragata! Bono argurio, ché di cievol in terra vien Marcurio.
Hai tu veduto un mio vitelin bianco, ch'ha una macchia nera in sulla fronte e duo piè rossi et un ginocchio e 'l fianco?
Caro mio Mopso, a piè di questo fonte non son venuti questa mane armenti, ma senti' ben mugghiar là drieto al monte. Va', Tirsi, e guarda un poco se tu 'l senti. Tu, Mopso, intanto ti starai qui meco, ch'i' vo' ch'ascolti alquanto i mie' lamenti. Ier vidi sotto quello ombroso speco una ninfa più bella che Dïana, ch'un giovane amatore avea seco. Com'io vidi sua vista più che umana, subito mi si scosse il cor nel pecto e mie mente d'amor divenne insana: tal ch'io non sento, Mopso, più dilecto ma sempre piango, e 'l cibo non mi piace, e senza mai dormir son stato in letto.
Aristeo mio, questa amorosa face se di spegnerla tosto non fai pruova, presto vedrai turbata ogni tua pace. Sappi ch'amor non m'è già cosa nuova; so come mal, quand'è vecchio, si regge: rimedia tosto, or che 'l rimedio giova. Se tu pigli Aristeo, suo dure legge, e' t'uscirà del capo e sciami et orti e vite e biade e paschi e mandre e gregge.
Mopso, tu parli queste cose a' morti: sì che non spender meco tal parole, acciò che 'l vento via non se le porti. Aristeo ama e disamar non vuole, né guarir cerca di sì dolce doglie: quel loda Amor che di lui ben si duole. Ma se punto ti cal delle mie voglie, deh, tra' fuor della tasca la zampogna, e canteren sotto l'ombrose foglie: ch'i' so che la mia ninfa el canto agogna.
Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole.
La bella ninfa è sorda al mio lamento e 'l suon di nostra fistula non cura: di ciò si lagna el mio cornuto armento, né vuol bagnar il grifo in acqua pura; non vuol toccar la tenera verdura, tanto del suo pastor gl'incresce e dole.
Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole.
Ben si cura l'armento del padrone: la ninfa non si cura dell'amante, la bella ninfa che di sasso ha 'l core, anzi di ferro, anzi l'ha di diamante. Ella fugge da me sempre davante com'agnella dal lupo fuggir suole.
Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole.
Digli, zampogna mia, come via fugge cogli anni insieme suo bellezza snella e digli come 'l tempo ne distrugge, né l'età persa mai si rinnovella: digli che sappi usar suo forma bella, ché sempre mai non son rose e viole.
Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole.
Portate, venti, questi dolci versi drento all'orecchie della donna mia: dite quante io per lei lacrime versi e la pregate che crudel non sia; dite che la mie vita fugge via e si consuma come brina al sole.
Udite, selve, mie dolce parole, poi che la ninfa mia udir non vuole.
El non è tanto el mormorio piacevole delle fresche acque che d'un sasso piombano, né quanto soffia un ventolino agevole fra le cime de' pini e quelle trombano, quanto le rime tue son sollazzevole, le rime tue che per tutto rimbombano: s'ella l'ode, verrà com'una cucciola. Ma ecco Tirsi che del monte sdrucciola.
Ch'è del vitello? ha'lo tu ritrovato?
Sì, così gli avessi el collo mozzo! ché poco men che non m'ha sbudellato, sì corse per volermi dar di cozzo. Pur l'ho poi nella mandria raviato, ma ben so dirti che gli ha pieno il gozzo: i' ti so dir che gli ha stivata l'epa in un campo di gran, tanto che crepa.
Ma io ho vista una gentil donzella che va cogliendo fiori intorno al monte. I' non credo che Vener sia più bella, più dolce in acto o più superba in fronte: e parla e canta in sì dolce favella che i fiumi isvolgerebbe inverso il fonte; di neve e rose ha 'l volto e d'or la testa, tutta soletta e sotto bianca vesta.
Rimanti, Mopso, ch'i' la vo' seguire, perché l'è quella di chi io t'ho parlato.
Guarda, Aristeo, che 'l troppo grande ardire non ti conduca in qualche tristo lato.
O mi convien questo giorno morire, o tentar quanta forza abbia 'l mie fato. Rimanti, Mopso, intorno a questo fonte, ch'i' vogl'ire a trovalla sopra 'l monte.
O Tirsi, che ti par del tuo car sire? Vedi tu quanto d'ogni senso è fore! Tu gli potresti pur talvolta dire quanta vergogna gli fa questo amore.
O Mopso, al servo sta bene ubidire, e matto è chi comanda al suo signore. Io so che gli è più saggio assai che noi: a me basta guardar le vacche e ' buoi.
ch'i' ti son tanto amico e che più t'amo che la vita e 'l core. non fuggir, ninfa, chi ti porta amore. ma son tuo amatore: dunque rafrena il tuo volante corso. Porgimi, Amor, porgimi or le tue ale!
Seguitando Aristeo Euridice, ella si fugge drento alla Selva, dove punta dal serpente grida, e simile Aristeo.
Segue poi UN PASTORE ad Orfeo così:
Crudel novella ti rapporto, Orfeo: che tuo ninfa bellissima è defunta. Ella fuggiva l'amante Aristeo, ma quando fu sopra la riva giunta, ch'era fra l'erb'e fior, nel piè fu punta: e fu tanto possente e crudo el morso ch'ad un tratto finì la vita e 'l corso.
Dunque piangiamo, o sconsolata lira, ché più non si convien l'usato canto. Piangiam, mentre che 'l ciel ne' poli agira e Filomela ceda al nostro pianto. O cielo, o terra, o mare! o sorte dira! Come potrò soffrir mai dolor tanto? Euridice mia bella, o vita mia, senza te non convien che 'n vita stia.
Andar convienmi alle tartaree porte e provar se là giù merzé s'empetra. Forse che svolgeren la dura sorte co' lacrimosi versi, o dolce cetra; forse ne diverrà pietosa Morte ché già cantando abbiam mosso una pietra, la cervia e 'l tigre insieme avemo accolti e tirate le selve, e ' fiumi svolti.
Pietà! Pietà! del misero amatore pietà vi prenda, o spiriti infernali. Qua giù m'ha scorto solamente Amore, volato son qua giù colle sue ali. Posa, Cerbero, posa il tuo furore, ché quando intenderai tutte e' mie mali, non solamente tu piangerai meco, ma qualunque è qua giù nel mondo cieco.
Non bisogna per me, Furie, mugghiare, non bisogna arricciar tanti serpenti: se voi sapessi le mie doglie amare, faresti compagnia a' mie lamenti. Lasciate questo miserel passare ch'ha 'l ciel nimico e tutti gli elementi, che vien per impetrar merzé da Morte: dunque gli aprite le ferrate porte.
Chi è costui che con suo dolce nota muove l'abisso, e con l'ornata cetra? I' veggo fissa d'Issïon la rota, Sisifo assiso sopra la sua petra e le Belide star con l'urna vota, né più l'acqua di Tantalo s'arretra; e veggo Cerber con tre bocche intento e le Furie aquietate al pio lamento.
O regnator di tutte quelle genti ch'hanno perduto la superna luce, al qual discende ciò che gli elementi, ciò che natura sotto 'l ciel produce, udite la cagion de' mie' lamenti. Pietoso amor de' nostri passi è duce: non per Cerber legar fei questa via, ma solamente per la donna mia.
Una serpe tra' fior nascosa e l'erba mi tolse la mia donna, anzi il mio core: ond'io meno la vita in pena acerba, né posso più resistere al dolore. Ma se memoria alcuna in voi si serba del vostro celebrato antico amore, se la vecchia rapina a mente avete, Euridice mie bella mi rendete.
Ogni cosa nel fine a voi ritorna, ogni cosa mortale a voi ricade: quanto cerchia la luna con suo corna convien ch'arrivi alle vostre contrade. Chi più chi men tra' superi soggiorna, ognun convien ch'arrivi a queste strade; quest'è de' nostri passi estremo segno: poi tenete di noi più longo regno.
Così la ninfa mia per voi si serba quando suo morte gli darà natura. Or la tenera vite e l'uva acerba tagliata avete colla falce dura. Chi è che mieta la sementa in erba e non aspetti che la sia matura? Dunque rendete a me la mia speranza: i' non vel cheggio in don, quest'è prestanza.
Io ve ne priego pelle turbide acque della palude Stigia e d'Acheronte; pel Caos onde tutto el mondo nacque e pel sonante ardor di Flegetonte; pel pomo ch'a te già, regina, piacque quando lasciasti pria nostro orizonte. E se pur me la nieghi iniqua sorte, io non vo' su tornar, ma chieggio morte.
Io non credetti, o dolce mie consorte, che Pietà mai venisse in questo regno: or la veggio regnare in nostra corte et io sento di lei tutto 'l cor pregno; né solo i tormentati, ma la Morte veggio che piange del suo caso indegno: dunque tua dura legge a lui si pieghi, pel canto, pell'amor, pe' giusti prieghi.
Io te la rendo, ma con queste leggi: che la ti segua per la ceca via, ma che tu mai la suo faccia non veggi finché tra' vivi pervenuta sia; dunque el tuo gran disire, Orfeo, correggi, se non, che tolta subito ti fia. I' son contento che a sì dolce plettro s'inchini la potenza del mio scettro.
Orfeo vien cantando alcuni versi lieti e volgesi. Ecco ch'i' ti son tolta a gran furore, né sono ormai più tua. Ben tendo a te le braccia, ma non vale, ché 'ndrieto son tirata. Orfeo mie, vale!
Oimè, se' mi tu tolta, Euridice mie bella? O mie furore, o duro fato, o ciel nimico, o Morte! O troppo sventurato el nostro amore! Ma pur un'altra volta convien ch'i' torni alla plutonia corte.
UNA FURIA: Più non venire avanti, anzi 'l piè ferma e di te stesso omai teco ti dole: vano el pianto e 'l dolor. Tuo legge è ferma.
Qual sarà mai sì miserabil canto che pareggi il dolor del mie gran danno? O come potrò mai lacrimar tanto ch'i' sempre pianga el mio mortale affanno? Starommi mesto e sconsolato in pianto per fin ch'e' cieli in vita mi terranno: e poi che sì crudele è mia fortuna, già mai non voglio amar più donna alcuna.
Da qui innanzi vo' côr e fior novelli, la primavera del sesso migliore, quando son tutti leggiadretti e snelli: quest'è più dolce e più soave amore. Non sie chi mai di donna mi favelli, po' che mort'è colei ch'ebbe 'l mio core; chi vuol commerzio aver co' mie' sermoni di feminile amor non mi ragioni.
Quant'è misero l'huom che cangia voglia per donna o mai per lei s'allegra o dole, o qual per lei di libertà si spoglia o crede a suo' sembianti, a suo parole! Ché sempre è più leggier ch'al vento foglia e mille volte el dì vuole e disvole; segue chi fugge, a chi la vuol s'asconde, e vanne e vien come alla riva l'onde.
Fanne di questo Giove intera fede, che dal dolce amoroso nodo avinto si gode in cielo il suo bel Ganimede; e Febo in terra si godea Iacinto; a questo santo amore Ercole cede che vinse il mondo e dal bello Ila è vinto: conforto e' maritati a far divorzio, e ciascun fugga el feminil consorzio.
UNA BACCANTE: Ecco quel che l'amor nostro disprezza! O, o, sorelle! O, o, diamoli morte! Tu scaglia il tirso; e tu quel ramo spezza; tu piglia o sasso o fuoco e gitta forte; tu corri e quella pianta là scavezza. O, o, facciam che pena el tristo porte! O, o, caviangli il cor del petto fora! Mora lo scelerato, mora! mora!
Torna la BACCANTE con la testa di Orfeo e dice: O, o! O, o! mort'è lo scelerato! Euoè! Bacco, Bacco, i' ti ringrazio! Per tutto 'l bosco l'abbiamo stracciato, tal ch'ogni sterpo è del suo sangue sazio. L'abbiamo a membro a membro lacerato in molti pezzi con crudele strazio. Or vadi e biasimi la teda legittima! Euoè Bacco! accepta questa vittima!
Chi vuol bevere, chi vuol bevere, venga a bevere, venga qui. Gli è del vino ancor per ti,
come vede fare a me.
son io ebria, o sì o no? Star più ritte in piè non ponno: ognun succi come me!
bevi tu, e tu, e tu! I' non posso ballar più.
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